giovedì 6 gennaio 2022

Kazakistan, caro-gas e dintorni

Non può essere solo una questione di gas, che certo raddoppia di prezzo, in un Paese produttore e da percorrere in lungo e largo solo su gomma con autovetture tutte mosse a Gpl. Anche perché il reddito pro capite (27.000 dollari) è un tesoretto non trascurabile, cresciuto sensibilmente nell’ultimo ventennio, un periodo vissuto sotto l’asfissiante paternalismo dell’odierno ottantunenne Nazarbayev, il vecchio di cui i rivoltosi rovesciano le statue. Uno degli autocrati post-sovietici cui la storia recente ha conservato ruolo di padrone assoluto, come fosse un Ceausescu fuori dal tempo. Ma questa è la geopolitica e dopo lo sgretolamento dell’Urss, l’Occidente brindava e s’inebriava d’affari con gli ex Stati dalla bandiera rossa, mentre ex residuati della burocrazia spadroneggiavano su quei territori e sulle ricchezze del sottosuolo. Il Kazakistan è uno di questi, tanti chilometri quadrati (quanti nove Italie) e riserve a sfinimento: petrolio, metano, uranio e pure vecchio carbone che ha nutrito, e tuttora nutre, le fabbriche asiatiche cinesi. Il Bengodi della finanza energetica che fa business col mondo senza guardare chi lo governa, tranne poi entrarci in conflitto com’è accaduto con l’Iraq di Saddam o la Libia di Gheddafi, guardava a Nazarbayev e all’attuale fantoccino Tokayev, come ai tenutari di quelle ricchezze con cui ExxonMobil, Chevron e altre immarcescibili sorelle dell’oro nero stipulano contratti miliardari. Non sempre puliti. Ad esempio a Tengiz, verso la costa nordorientale kazaka del Mar Caspio, dove Chevron sfrutta da un trentennio un giacimento di petrolio ad alta concentrazione di zolfo. Procedimenti chimici fissano quest’elemento e l’azienda immette sul mercato un prodotto normalizzato. Ma la lavorazione crea scorie che s’accumulano con conseguenze ambientali di cui non s’occupa né Chevron né i padri-padroni dello Stato kazako. Negli anni la politica ha offerto ai circa venti milioni di abitanti che vivono in spazi enormi, l’immagine di un’economia in espansione e il boom del Prodotto Interno Lordo (179 miliardi di dollari) nel primo quindicennio del Terzo Millennio ha fatto dire alla Banca Mondiale che la nazione ha un reddito medio-alto. Un Pil energetico rivolto prevalentemente all’Europa, dove finisce il 70% del greggio e dei suoi derivati, e di metalli del sottosuolo che per oltre il 50% prendono la via asiatica. Visto che l’agricoltura odierna, che potrebbe estendersi all’80% del territorio, contribuisce solo al 5% del Pil c’è chi pensa di diversificare, ma coltivando cereali, patate, ortaggi, meloni le finanze non girano come estraendo quello che la terra serba in seno. La terza via è il terziario, ed è qui che guardano multinazionali di tecnologia sostenibile, trasporti e ultimamente anche del turismo.

 

Ovviamente la pandemia ha congelato progetti e creato anche squilibri lavorativi con tensioni attorno al reddito che innescano le proteste sugli aumenti dei carburanti. Sebbene voci raccolte in loco da agenzie stampa hanno evidenziato un malcontento, soprattutto giovanile, rivolto all’impaludato quadro socio-politico. Mancano confronto e intermediazione fra la popolazione e i Palazzi, dove circolano parenti di potentati come il nipote di Nazarbayev, che Tokayev in queste ore di fuoco ha fatto dimettere insieme ad altri esponenti del governo per salvare se stesso. Perciò la gente, quella che raccoglie salari ben più bassi (600 dollari mensili) della media, ha di che incazzarsi. Però vertici del Paese accusano forze esterne di fomentare la rivolta e di sostenerla. Ma da parte di chi? La Russia putiniana che già ha conosciuto, e combattuto, sul fronte ucraino allerta i suoi “portatori di pace” per possibili sostegni armati alla leadership kazaka, mentre l’ipotesi di un intervento viene annunciata dal premier armeno Pashinyan. Non è un caso che lo faccia lui, perché in tal modo rientra in gioco lo scontro vissuto nel settembre 2020 fra il suo Paese e l’Azerbaijan attorno al Nagorno-Karabakh, con tanto di eserciti contrapposti e protettori russo e turco al fianco. Allora il temuto coinvolgimento di Mosca e Ankara non ci fu, anzi un intervento diplomatico di Putin determinò la chiusura delle ostilità con lo scorno degli armeni e la soddisfazione di Erdoǧan. I due presidenti-autocrati dopo aver condiviso la ‘pacificazione siriana’ erano impegnati a cogestire l’intricato panorama libico e fra affari e geostrategie si son tenuti bordone. Ora la tensione potrebbe riprendere. Nei mesi scorsi il presidente Tokayev ha compiuto scelte in materia di sicurezza differenti dal passato. Acquistando i temibili droni turchi e guardando a quell’ombrello, commerciale e non solo, di nazioni panturche (Organizzazione degli Stati turchi) proposto da Ankara. Un passo innaturale per il vecchio Nazarbayev, un azzardo per il delfino che appaga la smania erdoǧaniana di supremazia regionale e irrita il Cremlino che ai confini non vuol perdere Stati satelliti o amici. Se le fibrillazioni kazake, oltre alle maldestre liberalizzazioni dei carburanti, siano sostenute anche da fomentatori esterni, occorrerà capirne il colore e l’orientamento dal momento che i presidenti russo e turco, da giocatori incalliti,  sorprendono nelle decisioni e nei bluff.  

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