Autobomba
e morti fra militari e civili. Dodici in tutto. Il copione, già visto in azione
ad Ankara e Istanbul, s’è ripetuto per le vie della stella del Bosforo, nel
quartiere di Beyazit, versante europeo. Uno dei luoghi più frequentati, oltre
che dalla vivace vita locale, dai turisti che negli ultimi mesi sono
paurosamente calati (meno 30% dicono le stime) proprio a causa del timore
attentati. Un effetto simile a quello egiziano contro cui gli uomini duri a
guida di quei Paesi mostrano un ghigno decisionista, sostenendo di combattere il terrorismo. Lo
fanno seminando un proprio terrore, rivolto contro l’opposizione,
l’informazione e chi non li sostiene. Dopo deflagrazione e sangue il presidente
Erdoğan ha incassato la solidarietà della Nato (Stoltenberg), dell’Unione
Europea (Merkel e Hollande per primi) preoccupati per il clima d’assedio
vissuto dalle grandi città anatoliche, ma per nulla coinvolti dall’altro
assedio che da quasi un anno registra il sud-est turco. Una guerra intestina con
tanto di sterminio della gente kurda, intere comunità, dai villaggi montani a
città come Diyarbakır, messi a ferro e fuoco dall’esercito, coi massacri di
civili che abbiamo più volte descritto. L’attentato di ieri non è stato
rivendicato, ma il dito è puntato sulle ultime rivendicazioni, quelle d’un
gruppo armato filo kurdo (Tak) e dell’Isis.
Entità
diverse che la leadership turca (presidente e nuovo premier Yıldırım)
assimilano nel discorso di lotta al terrorismo, un mantra che colpisce i kurdi
più dei jihadisti, e la loro componente parlamentare e ancora legale,
considerata fastidiosa dal partito di maggioranza quasi assoluta (l’erdoğaniano Akp). Proprio ribadendo il bisogno vitale di
sicurezza nazionale l’esecutivo e la presidenza rilanciano il disegno di legge per cancellare l’immunità ai deputati sotto
inchiesta, un progetto che
coinvolgerebbe 138 attuali onorevoli, fra questi 59 sono membri
dell’Hdp, 42 del Chp, in totale 101 membri dell’opposizione che passerebbero
dagli scranni alle celle. Tacendo o sottostimando i casi di corruzione e
ruberie il patto di ferro fra magistratura compiacente e leadership
istituzionale punta esplicitamente a colpire politici sgraditi che verrebbero
esautorati dalle funzioni legislative. Come per i media epurati, l’epurazione
del Parlamento rappresenta un ulteriore cammino d’un progetto reazionario
incarnato dal personalismo autoreferenziale di Erdoğan che non trova ostacoli
dentro l’Akp e tracima nel Paese. L’allarme lanciato da mesi da esponenti
dell’opposizione democratica come Demirtaş, leader Hdp, uno di quelli che
rischiano la galera, è l’azzeramento della democrazia, oltre alla memoria storica
delle minoranze, kurda, armena o d’altra etnìa.
Poiché
il processo segue percorsi tutt’altro che legali, ecco che chi vuol fargliela
pagare a militari, parafascisti, islamisti reazionari riprende la via dello
scontro armato. Chi segue dall’interno le vicende kurde sottolinea le diverse
prospettive. La guerriglia del Pkk nei territori del sud-est, peraltro
assediati, è ricomparsa massiccia in quei luoghi con centinaia di azioni, che
prevedono agguati anche mortali contro i militari, per ribadire presenza e
controllo del territorio, difesa della propria gente, riproposta d’un programma
che doveva seguire altri sviluppi, col disarmo e la Road map proposta da Öcalan
lasciate cadere dal presidente turco. Questi, quand’era premier, cercava
d’imbonire la comunità e riceverne anche voti di consenso, poi ha imboccato
altre strade. Sicuramente il quadro internazionale (crisi siriana) ha avuto il
suo peso, ma la crescita di un’opposizione interna attorno al polo aggregativo
del Partito democratico dei popoli e i suoi successi elettorali nel giugno e
novembre 2015, ha convinto il sultano, transitato dalla guida del governo a
quella della nazione, a cercarsi altri interlocutori. Vestendo i panni del
padre della patria continua a pescarli fra i kemalisti liberisti nostalgici di
Özal e i fascisti nostalgici delle stragi dei Lupi grigi e dei militari che
pattugliavano le strade negli anni Settanta e Ottanta.
Un
clima blindato favorisce questo gioco, eppure i Teyrêbazên Azadiya Kurdistan (i
falchi kurdi) seguono un’altra logica. Quella del colpo su colpo che costringe
il nemico, sia esso militare o politico di governo, o semplice elettore
schierato con loro ad aver paura. Del presente e del futuro. Lo costringono a
una quotidianità blindata, gli creano un deserto attorno proprio nelle
città-vetrina diventate insicure. A lungo il gruppo Tak, nato una dozzina d’anni
addietro quando il Partito dei lavoratori del Kurdistan era una realtà solida e
combattente, è stato latente. Qualche azione agli esordi, tutte in grandi
centri urbani. La ricomparsa è recente, data 2014 e 2015, con attentati sempre
più clamorosi, rivolti ai militari ma che nello spazio cittadino possono
coinvolgere anche i civili. Una tattica diversa dai militanti del Pkk. Una
scelta collegata al ricordo e alla vendetta di quei bambini, quelle donne -
tutti civili inermi - che il governo turco sceglie di massacrare dicendo di
combattere il terrorismo e facendo capire che quel popolo è di per sé
terrorista. Una scelta che pone tutti in trincea, ma secondo i “falchi”
vendendo cara la pelle, uscendo dal ruolo di bersaglio designato e
rovesciandolo. Sembra che tale logica, collocata sul piano d’una presenza esclusivamente
combattente e vendicatrice, trovi seguito anche fra diversi giovani schierati
col Pkk. Quanto fra le due formazioni ci sia collaborazione o concorrenza non è
chiaro. Per l’establishment turco si tratta di terroristi, ma abbiamo ricordato
come tutte le centinaia di vittime civili del sud-est anatolico vengano
considerati terroristi nei palazzi di Ankara.
Nessun commento:
Posta un commento