E’ l’altra faccia della vittoria, ancora non
completa, ma auspicabile. Da maggio l’offensiva dell’esercito iracheno contro i
miliziani del Daesh sta producendo una riconquista di territori e una ritirata,
tattica o forse una rotta delle forze di Al Baghdadi. A Fallujah - già
martoriata durante la campagna di Bush jr col fosforo bianco - l’Isis sta
subendo gli assalti delle forze di sicurezza di Baghdad, sostenute dall’Occidente.
I jihadisti sono asserragliati nella parte settentrionale della città e
probabilmente si ritireranno ma, mentre i combattimenti proseguono, nel conflitto infinito migliaia di civili
continuano ad abbandonare un luogo ridotto
in condizioni spettrali. L’Ocha, l’Ufficio delle Onu per gli affari umanitari,
sostiene che attualmente 85.000 persone sono in movimento e hanno abbandonato il
centro dell’Anbar, pur non sapendo dove riparare. A quindici miglia a est,
verso la capitale che dista un’ora di macchina, sono sorti frettolosamente dei
campi per interessamento di alcune associazioni umanitarie. Queste sono le
uniche a occuparsi della distribuzione di viveri e acqua, in condizioni
metereologiche che, col sopraggiungere dell’estate, portano la temperatura
stabilmente oltre i 40°. Chi non risiede nei campi vaga in un territorio più o
meno desertico dove le condizioni di vita per donne, bambini, anziani, disabili
sono durissime, e mettono a rischio la sopravvivenza.
Sempre le agenzie delle Nazioni Unite calcolano
che circa 4.5 milioni di iracheni vivono in questa fase la condizione di
sfollato, impossibilitati a intraprendere anche i viaggi della speranza
compiuti dalle centinaia di migliaia di disperati che spingono sulle frontiere
d’Europa. Un reportage pubblicato oggi dal Washington
Post racconta quest’ultimo esodo che mostra un’umanità ancor più dolente di
quella che un anno fa imboccava la rotta balcanica e che tuttora alimenta il
traffico di esseri umani dalle coste turche. Si fugge dalle bombe dal cielo, ma
si può finire su quelle di terra, disseminate dall’Isis, ma anche residuati di
quelle collocate un quindicennio fa. Da chi? un po’ da tutti, da Saddam alle
truppe Nato, passando per gli jihadisti di varie sigle ed epoche. La situazione
si deteriora un giorno dopo l’altro, i più esposti sono i fisici deboli dotati
di un’insufficiente resistenza generale. Nel fuggire da un incubo verso un
altro c’è chi sostiene che, forse, è addirittura meglio perire sotto le bombe rispetto
all’attesa d’una morte lenta. In tanti non dimenticano quello che hanno vissuto
nei trenta mesi d’occupazione da parte dello Stato Islamico, un regime
d’imposizione che la maggioranza detesta, dal quale fugge ma che non vede,
ancor oggi soluzioni stabili e soprattutto pacifiche.
Lo affermano persone che vivono in guerra da
tredici anni, mentre gli adulti ricordano i conflitti voluti da Saddam, prima
contro l’Iran poi contro il Kuwait. Certo, chi è finito incarcerato negli
ultimi tempi sotto il fondamentalismo islamico, ha conosciuto le sevizie, ma, a
detta di molti, le carceri irachene sono state duramente infami anche in epoche
precedenti. Ciascuno non può lasciare la provincia di Anbar, tutti si ritrovano
sigillati fra gli insufficienti campi e spazi di deserto, dove la sussistenza è
impossibile, a cominciare da quella primaria per trovare cibo. Vari assistiti
denunciano il fallimento della stessa missione umanitaria: ogni volta che
vengono distribuite vivande scoppiano risse fra la gente e prevale la legge del
più forte, che favorisce giovani uomini. La pensano così anche alcuni operatori
umanitari, secondo i quali i 17 milioni di dollari stanziati dall’Onu per
quest’ennesima emergenza sono comunque insufficienti. Chi conduce le operazioni
strategiche, sul versante politico e su quello bellico, non tiene conto del
resto. Sarebbe stato utile un coordinamento con la componente assistenziale “Per poter predisporre in tempo i centri di
accoglienza” sostiene il responsabile Onu in Iraq. Politici e militari
pensano che tutto si risolva con trattati e armi e snobbano ogni altra cosa.
Mentre i demografi, inascoltati, annunciano che l’offensiva su Mosul potrà produrre
dai 600mila al milione di profughi.
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