La presentano come moderna e sicura. E durevole e connessa, almeno
nelle intenzioni. Il mega spazio desertico di 756 km quadrati che diventa città
a sessanta chilometri est dal Cairo (settanta dalla sua piazza Tahrir) vede su
un lato i quattro minareti della moschea di Al-Fattah al-Alim e su quello
opposto la chiesa copta della Natività, tanto per tenersi buoni i servitori del
buon Dio. In mezzo ci sono sedici chilometri di sabbia da riempire con hotel,
abitazioni lussuose, un parco, banche, ministeri, servizi. Ma per chi?
Certamente per turisti e residenti danarosi, parecchi provenienti da Paesi
securitari e amici come le élites delle monarchie di petrodollari. E’ un’idea
definita vanitosa, da chi l’aveva vista nei progetti già all’esordio quattro
anni addietro. Un retorico dono al presidente golpista che vuol celebrare il
suo potere sulla nazione millenaria ancora per molto tempo. Per confezionarlo
si ruba terreno al deserto per trasferirvi una parte della popolazione che si concentra
nella metropoli esistente. I numeri, sempre orientativi poiché i censimenti
mancano da tempo, calcolano a più di venti milioni gli abitanti nella capitale.
Fra vent’anni se ne prospettano quaranta quando gli egiziani supereranno i
cento milioni. Il programma di Sisi-city, lanciato con fondi internazionali e
investimenti stranieri, dovrebbe costare 40 miliardi di euro. Dentro ci sono
megaprogetti, dal raddoppio del Canale di Suez alla creazione di otto nuovi
centri urbani, mentre nel perimetro della capitale-bis sarebbero previste
duemila scuole, sei università, milleduecento moschee e chiese, quarantamila
camere d’albergo, un grosso aeroporto e giardini due volte più ampi di Central
Park. E poi grattacieli, ben venti, fra cui il più elevato d’Africa a 345 metri
d’altezza. Quindi ministeri collocati in trenta edifici, ambasciate e un nuovo
Parlamento a fianco del Palazzo presidenziale, dove Sisi potrà alloggiare sino
al 2034, salvo proroghe. Ogni angolo delle strutture sarà sorvegliato da
telecamere e vigilanti. Grande sponsor politico dell’iniziativa sono gli
Emirati Arabi Uniti, s’è mobilitato in prima persona l’emiro Khalifa. Eppure il
piano, per le casse del Cairo, sembra eccessivamente superbo e soprattutto meno conveniente rispetto alle premesse.
Dall’iniziale partenariato paritario fra chi elargisce
capitali e chi ci mette terra e manodopera, ora i “fratelli arabi” del Golfo
reclamano il 75% dei profitti sugli investimenti. Così chi si troverebbe
spiazzato è l’organismo autoctono, l’ACUD (Administrative Capital Urban
Development formato per il 51% dal ministero egiziano della Difesa e il 49% da
quello degli Alloggi) impegnatosi a investire dieci miliardi di euro. I fondi
sono ricavati dalla vendita dello spazio edificabile alle società immobiliari
per prezzi che variano da 210 a 800 euro al metro quadrato. Risulta che già
nello scorso dicembre il 70% dei terreni era venduto, però recentemente i
vertici dell’ACUD ammettevano che la raccolta di denaro per il ciclopico piano attraversa
una fase di stallo, se non proprio di crisi. Gli sceicchi hanno congelato i
conti bancari? In assoluto no, ma la liquidità che poi serve per avviare
appalti e pagare commesse non fluisce regolarmente come nelle settimane d’avvìo.
Nei cantieri in costruzione giganteggia la China State Construction Engineering
Corporation, e l’accordo fra l’EDF (Electricité de France che ha rilevato
Edison Spa ed è coinvolta nello sfruttamento del giacimento di gas Zohr nel
Mediterraneo orientale) e l’ACUD è tutto da confermare. Cosicché il frutto
della tanto vagheggiata nuova capitale sembra legato alla quantità di affari
che diversi attori interni e
principalmente internazionali riusciranno a portare a casa spartendosi la
torta. Alla faccia di quei cittadini d’Egitto che credono alla storiella del
rilancio della grandezza del Paese. Tantoché anche il generale Abdine,
supervisore dell’apparato dell’ACUD, in una recente nota riportata dall’agenzia
Reuters, ammette come le opere
necessitino d’un flusso di denaro che l’Egitto non può fornire. Finora
risultano completati alcuni hotel accanto alla moschea e alla cattedrale
opposte su due lati del quadrilatero, lo sarà anche il Palazzo presidenziale
attualmente tenuto lontano da obiettivi e telecamere per ragioni di sicurezza, ma
per chiudere i lavori avviati in tanti cantieri si spera nei finanziamenti. Il
2020 è la prima scadenza, ulteriori edificazioni supereranno quella data.
Certo, nei progetti c’è l’idea di convogliare in loco il lavoro di decine di
migliaia d’impiegati dei ministeri, però le cifre comunicate oscillano e può
accadere che la capitale da sogno ospiterà solo l’élite della burocrazia
cairota.
Molto più potranno avere i bancari, sempre che le
rispettive aziende sborsino i dollari per l’edificazione delle sedi in
questione. Il vantaggio dell’oasi nel deserto è la super sicurezza che verrebbe
garantita in tutta l’area, controllata da terra e chissà se dal cielo. Forse
l’iniziale prospettiva di condurre nella capitale-fortezza oltre sei milioni di
addetti, accanto a danarosi residenti e turisti altrettanto solventi, dovrà
subìre ridimensionamenti, sebbene c’è chi non demorde. I lungimiranti
consigliano che per ottenere consenso politico un simile status-symbol
dev’essere aperto proprio al ceto medio che vuol fuggire dal caotico traffico e
dall’inquinamento della vecchia capitale. Insomma, per non rischiare una bolla
speculativa, se si costruiscono gli appartamenti bisognerà venderli ai diretti
interessati o almeno a benestanti investitori che potranno affittarli agli
impiegati. Altrimenti costoro dovrebbero sobbarcarsi un defatigante
pendolarismo quotidiano. In previsione c’è anche una monorotaia elettrica da
realizzare entro il 2020 (se ne occupa un’altra azienda cinese: China Railway
Group) ma senza edifici l’infrastruttura potrebbe non vedere luce. Idem per il
treno ad alta velocità previsto sino alle sponde del Mar Rosso. Quest’ultimo è
posto in relazione alla creazione di città ancora inesistenti, perciò potrebbe
fluttuare nel mare dei desideri. Urbanisti egiziani rammentano come dalla morte
di Nasser (1970) in varie occasioni sono state lanciate ipotesi di nuovi centri
che decongestionassero la millenaria capitale,
ma né la presidenza di Sadat né tantomeno il trentennio di Mubarak
fecero seguire iniziative. Esistono critiche a Sisi-city, ma con l’aria che
tira, e come per tante altre questioni egiziane, restano sotterranee. Nulla è
stato discusso da un Parlamento ingessato e terrorizzato dalla caccia
all’oppositore. Per non parlare delle reali priorità economiche del popolo
minuto: lotta alla povertà, occupazione, piano casa per abitazioni dignitose.
Si tratta di voci silenziose perché silenziate dall’angoscia della repressione,
voci che affermano come agli egiziani non serva la più grande moschea d’Africa,
non servono grattacieli per una skyline nel deserto. L’Egitto non è Dubai e
deve sfamare milioni e milioni di suoi figli.
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