Commenti su vari quotidiani, da La Repubblica a Il Foglio, sottolineano come l’assalto e sterminio di ieri del commando della Jihad islamica palestinese nel campo profughi di Jenin (dieci vittime), somigli a quanto narrato dall’ultima serie della fiction “Fauda” diffusa sulla rete Netflix. Non lo mettiamo in dubbio. Che la serie aiuti a capire l’atavico conflitto è, invece, una considerazione che non ci sentiamo si sottoscrivere. Le citate spiegazioni ricordano come lo sceneggiato nasce in Israele, ed è dunque di parte, ma indicano un’ampia diffusione e un discreto successo fra spettatori del mondo arabo. La produzione è indubbiamente professionale nella realizzazione, nelle riprese, nella recitazione d’un cast di ottimi attori, come pure nella trama capace di coinvolgere lo spettatore per le vicende personali che contrappongono e intrecciano situazioni di vita. I riferimenti politico-militari presenti, dalla squadra dello Shin Bet dove “lavorava” il borderline Doron, agli amori di Shirin divisa fra appartenenza al suo popolo (palestinese) e infatuazioni per l’invincibile nemico, incarnato dallo stesso Doron, paiono tessute con l’intento di rapire lo spettatore con un plot densissimo, ricco di colpi di scena e quello che gli anglosassoni definiscono turning point, il punto di svolta. Vicino alla realtà c’è sicuramente quel reale che il mondo israeliano ha imparato a conoscere: le debolezze umane e l’opportunismo in cui cadono alcuni personaggi che si vendono al nemico, diventano collaboratori, praticano un amorale doppiogiochismo. Tutti sul fronte palestinese. Che risponde, questo sì, a una tangibilità politica che nei decenni ha visto strutture e figure di primo piano di quel mondo - pensiamo alla cariatidea Autorità Nazionale Palestinese oppure all’ex responsabile di Fatah nella Striscia di Gaza, Mohammed Dalhan, ed egualmente a inamovibili leader come Mesh’al - incarnare corruzione e sete di potere, ben lontane da interessi e volontà popolari.
Il titolo scelto (Fauda) che in arabo sta per ‘caos’ è di per sé emblematico d’una situazione insostenibile che però appare eterna. Come perenne è diventato più che il conflitto israelo-palestinese, la reclusione di quest’ultimo popolo in quella galera a cielo aperto che lo ospita. Lo ospita e non lo fa vivere. Perché su quelle che sono le sue recenti case (magari ricostruite dopo distruzioni punitive di Tsahal) - non quelle rubate, demolite, trasformate già all’epoca della nascita dello Stato di Israele - la comunità palestinese è piegata a sopravvivere sotto minaccia armata dell’esercito di Tel Aviv che protegge insediamenti di coloni, sempre più invasivi, sempre più asfissianti, sempre più violenti. E quando i suoi giovani si armano hanno le ore contate nella Jenin fuori dalla fiction come in quella filmica. Il caos che traspare nello sviluppo della finzione è un’angosciosa realtà che non trova soluzione. Ma se la trama di Fauda scivola, volente o meno, nella propaganda, la situazione concreta diventata irrisolvibile è frutto della politica di aggressione che Israele ha praticato dalla sua nascita con qualsiasi governo, al di là dell’oltranzismo di Netanyahu e del razzismo di Ben Givr. Ciò che studiosi, peraltro israeliani, come Pappé e Weizman hanno descritto è come la strategia della cancellazione d’indentità e dell’occupazione d’ogni spazio fisico e mentale del nemico palestinese, rappresentano una finalità di annientamento politico, sociale, culturale, umano. Palestinesi come bersagli se reagiscono, non solo coi razzi, anche con le pietre dei ragazzi dell’Intifada e con le parole della giornalista Abu Aklen. Oppure come zombie, da corrompere, comperare, pilotare e comunque soggiogare come racconta l’infinito caos di Fauda.
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