domenica 20 febbraio 2022

Punjab, il voto temuto da Modi

Pazientemente in fila sotto il controllo dei militari presenti ai seggi la gente del Punjab – l’elettorato ammonta a 21 milioni – attende il proprio turno. Gli uomini vestono orgogliosi i dastar colorati (i turbanti tipici dell’etnìa), evidenziando la virilità con barbe scure o imbiancate. E’ nel profondo nord del Paese, fra il popoloso Uttar Pratesh e il ribelle Punjab, che Narendra Modi si gioca la credibilità per il futuro del Bharatiya Janata Party. Un voto dall’ampio sapore sociale nell’attuale difficile fase economica della nazione. Punjabo è lo zoccolo duro del ceto contadino che per tutto il 2021 ha contestato la controriforma governativa, una protesta tendenzialmente pacifica ma implacabile per resistenza e determinazione che coi suoi blocchi stradali ha sopportato una dura repressione e messo in ginocchio il via-vai di merci nella nazione-continente. In un anno la polizia ha cosparso di sangue strade e viottoli, ha freddato più di settecento manifestanti colpevoli di organizzare sit-in e sbarramenti. Le centinaia di migliaia di piccoli e medi agricoltori non hanno indietreggiato d’un metro e dopo quattordici mesi hanno costretto il premier a ritirare una legge che li sfavoriva a vantaggio delle multinazionali delle coltivazioni. Uomini duri i punjabi, attaccati alla terra, a una tradizione agricola che tuttora contribuisce a quasi la metà del Pil indiano, vicini alla famiglia che gli si stringe attorno in ogni fase e che ha ne sostenuto totalmente la lotta. Così con l’unità di parenti e clan, alla presenza per strada di vecchi, donne e bambini, associando sigle sindacali (seppure qualche divergenza s’è verificata), superando diversità confessionali i contadini sikh, hindu, islamici si sono stretti nel contestare una legge che li avrebbe disgregati e ridotti alla fame. Hanno ragionato per intenti e interessi sociali, e hanno vinto. 

 

Ora davanti ai seggi il Bjp li accarezza, promette loro più sussidi, elettricità gratuita, aperture commerciali, ma la rabbia dei mesi scorsi non sembra sbollita. Anzi. Ridare un dispiacere al borioso governo è un pensiero stupendo che corre per le loro teste. A cercare spazio e voti c’è anche l’Aam Aadmi Party, nato nel 2012 sull’onda delle proteste anticorruzione dell’anno precedente, è diventato un caso nazionale dopo aver conquistato la guida d’uno Stato simbolo come quello di Delhi. Il suo leader è Arvind Kejriwal e negli ultimi tempi il gruppo ha ampliato la sua influenza in Punjab e a Goa. Kejriwal durante gli interventi svolti in campagna elettorale è stato accusato dagli avversari, soprattutto da Raul Gandhi del Partito del Congresso, di lavorare per il separatismo dalla Federazione indiana. Lui ha risposto in chiave populista: “Mi definiscono terrorista. Sono il più dolce terrorista del mondo che costruisce scuole, ospedali, sevizi elettrici per la gente”. Durante le settimane di propaganda s’è speso in promesse, un successo del suo partito - diceva - avrebbe prodotto sicurezza fisica e di lavoro a ogni cittadino. Taluni commentatori sostengono che abbia sguinzagliato i suoi attivisti a corteggiare in maniera neppure tanto velata gli elettori hindu, che in loco sono fortemente uniti alla comunità Sikh. Forse per questo Kejriwal ha ignorato, pure davanti a domande dirette della stampa, il Citizenship Amendment Act, la legge che discrimina i migranti islamici che è stata fortemente voluta dal partito di Modi. Se vuoi sottrargli voti, non puoi cancellare la matrice d’un elettorato sedotto anche dal radicalismo religioso.

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