sabato 24 giugno 2017

Periferie, ideali e lotte “Leggeri e pungenti”

Con la categoria di Tano D’Amico, fotografo poi celebre e celebrato, noi della militanza estrema, ed estremista secondo il revisionismo allora corrente, avevamo un gioco di sguardi. Ci scrutavamo a distanza più o meno ravvicinata. Le sue pupille, parzialmente celate dalle lenti, cercavano il particolare o il tuttotondo su cui far scattare la lente preziosa dell’obiettivo. Quello con cui per anni, diventati decenni, ha descritto attraverso la luce ciò che faceva una collettività in cerca d’una nuova vita. Era il 1973 e noi, a tutela di noi stessi e di quel che facevamo, dovevamo evitare di mostrarci, dovevamo esserci e non essere visti. Tantomeno dai fotografi. L’anno seguente la situazione precipitò, quando certe immagini scattate chissà da chi corredarono il dossier con cui due magistrati indagavano sulla “struttura paramilitare di un gruppo extraparlamentare” che andava per questo perseguito. Adrenalina e paranoia degli interessati crebbero a tal punto che fotografi amici, come Tano, e quelli appartenenti alle forze dell’ordine o coloro che collaboravano con esse infiltrandosi nei cortei, rischiavano le rabbiose reazioni di chi non voleva finire schedato, con tanto di immagini, poi riprese anche da un noto periodico italiano. Tano, però, ebbe il salvacondotto. Chi ci guidava confermava la neutralità del suo scatto sul fronte della sicurezza e noi, di lui, da quell’istante ci siamo fidati. Ce lo trovavamo accanto in situazioni a dir poco velenose, fra fumi e spari, dove lui rischiava ben più del militante inquadrato nella lotta.
Tano testimoniava e scriveva con la luce le poetiche pagine di popolani e quartieri ribelli. Mai domati. Le periferie dei Settanta venivano direttamente da quelle dei Sessanta e dei Cinquanta. Una continuità proletaria trasferita da padri, zii e fratelli maggiori, un cordone ombelicale che i partiti dell’oblìo negavano e che invece era lì con la stessa bella bandiera rossa. In quella che oggi si definisce emergenza abitativa e che all’epoca era la lotta per la casa. Di quelle battaglie, in una dolce serata in un Centro sociale di Roma sud-est, mentre si parlava di storie e volti della periferia di sessanta e cinquanta anni addietro raccolti nel libro “Leggeri e pungenti”, il fotografo D’Amico ha aperto lo scrigno dei ricordi. Tutti preziosi, perché densi di passione popolare. In ogni epoca solo chi ha cuore lotta. E in quei conflitti per la casa in cui fu trascinato perché apprezzato nel sentimento che trasferiva al meccanico clic, Tano scopriva un mondo. Del bisogno e del coraggio, della determinazione e della volontà di riscatto. Non della disperazione, ma della dignità. Noi che della solidarietà militante rappresentavamo l’energia muscolare e tiravamo celandoci, perché degli uomini in divisa e plexigas siamo sempre stati acerrimi nemici, ripetevamo le corse e le fughe che dai pratoni dietro la palla trasferivamo ai lati di jeep e blindati. Le Luigine che occupavano, le avevamo conosciute nelle casupole del borghetto e sotto l’acquedotto, seguendo i compagni che ne organizzavano il riscatto, visto che l’ora precaria de “Il tetto”, ricordato nel nostro discorrere, doveva avere giustizia sociale. Magliana, Casalbruciato, San Basilio, con tanto di lutto per Fabrizio Ceruso e la polizia che spara e gli spari nella buia notte.

Cos’è rimasto? Qualcosa, oltre il ricordo. Troppo poco per la grandiosità delle antiche lotte che assieme a quelle milanesi di Testi e Famagosta (ma c’erano Torino, Firenze, Napoli, Palermo) hanno rappresentato l’apice di un contropotere teorizzato in politica e attuato da chi legava bisogni e sogni. Però vien fuori che inevitabilmente, e inesorabilmente, siamo cambiati. Non solo invecchiati, che è nella natura. Sembra mutata la natura popolare; e la solidarietà successiva alla poesia d’un ricordo, lanciato ancora da Tano, rimane impresso sulla pellicola della mente. L’occhio inquadra una rete, la recinzione della romana ‘Santa Maria della Pietà’ pre Basaglia. Di qua mani di bambini che s’infilano negli interstizi a maglia non tanto fitta, di là manone dentro cui quelle piccine entrano cinque volte. Nel contatto umano fra bimbi e “matti”, che le acculturate mamme odierne eviterebbero, le genitrici d’un tempo facevano porgere sigarette, ricevendo in cambio la frutta coltivata nel giardino interdetto ai “sani”. E quando i cancelli s’aprirono fu la gioia dell’evasione. Le donne dei lotti di Primavalle imbandirono tavolate, ricostruendo per via quell’aria paesana che inondava le periferie dei Cinquanta. Una festa per la sana follìa. Sprazzi d’identità resistente che s’è gradualmente sbiadita, sino a smarrire quel senso di appartenenza. Classe per la politica buona. Radici per i poeti della canzone. Ci siamo intesi, eppure non è nostalgia ciò che resta. E’ memoria, da non smarrire perché le enclavi resistenti come l’ospitante Cortocircuito, e ciascuno di noi nell’impegno quotidiano, rilancino l’animo presente e orgoglioso di ciò che è stato. La storia delle periferie è storia di popolo, ieri come oggi, immigrato e umile ma caparbio e vigoroso. Possiamo ripartire da questo: ci sono tanti anni di lotte nel nostro futuro.  

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