Dominatore dal 1951 al 1977, prima con Jawaharlal Nehru poi con sua figlia Indira, il Partito del Congresso ha impresso al primo quarto di secolo di vita politica dell’India indipendente un’impronta di riscatto e di speranza. Dal colonialismo britannico, diretto e indiretto, che aveva a lungo marchiato la vita del popolo indiano, e dall’impronta illiberale e classista insita nel sistema delle caste. Ma dopo una cesura di un triennio i Gandhi, con Indira e il marito Rajiv, ripresero la guida della nazione, istaurando un meccanismo di clan familiare più che di dominio di partito. Peraltro inficiato da fattori corruttivi oltreché personalistici, non cancellati neppure con l’avvento di altri membri del National Congress. Tutto fino a un trentennio fa, quando è salito al vertice dei successi elettorali il Bharatiya Janata Party. Non era ancora il momento di Narendra Modi, il leader del partito hindu e premier si chiamava Atal Bihari Vajpayee, attivista controcorrente e poeta. Fu eletto tre volte anche se in un lasso temporale limitato (1996-2004) in un’India che aveva già iniziato a voltare le spalle al disegno riformista del NC, che alle promesse di eguaglianza e progresso faceva seguire un approccio dinastico dei Nehru-Gandhi, macchiato di brogli e nepotismo. Furono anche le promesse tradite e il desiderio di emergere da parte di decine di milioni di cittadini in una nazione grande come un continente che si sentiva potenza, a dare fiato alle trombe del nazionalismo. Rilanciato proprio da Modi, rafforzato di populismo e di orgoglio confessionale induista. Dal 2014 la scalata alla Lok Sabha è stata una progressione continua: 31% di suffragi con 282 deputati su 543, passata al 38% nel 2019 per 303 seggi e la ricerca dei 400 onorevoli per poter cambiare la Costituzione senza dover spiegarne i motivi e giustificarli al Parlamento, evitando le incognite del referendum popolare.
E’ la democrazia anabolica che piace ai partiti-regime, e il Bjp un tempo contestatore del NC ha assunto quest’impronta e ne percorre la strada. A cominciare dall’imposizione d’un capo indiscutibile, come lo fu Indira, lei investita dalla parentela, Narendra da una sorta di attribuzione divina. Se, come probabilmente accadrà, il premier riceverà una terza investitura, di fatto chi ci guadagna? Secondo alcuni analisti gli avvantaggiati sono facilmente individuabili. Sul fronte politico-ideologico in prima fila svetta il suprematismo brahminico dell’hindutva i cui adepti più fanatici sono riuniti nel Rashtriya Swayamsewak Sangh, che fa da braccio armato al partito di maggioranza. Il gruppo è squadristico, ma ha anche accesso a un gran numero di finanziamenti destinati alle istituzioni educative e culturali statali. Sul versante informativo ci sono i grandi media schierati col governo e diventati un’estensione propagandistica degli apparati del Bjp. In economia sempre più spazio alle iniziative private dei magnati interni, come la coppia Ambani-Adani, che imperversa da oltre un decennio garantendo finanziamenti alla politica del grande capo. Porte aperte a investimenti stranieri, soprattutto le multinazionali attratte dal clima di poche regole in fatto di sicurezza, tutela dei lavoratori e dell’ambiente, possibilità di super sfruttamento d’una manodopera bisognosa di occupazione e disposta ad accettare salari di fame. Ci rimettono gli emarginati di sempre: dalit, adivasi e giovani in genere. Quelli che devono abbandonare la scuola e anche coloro che riescono a studiare. Negli ultimi tempi il movimento degli studenti ha denunciato i tagli di fondi all’istruzione e la caduta di istituzioni come la Jawaharlal Nehru University e la Delhi University scivolate nella mediocrità rispetto ai momenti di maggior fulgore. Nel Bharat disegnato dal nuovo dominatore politico il progresso passa più per i templi che per le scuole.
Nessun commento:
Posta un commento