Mentre Patrick Zaki, familiari, amici e la società civile a suo sostegno gioiscono per una concessione di grazia che taglia l’incubo d’una condanna ad altri quattordici mesi di galera, in aggiunta a quelli già scontati, la sua posizione per la Corte Suprema egiziana resta quella d’un condannato. Il futuro di Patrick sarà fuori dalle terribili prigioni che ha conosciuto, ma probabilmente fuori dal suo Paese che marchia dissidenti e dubbiosi impedendo loro di raccontare quel che si vive e si vede da anni. Oppure resterà ostaggio della sua libertà a Mansoura, silenziato dalla benevolenza d’un presidente che gli ha restituito il sorriso e la vita. La vicenda e gli sviluppi favorevoli al ricercatore e anche a Mohamed al-Baqer, avvocato del noto dissidente Alaa Abdel Fattah, diventano la conseguenza di quei rapporti diplomatici fra la presidenza egiziana e il nostro Paese che da anni attraversano momenti di crisi acuta senza sciogliere nodi scorsoi. Innanzitutto sul delitto di Giulio Regeni, la macchia purulenta che il regime egiziano non vuole sanare consegnando alla giustizia italiana i responsabili del sequestro dello studioso di Funiciello, assassinato da quei “servitori dello Sato” dopo giorni di torture. Dal gennaio 2016, dopo aver inscenato vergognosi depistaggi, le massime autorità locali, con presidente e ministri dell’Interno e degli Esteri in testa, hanno evitato di attivare la giustizia interna, di collaborare coi magistrati della procura di Roma che indaga sul crimine, fino a boicottare la convocazione degli imputati considerati irraggiungibili per “domicilio sconosciuto” agli stessi apparati ai quali appartengono. Un’ignominiosa farsa che gli esecutivi italiani passati hanno subìto e in buona parte accettato evitando gesti perentori come la chiusura della propria ambasciata, perché secondo taluni decaloghi diplomatici non è bene giungere a rotture.
Di fatto il realismo politico guardava alla concretezza dei nostri affari che hanno sulla sponda meridionale del Mediterraneo una sacca d’interessi nei giacimenti metaniferi Zohr, cui Eni offre la tecnologia per il pompaggio, e commesse d’armi sempre ad alta tecnologia, frutto dell’eccellenza di aziende di punta del “Mady in Italy” come Leonardo e Finmeccanica, che vendono fregate e sistemi di puntamento elettronici agli amici del Cairo. Un intreccio non di soli interessi economici. Perché il governo forte dell’uomo forte che ha salvato la nazione dal pericolo della Fratellanza Musulmana, uccidendone e arrestandone un’infinità di attivisti, si propone nel duplice ruolo di supervisore della sicurezza e grand commis dell’area mediorientale travagliata da decenni di vicende geopolitiche che sono tuttora una miccia sempre accesa. Sisi è uno dei raìs, legittimato da quel che accade dentro e fuori il suo Paese, cui guardano gli ex guardiani europei da decenni votati al colonialismo di ritorno. Un sistema che ha continuato a opprimere la gente comune, impedire una vera emancipazione economica autoctona, stabilire relazioni orizzontali e paritarie fra cittadini e diritti conclamati. L’intera fascia nord-africana vive fra situazioni congelate come quelle di Marocco e Algeria, con monarchie élitarie e una falsa democrazia a tutto svantaggio di lavoratori e ceti sfruttati da capitali esteri, nazioni destabilizzate come la Tunisia, implose come la Libia, oppresse qual è l’Egitto. Tutte tendenzialmente povere nonostante varie risorse, caparbiamente bloccate dalla mancata redistribuzione di talune ricchezze. Ovunque i supervisori politici locali devono favorire lo sfruttamento di manodopera per le furbizie degli investitori stranieri e garantire con la propria disponibilità il controllo securitario per l’angoscia che affligge la Fortezza Europa: la migrazione.
Nei colloqui col presidente Sisi, che l’attuale premier italiana Meloni rivendica risolutivi per la grazia a Zaki, ci sarà sicuramente la non ufficializzata acquiescenza su quel che al generale egiziano preme di più: chiudere definitivamente le richieste di verità sull’omicidio Regeni. Un’istanza cui il Cairo tiene al pari se non più degli arrivi di derrate alimentari e armi. Quest’ultime servono a tenere sotto controllo la popolazione, la prima a tranquillizzare gli apparati dei mukhabarat puntello del regime. Per Sisi toccare i suoi scherani vuol dire immolare se stesso. Ma la richiesta d’oblìo su Regeni, che probabilmente è alla base della trattativa, è irricevibile per ogni sincero democratico e dovrebbe esserlo anche per l’attuale governo se vuole davvero mantenere quella linea irreprensibile su diritti e giustizia che rivendica. Eppure il dado è tratto. Se non sapremo dalla viva esternazione della nostra premier i risvolti che portano Zaki in Italia per festeggiamenti che lui merita, quanto seguirà nei giorni e nei mesi farà comprendere l’entità dell’accordo, giocato più da Sisi che dai politici nostrani. Lui ha sentenziato che Patrick è colpevole però beneficia della bontà presidenziale. Gli interlocutori romani che hanno abbracciato la causa del ricercatore ora devono abbracciare i desideri del benefattore cairota. L’abbraccio è mortifero. Non vorremmo constatare che le nostre Istituzioni chineranno il capo dimenticando lo strazio di Giulio Regeni. Non vorremmo che le medesime, pronte a sostenere i diritti violati in tante parti del mondo, tralasciassero le vicende di quel ‘Paese amico’ che fino a ieri ha perseguitato Zaki per aver solidarizzato con un avvocato rinchiuso in gabbia e raccontato la triste sorte dei fratelli copti finiti sotto le grinfie poliziesche. Se la diplomazia ha regole proprie basate pure su scambi e baratti, la morale politica impone quella dignità che svanisce quando ai necessari contatti si sostituiscono contiguità untuose.
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