La Casa Bianca in accordo col Pentagono ufficializzerà
a breve un consistente rilancio del conflitto di terra in Afghanistan. Con tanto
di scarponi e uomini al suolo, come ha fatto per tredici lunghi anni, dal 2001
al 2014. Sarebbe più corretto dire che il Dipartimento della Difesa convince il
presidente americano a rinfocolare una guerra in corso, avallando il piano che
il responsabile militare Nato in loco, il generale Nicholson, ha preparato da
mesi. Del resto è facile far combaciare l’orientamento dell’America First con l’orgoglio bellicista mai
accantonato e il business delle armi. Così era, così sarà. E magari aiuterà
Trump in un momento difficile, difficilissimo, a rischio impeachment dopo le rivelazioni del Washington Post sul Russiagate. L’unica contraddizione è che da
tempo le guerre gli States non le vincono, forse anche per questo si vendicano
destabilizzando con altri mezzi certe aree geopolitiche dove la loro
marginalizzazione è palese. Il presidente afghano Ghani, inventato e tenuto in
vita dagli Usa per garantire spazio a linee strategico-politiche spesso
ondivaghe, ha avviato una campagna per riformare il ministero dell’Interno da
lui definito “il cuore della corruzione
nel settore sicurezza”. A suo dire, sarà un passo strategico per garantire
l’agibilità spaziale che gli attentati nella zona più controllata di Kabul,
dimostrano non esistere.
L’incapacità direttiva
ed esecutiva e gli alti tassi di vittime fra le fila dell’Afghan Melli-e Ourdou rappresentano uno degli anelli deboli d’un
progetto che finora è costato moltissimo a Washington e agli alleati
occidentali. Però se si scorre all’indietro la mappa dei programmi, oltre che
dei buoni propositi in genere utilizzati dalla politica per giustificare i
costosi finanziamenti alle “missioni di pace”, ci si accorge che gli schemi sono saltati tutti. Esercito e polizia afghani
hanno raggiunto cifre considerevoli: 170.000 unità nel 2011, fino a
raddoppiarle nel 2014, data dell’exit
strategy obamiana. Ma accanto alle continue defezioni e alla permeabilità
delle truppe, ripetutamente infiltrate dai talebani, il bilancio totalmente
negativo per inefficienza e inaffidabilità degli uomini in divisa locali si
lega inesorabilmente a nuovi progetti. Quelli di reiterato impegno e
occupazione territoriali che i tutori occidentali si ripropongono per garantire
i propri interessi. Nel giro d’un decennio la storia ripete lo stesso corso:
era il 2008 quando, assumendo il mandato, il 44° presidente statunitense premio
Nobel della pace, raddoppiava e poi triplicava il numero dei marines impiegati
in quel Paese superando le 100.000 unità.
Ciò produsse spese folli, di cui le casse
statali in piena crisi Lehman brothers patirono
gli effetti negativi, visto che ciascun soldato costava ai contribuenti un
milione di dollari annui. Inversamente porre una divisa sulle spalle di un
afghano (fra le reclute più numerosi sono i pashtun, seguiti da tajiki e hazara)
che riceve uno stipendio medio di 160 dollari mensili fino ai 230 dollari se è
posizionato in zona ad alto rischio, costava annualmente fra i 12.000 e i
25.000 dollari. Un risparmio significativo che però presenta il lato oscuro
dell’inefficienza. Fra l’altro, come riferiscono le stesse note ufficiali, a
questo quadro s’aggiungono le non edificanti ruberie e quell’avvelenamento
morale che costringono Ghani a porre in cattiva luce un sistema che non riesce
a controllare, ma di cui fa parte. In tal senso la sua denuncia diventa un’auto
afflizione, visto che i quadri e i vertici delle locali Forze Armate, i creatori
o prosecutori della catena corruttiva, solo in qualche caso sono scelti dagli
americani. Da una parte la situazione si tira dietro tare della società afghana,
che la guerra certo incancrenisce. Dall’altra si tratta di una casistica nota
in ogni latitudine: funzionari o ufficiali approfittano di posizioni di potere anche
limitate per trarre vantaggi personali, praticando usurpazioni e frodi e
imponendo o ricevendo tangenti. Gli effetti sono comunque devastanti.
A queste gravità s’aggiungono gli interventi che
gli uomini in uniforme possono praticare attorno a grandi business come quello internazionale
del commercio dell’oppio. Un’attività che ovviamente prosegue ed è
floridissima, basta compulsare i resoconti annuali dell’agenzia Unodoc. Insomma,
da decenni le situazioni si ripetono sia in campo bellico sia sul versante
socio-economico e tutta la macchina degli aiuti militari, diretti e indiretti,
serve ad alimentare quella grande industria mondiale delle armi di cui gli
Stati Uniti detengono quasi la metà del business (700 miliardi di dollari nel
2016). A detta di molti analisti il pianto di coccodrillo del presidente
afghano sui difetti d’un sistema difensivo inefficace deve fare i conti anche con
la rigidità della diarchia che lo unisce e l’oppone al premier Abdullah,
ingessando la situazione dei vertici Forze Armate locali, scelti non per
meritocrazia ma per protezione politica e appartenenze etnico-tribali. Entrambe
sono indissolubilmente legate alla criminalità presente nei vari livelli
dell’esercito afghano, un fattore di cui si lamenta Nicholson. E’ il classico
circolo vizioso attorno a cui viaggia l’ultima rappresentazione di una nuova
legge afghana che per volontà dei “riformatori” interni e dei “supervisori” esterni
non cambierà nulla. E mentre la pantomima prosegue, i marines preparano gli
zaini.
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