domenica 6 luglio 2014

Morire di Palestina


I corpi nella Terra santa e contesa possono giacere inerti. In questi giorni è accaduto a Naftali, Gilad, Eyal. O diventare cenere come Mohammed. Possono sopravvivere a un odio vivo che si blocca prima di sfigurare del tutto Tariq. In tanti hanno pianto e le vendette, quella praticata, minacciata o promessa, restano nell’aria e non svaniranno anche se i politici stavolta cercano di placare ciò che hanno fomentato per decenni e ampliato con l’immobilismo dei decenni. Che poi inerzia non è, visto quello che la politica e la diplomazia internazionali e locali hanno prodotto con accordi beffa e con un’occupazione che perpetua crimini. Se Israele si sente insicura per gli assalti insensati e comunque omicidi dei tre giovani seminaristi compiuti da probabili killer palestinesi, deve rispondere di anni d’insicurezza e provocazione prodotti, giorno dopo giorno, dall’insediamento di Hebron e dalle mille colonie sparse in un territorio che dovrebbe essere lo Stato palestinese. Quella terra dovrebbe essere l’altra nazione e non riesce a esserlo per precisa volontà di uomini e donne impegnati nell’espressione più alta della democrazia israeliana, la Knesset.  Sui governi formati da quegli uomini e quelle donne pesano responsabilità enormi per la violenza, la vessazione, l’umiliazione pubbliche e private, rivolte spesso a gente inerme.

Tutto ciò non giustifica la follìa assassina scatenata contro tre adolescenti ebrei, ma di queste tragedie, di quelle passate o drammaticamente future devono rispondere quei capi di Stato che ora placano gli animi e giustamente invitano alla ragione. La ragione del premier Netanyahu, e di chi l’ha preceduto nella guida di Israele da ogni sponda politica, è priva d’ogni buon senso. La cultura mista di vittimismo (il proprio) e odio (per l’altro), il razzismo apparso nelle foto che giovani israeliani - aitanti soldati di leva o ragazze in vacanza - hanno postato sui social network, albergano nel governo di Netanyahu che continua ad assegnare il dicastero degli esteri al moldavo Avigdor Lieberman, nonostante gli scandali corruttivi che l’hanno coinvolto. Un politico che del razzismo anti-arabo fa professione non nascosta. Ma scandalo ancor più profondo dovrebbe produrlo il suo mai placato desiderio di aggressione e morte che in questi giorni gli fa sperare l’ennesimo intervento su Gaza, auspicando un “Pilastro di difesa due” che cancelli da quei luoghi decine o migliaia di palestinesi, come nel 2012 e nel 2008. Per la gioia degli intolleranti ebrei che direttamente ispira.

Non è granché credibile neppure l’uomo della poltrona illimitata di sponda palestinese. Il mite Abu Mazen, che certamente non è seminatore d’odio e violenza, ma ha il vizio eterno del politico di professione: l’infinitezza del potere. E’ radicato in un ruolo, la presidenza dell’Autorità Nazionale Palestinese, dal quale da anni deve rimettere il mandato e indire nuove elezioni, cosa che evita puntualmente di fare. L’attenuante è l’incertezza che sia la sua fazione (Fatah) sia quella islamica (Hamas) riscontrano da tempo e l’assenza d’un adeguato ricambio generazionale. Così ciascuno resta a gestire immagine, spazi, finanziamenti esteri in un surplace che fa da contorno all’attendismo con cui Israele ha svuotato ogni presunta conquista delle pluridecennali trattative di pace. Un’Autorità senza autorità né autorevolezza, che fra l’irrisolutezza di contraddizioni antiche (la terra rubata, il diritto al ritorno sepolto) e più recenti (la galera a cielo aperto di Gaza, il bantustan della Cisgiordania) dove esistenza e dignità umana sono continuamente violate, conserva un insignificante status quo. Lì può esplodere il desiderio di morte senza senso che ha generato i rapimenti e gli ammazzamenti a sangue freddo delle due comunità. In un malessere antico che si rinnova, a riaprire ferite perennemente sanguinanti. 

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