sabato 29 giugno 2024

Presidenziali iraniane: Pezeshkian o Jalili

 


Saranno le due anime militari d’un Iran passato, quello della guerra con l’Iraq, a contendersi la presidenza della Repubblica Islamica. Quella gentile del medico che salvava le vite, Mosoud Pezeshkian, la spunta su quella rude del basij Saeed Jalili. Gli dà quasi un milione di voti di distacco: 10.4 contro 9.5. In un Paese dove prevale l’astensionismo che affossa ancor più delle ultime consultazioni la fiducia nell’urna: 48% di votanti alle presidenziali del 2021, 41% alle politiche del marzo scorso, un 40% scarso ieri. Khamenei alla vigilia aveva detto: “Prego Dio Onnipotente per i giorni e gli anni migliori e per le più grandi benedizioni per la nostra amata nazionela partecipazione del popolo è necessaria e obbligatoria per dimostrare la validità e l'onestà del sistema della Repubblica islamica”. Ma convincere l’ala intransigente dell’ultimo movimento di protesta Donna, vita, libertà (2022) è praticamente impossibile e dello stesso parere è la vecchia guardia della contestazione dell’Onda verde (2009) con un uomo simbolo come Mousavi che è rimasto a casa, non solo per il fermo domiciliare poliziesco. Una corposa maggioranza non va ai seggi per non legittimare un regime cui è ostile e non crede più neppure alle favole riformiste, come ai tempi di Rohani che pure aveva fatto il pieno dei voti dell’attivismo femminile e giovanile. Ora l’incognita è quanto gli elettori del riformista morbido Pezeshkian vorranno fare per eleggerlo. Quanto lui potrà essere attrattivo per chi ha finora scelto di disertare l’urna, quanto potrà calamitare il suffragio del terzo candidato, il principalista Ghalibaf, il perdente bocciato per la terza volta nella corsa alla presidenza nonostante il sostegno dei Guardiani della Rivoluzione. Teoricamente i voti di chi l’ha sostenuto dovrebbero orientarsi su Jalili, ma già il fatto che i due conservatori si siano misurati nei preliminari senza trovare l’accordo per un’unica candidatura che poteva conseguire un successo al primo turno, dimostra la spaccatura fra le varie anime del principalismo iraniano. Come, e forse più, dell’epoca di Ahmadinejad.  

 

Sostenere un ‘riformista’ per l’entourage dei Pasdaran sa di eresia, anche perché durante la campagna elettorale  Pezeshkian ha espresso concetti simili: “Chi sono quelli che scalano le pareti dell'ambasciata britannica, spingendo la sua chiusura? Erano i riformisti? Chi sono stati quelli che hanno dato fuoco all'ambasciata saudita, le cui azioni sono state applaudite come un successo dai giornali della linea dura? E tutto ciò ha spinto così tanti altri Paesi a chiudere le loro ambasciate. Le stesse persone che hanno preso d'assalto le ambasciate e hanno scalato le mura sono ora state nominate a posti di governo." Frasi sferzanti verso chi tiene alta la tensione non solo contro ‘il Grande e il Piccolo Satana’. Intanto il clima infuocato, non solo metaforicamente, d’uno scontro diretto con Israele non è mai stato così vicino, e non solo per volontà dell’ala dura del conservatorismo politico iraniano. Pertanto se venerdì prossimo il terzo uomo, ora diventato primo, dovesse spuntarcela con voti di più varia provenienza: dai convinti dell’ultim’ora a rinunciare all’astensionismo ai fedeli di Ghalibaf infedeli però al basij Jaalili, il mare in cui dovrà nuotare l’Iran affidato a Pezeshkian sarà comunque burrascoso. L’alleato d’acciaio Hezbollah è già in guerra strisciante con Israele che non rinuncia all’apertura d’un fronte settentrionale. Riuscire a smarcarsi da un conflitto che minaccia le radici nazionali non è facile, anche perché l’orgoglio patrio appartiene allo stesso riformista gentile e pure a molti dei suoi sostenitori. Disastroso presagio quello d’un coinvolgimento militare ancora più intenso, ma l’uomo che s’è affidato a Khamenei, pur avendo il sostegno dei Khatami e Zarif, degli ambienti politici più aperti al dialogo, alla distensione, dal nucleare alla questione dei diritti, dovrebbe rispondere da neo presidente della Repubblica Islamica ai princìpi su cui essa si basa. La sfida del 5 luglio è apertissima e non sarà un momento di trasformazione ma di conservazione. Di quello che l’Iran è costretto a fare anche per volontà non sua: conflitti militari ed economici, chiusure anziché aperture. Lo zampino di quanto accade a Teheran e dintorni non è solo determinato dal clero militante e dal militarismo interno, che in ogni caso restano un potere non scalfito. 


 

lunedì 24 giugno 2024

Presidenziali iraniane, il terzo uomo

 


Orgoglioso dell’origine azera il settantenne Masoud Pezeshkian è il candidato che l’elettorato interno e l’opinione pubblica internazionale non s’aspettavano. Invece il ‘Consiglio dei Guardiani’, l’organo che vigila e seleziona le candidature e ha scelto i sei sfidanti per la carica di presidente della Repubblica Islamica iraniana (si vota il 28 giugno) non solo l’ha inserito nel gruppo, ma non ne limita la campagna elettorale. I Guardiani non brillano per terzietà però una volta proposti i contendenti non interferiscono granché. Solo che fra i pretendenti alla carica, seconda in gerarchia solo a quella della Guida Suprema, Pezeshkian risulta un elemento ben distante dagli altri cinque, tutti conservatori, quattro laici e un chierico. Lui è un riformista, non proprio il Mousavi d’un quindicennio addietro, sicuramente non un ‘principalista’. Il suo passato è legato agli studi in medicina che, durante il buio periodo di guerra contro l’Iraq, gli ha offerto la possibilità di entrare nelle squadre mediche, gente che serviva la prima linea ma non stava sotto le bombe e i gas di Saddam. Di quell’epoca Masoud può sfoggiare la foto in divisa da combattente, certo non rivendicare un passato da perfetto basij come Jalili, il ‘martire vivente’ con tanto di menomazione d’un arto. Ma della serietà nella vita privata Pezeshkian si fa vanto: ha cresciuto la prole dopo la morte prematura della consorte, ha conservato lutto e fedeltà nella vedovanza, ha adempiuto ai doveri paterni nonostante i molteplici impegni professionali di chirurgo presso l’Università di Scienze mediche Tabriz.  Tradizione e osservanza dei costumi islamici riguardo alla famiglia colpiscono l’elettorato conservatore che potrebbe passare sopra ai suoi orientamenti riformisti. Nati trent’anni fa quando fu viceministro e poi ministro della Salute durante la presidenza di Khatami. Nel 2009, criticando la repressione delle proteste dell’Onda Verde, s’inimicò l’intero fronte conservatore, clericale e laico. Eppure ha continuato a essere eletto nel Majlis, ha sostenuto le aperture per l’accordo nucleare di Rohani nel 2015 e di recente ha criticato la nuova repressione delle rivolte giovanili che denunciavano l’assassinio di Masha Amini. 

 

Estraneo ad appartenenze claniste, chi si stupisce che in questa fase di rigido controllo sulla rappresentanza  politica un elemento come Pezeshkian possa calamitare voti fuori dal coro (si vocifera che i fan di Ahmadinejad convoglierebbero le preferenze su di lui per sparigliare il campo e ostacolare la coppia dei favoriti Jalili e Ghalibaf) può trovare nella sua dedizione a Khamenei l’ancoraggio nel sestetto che si gioca la presidenza. Una duplice fede: al ruolo di Guida Suprema, che il riformismo radicale vorrebbe cancellare o ridimensionare insieme al superpotere del velayat-e faqih, e alla persona nonostante l’età, nonostante l’ipotesi d’un “pensionamento”. Il motivo del sentimento sarebbe la comune radice etnica azera, magari lo stesso grande vecchio guarda con occhio benevolo questo candidato spurio, dato tutt’al più per out-sider. Proprio in apertura di campagna elettorale Pezeshkian s’è rivolto alle minoranze etniche come fattore aggregante per recuperare il voto dei numerosissimi astensionisti nelle aree del nord-ovest del Paese, dove più dura e partecipata era la protesta dell’ultimo biennio. Esiste ovviamente un rovescio della medaglia: messa sul piano etnico la propaganda fa voltare le spalle ai persiani che si ritengono il fulcro della nazione, specie nelle aree rurali. Secondo i politologi la debolezza di Pezeshkian riguarda alcuni punti nodali della politica economica. Il candidato insiste nel richiedere aperture a capitali stranieri, ma quelli occidentali sono da tempo bloccati dal noto embargo, gli asiatici risentono degli orientamenti d’una geopolitica oscillante e per nulla lineare, proprio gli investimenti del colosso cinese che vanno e vengono starebbero a dimostralo. Insomma Masoud ci prova, occorrerà vedere chi userà chi. La sua presenza attirerà senz’altro più elettori, e questa è la mossa usata dal “Consiglio dei Guardiani” per aumentare la partecipazione al voto. Ma la disillusione popolare verso il riformismo è elevata e il fronte principalista è attrezzato a evitare sorprese. 


  

giovedì 20 giugno 2024

Macello-Italia

 


Taluni commenti di esperti sull’atroce episodio in cui ha perso la vita Satman Singh - morto per l’ulteriore colpevole mancanza del datore di lavoro (Antonello Lovato, solo qualche anno in più del dipendente sbracciato e dissanguato), la prima era uno sfruttamento schiavistico mascherato in lavoro, la seconda l’assenza di soccorso davanti a un ferimento gravissimo - mettono in relazione questioni che possono avere un unico comune denominatore: la scellerata illegalità del padroncino. Certo che sottopagare una prestazione comporta maggiori margini per abbassare il prezzo della merce, ma non è questo che ha fatto morire il bracciante indiano. La sicurezza viene bellamente aggirata con tanto di documentazione bollata, e chi si occupa della materia lo ripete fino alla nausea: c’è bisogno di controllare dal vivo i posti di lavoro. Ovviamente quelli pericolosi, gli incidenti negli uffici difficilmente producono decessi. Perché i controlli mancano? Si dice che gli ispettori sono pochi e le amministrazioni locali e i governi fanno in modo che rimangano tali non prevedendo assunzioni e ampliamenti d’organico. Invece non sono pochi coloro che vestono una divisa, ma giungono sul luogo del misfatto solo per constatare la morte del lavoratore, non per prevenirla. Così quel che tutti conosciamo e in alcuni casi vediamo, prosegue impunemente. L’illegalità legalizzata è nota alle Istituzioni che magari legiferano norme puntualmente inosservate per la citata mancanza di controlli e sanzioni severe. All’omertà ricattatoria imposta ai ‘lavoratori invisibili’ trasformati in cadaveri da smaltire, s’unisce quella delle associazioni di categoria, in certi casi mastodonti (Confagricoltura, Coldiretti, Legacoop, Confcooperative) che poco verificano di che pasta son fatti i soci e se viene a galla qualche problema, per fortuna mica solo incidenti e decessi ma le più frequenti evasioni fiscali, parlano di mele marce. Proprio così, anche se non si coltiva frutta. C’è bisogno sempre d’indagini della magistratura? No. Basterebbe un po’ d’autocontrollo applicando la decantata deontologia. Basterebbe non perdere la faccia.

 

Ma non sembra questo l’intento di parecchie categorie d’impresa, attente solo al mercato e al fatturato. Magari alla réclame che le proclama: pop, intelligenti, made in Italy, chilometro zero anche quando i chilometri percorsi dalle merci hanno molti, molti zeri. Inchieste giornalistiche ormai datate hanno sbugiardato alcuni prodotti italiani d’eccellenza, oro della ‘filiera controllata e dop’ come il Consorzio del Parmigiano Reggiano che prendeva il latte da un’Ucraina allora non in guerra e da altri Paesi comunitari e non. Idem per il Consorzio del Prosciutto di Parma le cui cosce di suino venivano anche da Romania, Serbia e chissà dove. I maiali dell’est europeo sono meno sani? Forse no, ma risultano meno controllati e soprattutto i consumatori venivano turlupinati da una pubblicità che garantisce una produzione 100% italiana. Oggi s’è cambiato registro? Mah, la certezza è vaga. E sembra che i suddetti esperti non siamo proprio avvezzi a fare la spesa quando decantano la sicurezza, non dei metodi di produzione che non appaiono e non devono apparire sulle etichette, dovrebbero essere vigilati a monte, ma la sicurezza della genuinità della merce. La caparbia Sabrina Giannini da anni si dedica a mostrare cosa c’è dietro alcune etichette ipercertificate attraverso trasmissioni televisive che hanno scontentato non tanto i colossi mondiali come Monsanto, poco avvezzo alla nostra tivù, ma aziende del ‘made in Italy’ come il Gruppo Cremonini Spa in diretto rapporto mercantile con gli allevamenti intensivi responsabili d’un impatto ambientale assolutamente insostenibile. L’attenta comunicazione dell’azienda ricorda che: “…l’alimentare è il secondo settore industriale italiano, un sistema di 6.500 imprese, con 400.000 addetti, 120 miliardi di fatturato che segue un regime normativo europeo rigoroso”. Peccato che diversi reportage hanno evidenziato altro, che i maiali acquistati dal Gruppo Cremonini provengono anche da allevatori-malfattori incuranti di igiene e ogni sorta di presidio sanitario, per tacere sul bestiale trattamento delle bestie. Sarà per questo che la Rai vuole esiliare la giornalista? Sarà per questo che nel novembre scorso il presidente della Coldiretti Prandini ha aggredito il deputato Magi che protestava davanti a Montecitorio per il voto contrario alla carne coltivata? 


 

mercoledì 19 giugno 2024

Satnam Singh, la terra d'Italia non gli è stata lieve

 


Disumani questo siamo, questo siamo diventati. Non solo a Latina, un po’ ovunque, specie dove gli “imprenditori” dell’Italia che si sente potenza, spadroneggiano coi dipendenti connazionali, e molto più, e molto peggio con gli invisibili lavoratori dell’altro mondo. E quando accade che nel mondo dei più ci finiscono nella maniera selvaggia e bellica i Satnam Singh, sconosciuto alle stesse agenzie che ieri battevano la notizia del suo strazio chiamandolo indiano dal luogo di provenienza come abbiamo fatto anche noi, gli “imprenditori” parlano d’incidente. Punto e basta. Non cercano il soccorso necessario davanti a un uomo lacerato nel fisico e dal dolore, lo caricano come merce di scarto, perché pensano che tale sia diventato. Lo scaricano lontano dal luogo dell’agguato-assassinio. Rimuovono quel corpo straniero, lavano la propria coscienza col sangue che sicuramente usciva copioso dall’arto tranciato. Non pensano che possa morire, proprio no. Poi davanti alle telecamere che cercano conferme sulla terribile notizie gridano: “E’ un incidente, andate via”. Un incidente? Per loro sì, è solo un incidente e via andare, la vita continua. Però il lavoratore indiano, Satnam, trentuno anni e la speranza che sudando dieci ore e più sul campo assolato una migliore sistemazione sarebbe arrivata, se soccorso all’istante si poteva salvare. Invece nei mille modi d’una quotidianità diventata superficialmente diabolica e peggiore d’una pellicola Pulp, si getta quel busto che gronda sangue, ci si scrolla di dosso gli eventuali schizzi, si volta la testa alla propria responsabilità criminale e si tira dritto verso l’azienda. Questo sono diventati l’impresa, il commercio e dentro ci sono grandi e piccini, le famigerate Srl carezzate dai liberisti e protette dalle sigle padronali d’ogni colore. A tal punto che quel pizzico di sindacalismo ancora impegnato a tutelare i lavoratori - regolari o irregolari -  talvolta arrossisce pensando agli organismi della stessa sponda politica che chiudono gli occhi davanti ai padroncini assassini. Omicidio colposo e omissione di soccorso dice la legge che indaga. Chi scrive, pur avendo studiato Rousseau e il suo contratto sociale, pensa per un attimo alla legge del taglione. Magari quegli atti d’accusa venissero applicati e anche stavolta non finisse come per la ThyssenKrupp e la strage ferroviaria di Viareggio…

martedì 18 giugno 2024

L’Italia dei braccianti dimezzati

 


Un bracciante che perde un braccio, cos’è? Una certa Italia, mai benevola col lavoro delle mani, lo trattava da un uomo dimezzato nell’efficienza produttiva e lo compensava con mezza paga. Non importava se il malcapitato s’affannasse a lavorare sodo dimenando velocemente l’altro arto, il salario era dimezzato. Accadeva nel Novecento giolittiano e in quello della rivoluzione fascista, che però ai mutilati d’ogni guerra, ancor più se coloniale, concedeva compensazioni. L’Italia della ricostruzione e del boom economico accordava qualcosa agli incidentati delle braccia da lavoro. Allora si parlava di progresso e di tutele. Alcune sono arrivate, ma tanti diritti sono stati smarriti o sono rimasti sogni. Nell’Italia digitalizzata le difese sono scemate sebbene, o non a caso, si registrino un anno via l’altro mille e passa caduti di pacifico lavoro. “Morti bianche” le chiamavano con un ossimoro pazzesco perché non c’è luce né chiarezza in tanti di questi assassini legalizzati. L’altro alibi è la fatalità o peggio la disattenzione per la quale il boomerang della menomazione o del decesso s’addossa a chi ne è colpito. La classe che frequenta campagne e cantieri e le fabbriche che restano e i tanti magazzini dove s’accumula la robbba da riversare negli scaffali delle vendite - ingrosso o dettaglio non fa differenza - la classe operaia è l’unica a guardare in faccia la morte o la lesione di corpi martoriati da impalcature, trivelle, presse, muletti su cui si lavora in una sicurezza resa insicura da inosservanze, assenza di controlli, ritmi, subappalti, caporalato. Fino a giungere a Borgo Santa Maria nel Pontino, vicino alle case che sanno di patria: Borgo Piave, Bainsizza, Podgora.  Campagne con una storia densa di contraddizioni che qui non trattiamo, e da tempo al centro di cronache di super sfruttamento bracciantile, fatto da sikh ultimamente ribelli a padroncini e moderni campieri. Lì un bracciante indiano ha avuto l’arto tranciato da una falciatrice meccanica ed è stato “soccorso” in questo modo: infagottato e trasportato su un pulmino verso l’abituale alloggio. E lasciato lì. Però i padroni benevoli non gli hanno fatto mancare il braccio, gettato accanto al corpo martoriato. I contadini del Punjab rischiano trattamenti simili? Può darsi. Ma intanto questo accade da noi e vedremo cosa faranno le festaiole istituzioni da G7.

mercoledì 12 giugno 2024

L’Iran cerca il presidente

 


E’ l’unico chierico del sestetto che fra due settimane corre per la presidenza iraniana. Mostafa Pourmohammadi, sessantaquattro anni, nato e formatosi nella città santa di Qom, frequentando la ‘Haqqani school’ diretta dagli ayatollah più conservatori del Paese, Yazdi e Taghi. E’ inserito nell’Associazione del clero combattente, è un politico navigato, già ministro dell’Interno durante il primo mandato di Ahmadinejad quindi responsabile della Giustizia sotto la presidenza di Rohani. Forma con Saeed Jalili già negoziatore per il nucleare e membro del “Consiglio per il discernimento” e Mohammad Bagher Ghalibaf ex sindaco di Teheran, il trio che può giocarsi il ruolo più importante della Repubblica Islamica dopo l’immarcescibile Guida Suprema Ali Khamenei. L’elezione del 28 giugno deve sanare l’emergenza scaturita dall’inatteso decesso in un incidente aereo del presidente Ebrahim Raisi. La scrematura dei candidati operata, come di prammatica, dal Consiglio dei Guardiani inserisce anche l’attuale sindaco della capitale Alireza Zakani, il capo della Fondazione dei Martiri e dei Veterani Ghazizadeh Hashemi, e il deputato Masoud Pezeshkian, l’unico riformista della compagnìa, un riformista moderato com’è stato Rohani del cui gruppo Pezeshkian faceva parte. Ancora una volta la componente realmente riformatrice non ha figure di riferimento in questa corsa e com’è accaduto a marzo con le parlamentari, si asterrà e boicotterà il voto. Chi si recherà alle urne per convinzione o appartenenza agli orientamenti tradizionalisti espressi dai cinque-sesti dei prescelti all’elezione, punterà sui volti più noti entrambi laici: Jalili e Ghalibaf.

 

Il cinquantanovenne Jalili è stato un combattente nella guerra contro Saddam, aderiva alle milizie basij che lasciarono sul terreno molte decine di migliaia di morti. Con la menomazione a una gamba porta su di sé la devozione alla nazione e al sistema khomeinista tanto da essersi guadagnato il titolo di “martire vivente”. Nativo di Mashhad ha conseguito il dottorato in Scienze politiche. Vanta un’amplissima esperienza diplomatica iniziata nel 1989 e proseguita, a vario titolo, con diversi presidenti. Nel 2001 ha ricevuto l’investitura di direttore della pianificazione politica della Guida Suprema, un elemento non secondario nel personale curriculum che lo pone vicino alla famiglia Khamenei. Lo stesso Mojtaba, figlio dell’ayatollah, è un suo estimatore politico. La componente ‘neo-principalista’ lo individua come importante figura di riferimento. Si è affacciato in altre due occasioni alle presidenziali: nel 2013 si classificò terzo con oltre quattro milioni di preferenze. Nel 2021 ritirò la candidatura a favore di Raisi poi vincitore. Altrettanto noto, ma controverso è il personaggio Ghalibaf. Sessantatré anni e anch’egli reduce, ma senza ferite, della guerra Iran-Iraq. E’ stato a capo delle truppe dell’Imam Reza, a conflitto concluso divenne direttore di un’azienda d’ingegneria controllata dai Pasdaran, un’appartenenza che ha il proprio peso. Nel 2000, in pieno sviluppo di carriera, divenne responsabile delle Forze di polizia, fino a subentrare ad Ahmadinejad, eletto presidente, alla guida della metropoli di Teheran. Si è più volte parlato di lui come possibile Capo di Stato, nella tornata del 2013 raccolse oltre sei milioni di voti, ma non potè nulla contro Rohani capace di fare il pieno di consensi anche dei giovani riformisti, fiduciosi in aperture interne che non ci furono. Un’ombra ha sempre inseguito Ghalibaf. Una vicenda del 2002 riguardante la moglie Zahara Moshiri e alcuni familiari che riportavano da viaggi all’estero copiosi bagagli con prodotti di lusso. L’accusa, smentita dall’interessato e dagli apparati statali, contrastava con gli inviti del sindaco ai concittadini di acquistare solo merce nazionale. Successivamente l’addebito è stato rafforzato dall’annuncio divulgato da un giornalista iraniano in Turchia dell’acquisto di appartamenti a Istanbul da parte di moglie, figlia e genero di Ghalibaf. Spesa finale 1,6 milioni di dollari.


 

venerdì 7 giugno 2024

Gli alleati di Modi: prese e pretese

 


Vale dodici seggi l’appoggio al terzo governo consecutivo di Narendra Modi da parte di Janata Dal (United), gruppo locale con una presenza radicata nell’India orientale e nel poverissimo Bihar. Con poco più di venticinque anni di vita JD rappresenta una delle formazioni più recenti della storia politica del Paese, frutto di scissioni e avvicinamenti fra chi vuole distinguersi dai partiti storici. L’alleanza col Bharatiya Janata Party non è una novità, i due schieramenti s’erano cercati e reciprocamente appoggiati una quindicina di anni fa, durante la salita di Modi ai vertici del partito induista e prima che diventasse Primo Ministro. Seguì un allontanamento proprio nel Bihar e di conseguenza sulla scena nazionale. In quella fase Janata Dal ha oscillato verso componenti socialisteggianti e addirittura, per un breve periodo, ha stabilito un connubio col Partito Comunista dell’India. L’elettorato non gradì e le elezioni fruttarono solo due seggi. Marcia indietro nel 2015 con tentativi di alleanza aperte ma infruttuose e l’avvio d’un percorso solitario. Nel 2022 il gruppo seguiva l’ipotesi del cartello elettorale contro il premier proposto da Rahul Gandhi, quindi ancora un ripensamento. Lo stesso ultimo riavvicinamento al Bjp, tanto da diventare un puntello del terzo governo Modi, è scaturito a pochi mesi dalla scadenza dell’urna. Insomma il partito non brilla per chiarezza d’intenti e di programma. E l’elettorato si trova davanti all’ennesimo caso di partito personalizzato. L’attuale leader Nitish Kumar, classe 1951, è un ingegnere elettronico, il suo ingresso in politica fu quasi fortuito poi ci prese gusto conquistando il ruolo guida nella regione dov’è nato. Una sua grande sfida si è rivolta all’ordine pubblico. Nemici le bande criminali che praticavano sequestri e le lotte sociali guidate da gruppi maoisti. Per tamponarle Kumar fece istituire tribunali speciali e la polizia ottenne facilità di arresti. In più il premier locale creò reparti speciali formati da poliziotti in quiescenza. 

 

All’apparenza l’uomo sembra mite e schivo, non solo ora che è invecchiato. In realtà è funzionale a ben precisi scopi, adesso riassunti nell’appoggio incondizionato a Modi. "Resteremo con voi (il Bjp, ndr) per qualsiasi cosa abbiate bisogno" aveva detto in apertura della campagna elettorale. Di recente il suo “baciamano” al premier nella riunione della National Democratic Alliance è stato mostrato da più d’un servizio televisivo. Dalla disponibilità al palesato servilismo il passo risulta breve. Ma chi conosce Kumar sostiene che i suoi calcoli li ha sempre fatti e assieme  all’altro alleato momentaneo, l’ambizioso Chandrababu Naidu, presenteranno al capo la lista della spesa: un ministero per ognuno dei quattro parlamentari che votano il governo di Delhi. Che significa tre dicasteri a Kumar e quattro a Naidu. Lo staff di Modi ha messo le mani avanti e blindato alcuni posti chiave: Difesa, Esteri, Interni, Finanza non sono rivendicabili dagli alleati. Infatti se Modi non riuscirà a modificare la Costituzione intende lanciare coi ministri del proprio partito riforme in alcuni settori-chiave e mantenere il controllo assoluto in politica estera e nazionale. Da padrone di casa vorrà conservare anche i dicasteri dello Sviluppo delle infrastrutture, Welfare, Affari giovanili e Agricoltura. Ridimensiona le pretese esterne: al tecnologico Naidu concede l’investitura nel ministero dell’Elettronica e dell’Informazione, l’Aviazione civile e la produzione dell’Acciaio. A Kumar affida i ministeri del Panchayati Raj (l’autogoverno locale dei villaggi rurali) e lo Sviluppo rurale. Destina il dicastero delle Industrie Pesanti a Shiv Sena, alleato piccino da sette seggi però ideologicamente suprematista e dunque ben visto dagli arancioni. Altri piatti per la fame di posti dei compari di governo i ministeri del Turismo, Sviluppo delle competenze, Scienza e Tecnologia, Scienze della terra, Giustizia sociale e Crescita. La lotteria delle assegnazioni è partita, ma le carte continua a darle il premier, solo parzialmente dimezzato.
 

 

giovedì 6 giugno 2024

Modi sulla punta d’aratro di Telugu Desam

 


La capanna, la ruota, l’aratro. C’è un’India antica nella simbologia, tuttora presente, del Partito Telugu Desam, uno dei due alleati grazie ai quali Modi potrà formare un esecutivo e avviare il suo terzo mandato. La stessa bicicletta, adottata dal gruppo nei suoi quarant’anni di vita politica, è un mezzo ancora diffusissimo nello Stato-continente, ma fra i meno abbienti. Ormai i ceti medi non guardano neppure alle motorette, roba da nonnetti. Puntano sulle quattroruote spesso neanche autoctone, tipo Tata o Mahindra & Mahindra che di veicoli ne sfornano a milioni. Eppure i colletti bianchi rappresentano, insieme ad agricoltori e adivasi, lo zoccolo duro dell’elettorato di questo partito locale che nel familiare Andhra Pradesh ha raccolto più della metà dei seggi a disposizione, tredici su venticinque. Un partito relativamente giovane, com’è facile trovarne in India, dove solo il rinato National Congress e la destra più estrema del Rashtriya Swayamsevak Sangh che fa da puntello dal Bharatiya Janata Party, vantano un passato lontano. TDP predica il liberismo con l’orgoglio tèlugu, che è una delle tante lingue del Bharat, ma d’una certa importanza visto che è parlata da circa cento milioni di cittadini. A costoro il partito locale promette benessere usando l’aratro, la bici o il computer, non sono passatisti si dichiarano liberisti. Come sintonizzare il libero mercato fra gli elettori contadini che, quattro anni or sono e non solo nell’Andhra Pradesh, hanno dato vita a furenti contestazioni proprio delle scelte di Modi favorevoli alle multinazionali dei campi e oppressive verso i piccoli e medi agricoltori, è l’ennesimo mistero di quelle grandi bolle di sapone che sono le campagne elettorali. Ovviamente non solo in India. Per tali scadenze i partiti promettono tutto e il suo contrario, e spesso gli elettori per seguirli e votarli azzerano la memoria sulle condizioni sociali conosciute e addirittura sulle vicende che li hanno riguardati. 

 

Telugu Desam ha legato l’ultimo trentennio politico a mister Nara Chandrababu Naidu, oggi settantaquattrenne e nuovamente primo Ministro nell’Andhra Pradesh. Formatosi nel National Congress, l’abbandonò per aderire al partito Telugu fondato nel 1982 dall’ex star di Bollywood Nandamuri Taraka Rama Rao, che dall’anno precedente era anche suo suocero. Un’idea nient’affatto brillante e innovativa per Naidu che aveva abbandonato il NC contestandone fra l’altro l’aspetto dinastico e clanista. Per non farsi mancare nulla, l’ascesa nella gerarchia del nuovo gruppo politico Naidu la ottenne proprio contro Rama Rao, agitando una faida interna senza curarsi minimamente della parentela acquisita. Impossessatosi del Telugu Desam l’ambizioso Nara, Babu per i fedelissimi, nel 1995 si prese per la prima volta anche la direzione dello Stato federato di cui è tornato premier. Si presentava come un riformatore economico e sostenne con convinzione l’innovazione tecnologica, sua l’invenzione di Hitec city creata a Hyderabad, la storica capitale della regione. L’uomo si è distinto per realismo con la creazione d’infrastrutture in aree dedite prevalentemente all’agricoltura (riso, canna da zucchero, cotone, tabacco) e allo sfruttamento del sottosuolo (amianto, carbone, rame, uranio). Per pragmatismo con cui ha ottenuto la presenza d’investitori stranieri (la coreana Kia Motors) nel suo Stato, e le decine di migliaia di posti di lavoro scaturiti gli hanno dato grande popolarità fra i concittadini. Nel settembre dello scorso anno è stato accusato d’un coinvolgimento personale in un’operazione truffaldina e accaparramento di denaro destinato alla formazione giovanile. Finito in galera per due settimane ne è uscito dopo il pagamento d’una cauzione. L’immagine non sembra averne risentito e neppure la popolarità vista la recente rielezione alla guida dello Stato. Facendosi vanto di origini popolari, d’un successo politico conseguente e di scaltrezza Naidu potrebbe far pagare caro a Modi il bisogno dei suoi voti nella Lok Sabha. Se a favore dello sviluppo dell’Andhra Pradesh o d’intrecci personalistici si vedrà.

martedì 4 giugno 2024

Le elezioni ridimensionano Modi

 


Un ridimensionamento lungo 44 giorni che consentirà comunque a Narendra Modi di guidare la ciclopica nazione indiana, però lo ingessa limitandone le agognate riforme. A  cominciare da quella costituzionale che probabilmente non farà per non rischiare di vederla bocciata dal referendum popolare, necessario perché il Bharatiya Janata Party non ha i numeri per evitarlo. Perdendo più di sessanta seggi il partito del premier non raggiunge il quorum neppure per formare l’esecutivo, lo raccoglie nella National Democratic Alliance grazie agli iper liberisti di Telugu Desam e alla formazione locale Janata Dal che portano la supremazia nella Lok Sabha a 293 deputati. Nel 2019 303 li aveva piazzati da solo il Bjp, che in ogni caso festeggia, cercando di oscurare la vera gioia dei partiti d’opposizione saliti a 232 deputati, ben 113 in più di cinque anni or sono. E se ci si son messi in ventisei a contrastare il grande capo hindu attraverso la coalizione denominata India (Indian National Developmental Inclusive Alliance) sono soprattutto tre i gruppi a costituire l’ossatura anti Modi. Il vecchio National Congress, ringiovanito col volto di Rahul Gandhi che sfiora i cento scranni parlamentari, Samajwady Party e All India Trinamool Congress tutti capaci di rosicchiare seggi in alcuni feudi del Bharatiya: in Uttar Pradesh, West Bengal e Maharashtra si sono registrati i crolli maggiori per il partito di maggioranza. In lieve calo la percentuale di voto (66%) che in ogni caso fa registrare cifre da capogiro: 642 milioni di elettori. L’immensa India colpisce l’immaginario globale e vuole far pesare proprio l’elemento partecipativo dei cittadini nei momenti istituzionali. Ma alla parata delle schede l’opposizione lanciava un grido d’allarme per una democrazia da difendere contro la polarizzazione cercata negli ultimi anni da chi resta al potere. L’avvertimento ha convinto molti indiani a porre un argine alla deriva confessionale e razzista. Una maggioranza relativa ma cospicua vuole seguire il guru Modi, popolarissimo e veneratissimo, in capo al mondo che promette di conquistare a suon di affari e diplomazia. Sebbene l’iniziale reazione dei mercati al suo successo dimezzato stia penalizzando i titoli delle società dei ricconi che gli sono amici e finanziatori: in svariate Borse quelli del tycoon Adani risultano in caduta libera. Narendra si ripresenta sulla scena con fare ascetico, dovrà fare miracoli per stupire ancora i sodali interni e internazionali. Tanti indiani cominciano a ricredersi.  

lunedì 3 giugno 2024

India, dalla chimera dei Gandhi alla sicumera di Modi

 


Dominatore dal 1951 al 1977, prima con Jawaharlal Nehru poi con sua figlia Indira, il Partito del Congresso ha impresso al primo quarto di secolo di vita politica dell’India indipendente un’impronta di riscatto e di speranza. Dal colonialismo britannico, diretto e indiretto, che aveva a lungo marchiato la vita del popolo indiano, e dall’impronta illiberale e classista insita nel sistema delle caste. Ma dopo una cesura di un triennio i Gandhi, con Indira e il marito Rajiv, ripresero la guida della nazione, istaurando un meccanismo di clan familiare più che di dominio di partito. Peraltro inficiato da fattori corruttivi oltreché personalistici, non cancellati neppure con l’avvento di altri membri del National Congress. Tutto fino a un trentennio fa, quando è salito al vertice dei successi elettorali il Bharatiya Janata Party. Non era ancora il momento di Narendra Modi, il leader del partito hindu e premier si chiamava Atal Bihari Vajpayee, attivista controcorrente e poeta. Fu eletto tre volte anche se in un lasso temporale limitato (1996-2004) in un’India che aveva già iniziato a voltare le spalle al disegno riformista del NC, che alle promesse di eguaglianza e progresso faceva seguire un approccio dinastico dei Nehru-Gandhi, macchiato di brogli e nepotismo. Furono anche le promesse tradite e il desiderio di emergere da parte di decine di milioni di cittadini in una nazione grande come un continente che si sentiva potenza, a dare fiato alle trombe del nazionalismo. Rilanciato proprio da Modi, rafforzato di populismo e di orgoglio confessionale induista. Dal 2014 la scalata alla Lok Sabha è stata una progressione continua: 31% di suffragi con 282 deputati su 543, passata al 38% nel 2019 per 303 seggi e la ricerca dei 400 onorevoli per poter cambiare la Costituzione senza dover spiegarne i motivi e giustificarli al Parlamento, evitando le incognite del referendum popolare.

 

E’ la democrazia anabolica che piace ai partiti-regime, e il Bjp un tempo contestatore del NC ha assunto quest’impronta e ne percorre la strada. A cominciare dall’imposizione d’un capo indiscutibile, come lo fu Indira, lei investita dalla parentela, Narendra da una sorta di attribuzione divina. Se, come probabilmente accadrà, il premier riceverà una terza investitura, di fatto chi ci guadagna? Secondo alcuni analisti gli avvantaggiati sono facilmente individuabili. Sul fronte politico-ideologico in prima fila svetta il suprematismo brahminico dell’hindutva i cui adepti più fanatici sono riuniti nel Rashtriya Swayamsewak Sangh, che fa da braccio armato al partito di maggioranza. Il gruppo è squadristico, ma ha anche accesso a un gran numero di finanziamenti destinati alle istituzioni educative e culturali statali. Sul versante informativo ci sono i grandi media schierati col governo e diventati un’estensione propagandistica degli apparati del Bjp. In economia sempre più spazio alle iniziative private dei magnati interni, come la coppia Ambani-Adani, che imperversa da oltre un decennio garantendo finanziamenti alla politica del grande capo. Porte aperte a investimenti stranieri, soprattutto le multinazionali attratte dal clima di poche regole in fatto di sicurezza, tutela dei lavoratori e dell’ambiente, possibilità di super sfruttamento d’una manodopera bisognosa di occupazione e disposta ad accettare salari di fame. Ci rimettono gli emarginati di sempre: dalit, adivasi e giovani in genere. Quelli che devono abbandonare la scuola e anche coloro che riescono a studiare. Negli ultimi tempi il movimento degli studenti ha denunciato i tagli di fondi all’istruzione e la caduta di istituzioni come la Jawaharlal Nehru University e la Delhi University scivolate nella mediocrità rispetto ai momenti di maggior fulgore. Nel Bharat disegnato dal nuovo dominatore politico il progresso passa più per i templi che per le scuole.