lunedì 6 novembre 2023

Il raìs-fantoccio, la favola dei due Stati e altre amenità

 


Appare in tutta la sua pericolosa vacuità l’agitarsi statunitense seguìto a un mese dalla più grave esplosione della crisi israelo-palestinese dall’epoca della prima Intifada. Il presidente Biden consiglia al premier israeliano Netanyahu, impantanato nell’unica via conosciuta dalla sua politica: occupare e devastare, di non commettere nella piccola Gaza gli errori compiuti dall’US Army in Afghanistan e in Iraq quale vendetta per l’attacco alle Torri Gemelle. Appunto bombardare, radere al suolo, uccidere più civili che taliban e mujahheddin. In questi venti e passa anni di follìa geopolitica in Medio Oriente Washington ha inanellato un’infinità di errori e suggerisce all’alleato di non farli. Dal 2003 al 2006 ha mietuto 150.000 vittime irachene; dal 2001 al 2014 170.000 in Afghanistan, di cui 51.000 talebani, 3.900 fra i militari Nato e 3.800 fra i reparti di contractors, il resto fra la popolazione inerme. Cifre aberranti. Eppure i 10.000 gazesi che la vendetta di Israel Defence Forces sta accumulando, fra cui alcuni ostaggi prelevati da Hamas con l’azione del 7 ottobre che ha ucciso 1.400 israeliani più diciotto suoi militari, oltre ai ‘danni collaterali’ d’una quarantina di giornalisti e alcuni operatori umanitari freddati, possono rappresentare solo il prologo d’uno scontro prolungato per settimane o mesi, per stanare i miliziani del Movimento di Resistenza Islamico da nascondigli, pur triturati dagli ordigni, e dalla famigerata rete dei tunnel. Il peggio, come predica non solo papa Bergoglio, può dunque arrivare dal prosieguo dei raid aerei, dagli scontri di terra, dal mantenere oltre due milioni d’individui in un lembo sempre più ridotto, 20-18 km, con rifornimenti alimentari a singhiozzo, senz’acqua potabile, senza energia elettrica. Le epidemie sono dietro l’angolo denunciano le organizzazioni mediche che non rinunciano a prestare soccorso in un contorno disperato e volutamente disumanizzato dal governo di Tel Aviv.  

 

Ai suoi buoni consigli, finora inascoltati da Netanyahu, la Casa Bianca aggiunge quello che altrove - Afghanistan, Iraq - ha rappresentato un errore clamoroso e perdente: scegliere un presidente, un premier di comodo, vantaggioso per se stessi, acquiescente alla propria politica di non soluzione dei problemi. Ciò che in varie epoche la Storia ha etichettato come rappresentante fantoccio di coloro che governa. Karzai e Ghani a Kabul, tanto per fare due nomi. A Baghdad la situazione è risultata ancor più imbarazzante con incaricati da durata mensile,  legati a fazioni politiche, a clan tribali che venivano contattati da Segretari di Stato, da capi della Cia e simili. Nuri al-Maliki durò otto anni (2006-2014) sebbene fu giudicato squilibrato a favore della componente sciita. Poi fra colleghi del Partito islamico Da’wa, qualche indipendente, s’è tornati all’incarico a un rappresentante del suddetto partito, al-Sudani, in ruolo dal 2022. La logica delle interferenze, alla ricerca di chi avrebbe “buone referenze” non solo per guidare una nazione e il suo popolo, ma addirittura per districare situazioni intricatissime come quella israelo-palestinese, porta l’americano di fiducia di Biden – Antony Blinken - a tirar fuori dalla naftalina un soggetto che più sfiduciato non si può: il presidente dell’Autorità palestinese Abu Mazen. Ottotantotto anni, gli ultimi diciassette trascorsi nel bunker della Muqata’a di Ramallah, a brigare con Stati Uniti e Israele, tanto che le voci sulla corruzione personale e del suo staff si rincorrono da tempo, accettando ogni desiderata israeliana in fatto di sottomissione alla tragica beffa delle colonie su quei territori che gli Accordi di Oslo assegnavano ai palestinesi. Allo sfregio dei 750 km di Muro che altri premier prima di Netanyahu hanno voluto per contenere, così sosteneva Sharon, la seconda Intifada, s’è aggiunta la crescita esponenziale della presenza degli insediamenti ebraici illegali in Cisgiordania. Cosicché quello che le carte avevano concesso, pur in assenza di esercito e autosufficienza economica, continua a essere scippato mese dopo mese da decenni. 

 

Complice, affermano non solo il nemico Hamas ma tanti palestinesi senza partito, lo stesso Abu Mazen. O di fatto talmente impotente, perché compiacente, da non riuscire a esprimere un soffio d’idea per un futuro della sua gente che è privata di vita a Gaza come nella West Bank. Se a questo s’aggiunge il blocco totale d’un ricambio della leadership della stessa Fatah, da cui il vecchio politico proviene, e il sistematico boicottaggio (non troviamo altro modo per definirlo) delle elezioni politiche ferme al 2006, quando Hamas trionfò nella Striscia, il cerchio autoreferenziale del raìs-fantoccio dell’Anp chiude il suo giro. Tali comportamenti hanno incrementato la popolarità del gruppo islamista non solamente nella terribile condizione vissuta dai palestinesi della Striscia di Gaza, sottoposta dal 2008 in poi a periodici attacchi d’Israele, ma negli stessi Territori Occupati. Gli strateghi delle ambascerie che oggi cercano un capo di comodo per tutti i palestinesi, passando da Abu Mazen magari al dottor Mustafa Barghouti, presente da tempo nel Consiglio legislativo, posto che lui vorrà accettare un’operazione dai contorni stantii e preconfezionati, nulla affermano circa detenuti eccellenti, come il più famoso parente di Mustafa, quel Marwan, uno dei capi di prima e seconda Intifada e per questo arrestato dall’Idf da più di vent’anni e fatto invecchiare in carcere con cinque ergastoli sul groppone. Nonostante la durezza della prigionìa, a sessantaquattro anni Marwan avrebbe l’energia per rivestire un ruolo che qualsiasi governo di Tel Aviv finora in carica non vuole riconoscergli. Perché, più o meno come i vecchi e nuovi leader di Hamas, ha peccato di combattentismo e resistenza. Strappando coi suoi Tanzim-Fatah e la creazione delle Brigate dei Martiri di al Aqsa, ogni legame col collaborazionismo del suo partito, affermando quel che nessun sionista vuol sentire: “Non sono né un terrorista, né un pacifista. Sono un uomo della strada che difende la causa che ogni oppresso sostiene: il diritto di difendermi in assenza di ogni aiuto che possa venirmi da altre parti”.

 

A un elemento simile la geopolitica fatta a misura dell’ineguaglianza, basata su patti trasformati in tranelli, su norme da firmare e non rispettare (questo sono gli ‘Accordi di Oslo’ che, ricordiamolo, escludono il diritto al ritorno della diaspora palestinese e che Israele continua a violare unilateralmente da decenni e questo sono gli ultimamente osannati ‘Accordi di Abramo’ rivolti alle potenti petromonarchie, non certo alla diseredata popolazione palestinese) non ha dato e non offrirà mai alcuna opportunità. I cantori delle ipotesi inattuabili lanciano il suo nome tanto per muovere l’aria, parlano, come nel caso dei due Stati, di quello che Israele boicotta, avallandone la pratica guerrafondaia e occupazionista. Permettono che la laica nazione sionista, compia sempre più profondi passi confessionali attorno alla teoria dello Stato ebraico. Consentono che quest’ultimo emargini e realizzi forme di apartheid della cittadinanza arabo-israeliana lì residente. Insomma l’asse statunitense – il garante del ‘diritto alla difesa’ di Israele che pone  sommergibili nucleari nel Mediterraneo a ridosso delle bollenti coste dove si susseguono abbagli e fumo di ordigni sempre più potenti che ormai triturano macerie e sventrano disgraziati che s’aggirano su di esse non sapendo dove stazionare (ogni valico per la fuga è ben serrato) - ha attivato la ricerca d’una rappresentanza di comodo, come ha fatto per anni in Afghanistan e in Iraq. Quest’errore Biden e Blinken non si sentono di aggirarlo. Vogliono invece aggirare l’ipotesi che i palestinesi si diano rappresentanti scelti da loro stessi, come fu nel 2006. Per timore che Hamas rivinca, si vuole escluderlo a priori non solo da ipotetiche votazioni che non ci saranno, ma estirparlo dalla stessa faccia di quella terra tanto bagnata di sangue. Per non spargerne altro, una via è la trattativa proprio con Hamas, perché la nenia ripetuta dai politologi: “una cosa è Hamas, un’altra sono i palestinesi” è una balla che non regge. Potrebbe valere per qualsiasi partito. Se si votasse magari si scoprirebbe che il gruppo islamista non ha più il sostegno di quindici anni or sono, anche perché la Jihad islamica ha ampliato le adesioni, ma questi sono gli attori con cui un Israele che non faccia lo struzzo deve trattare. Per liberare i propri ostaggi e frenare l’animo mortifero suo e degli avversari.  

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