L’harem?
Scuola di vita per le donne. Non solo lo pensa, ma l’afferma pubblicamente
Emine Erdoğan, sicuramente per tenere il passo del consorte-sultano che, fra
una repressione e l’altra, non perde occasione per evidenziare la nostalgia
ottomana. La first lady turca l’asseconda e coscientemente sostiene come le
giovani donne mantenute e segregate nel palazzo Topkapi fino all’ultima
dinastia con Mehmet VI, trovassero in quella condizione e in quel luogo
formazione ed educazione all’esistenza. Una chicca da gossip, se non ci fosse
l’inquietante realtà regressiva in fatto di diritti in cui si dibatte la società
turca. L’evidenziano femministe impegnate contro ogni genere di maschilismo
laico, kemalista, islamico perché su questo terreno quel potere si somiglia,
nelle istituzioni e in ogni angolo della società. In pubblico e in privato. Simili
affermazioni, che sembrano vere deflagrazioni provocatorie, non sono sparse a
caso. Non sono gaffes, tutt’altro. Rientrano nel disegno iperconservatore
intrapreso dal presidente che vuol dire la sua anche in fatto di costume: “Le donne sono soprattutto madri” ha
affermato in occasione della ricorrenza dell’8 marzo.
Quando
non tuona contro i nemici interni (terroristi veri o presunti, popolo kurdo,
oppositori in genere, operatori dei media) Erdoğan lancia i suoi sproloqui para
paternalisti che sono un invito a guardare al passato. Quella imperiale e
ottomana è diventata un’aspirazione ossessiva che travalica anche i richiami
islamici a cui si rifà il modello del Partito della Giustizia e dello Sviluppo
da lui fondato. Da lui, ma non solo la lui. Alcuni padri di quel progetto, fra
cui l’ex presidente Gül, sono entrati in contrasto con l’autoritarismo
individualista dell’ex premier, che ha posto a capo del governo il fedelissimo
Davutoğlu (di recente barattatore del business dei profughi con l’Ue) e sta incarnando
la funzione presidenziale sognando un presidenzialismo il più esasperato e
soggettivo possibile. L’egocentrismo e la prassi nel gestire in prima persona
progetti e potere temono oscuramenti e forza altrui, così è entrato in rotta di
collisione con un sodale del tempo andato come Fethullah Gülen, contro cui ormai
si scontra apertamente perché non accetta rivalità nella stessa famiglia
politica islamista.
Erdoğan
sembra incarnare un mix fra ciò che Atatürk ha rappresentato negli anni della
Turchia moderna e forme conosciute nelle vicende di questo Paese che vanta sei
secoli d’impero (1299-1922). Se non è una riedizione del sultanato, o del
califfato, che l’attuale presidente agogna, è comunque un sistema di comando
che si perpetua. Attivando quello scambio di ruoli in cui è maestro un altro
autocrate dell’attuale geopolitica mondiale: Vladimir Putin. Oppure adottando
quel populismo che accompagna ogni cesarismo della Storia, facendolo sfociare
in bonapartismo dittatoriale. Allora i continui richiami alle glorie
dell’ultimo grande impero dell’umanità, i palazzi da mille e una notte con
mille e più stanze, gli orpelli e i paramenti mostrati dai candidati dell’Akp
finanche sui manifesti elettorali, e i citati richiami su usi e costumi per le
donne rappresentano solo una sceneggiata? Sicuramente no. Vedremo fin dove il presidente
megalomane intende condurre i suoi piani. Sebbene la storia ottomana indichi
proprio nelle congiure di palazzo una delle insidie maggiori per sultani e gran
visir.
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