Afferma Naom Sheizaf, un giornalista israeliano che ha
scritto per Haaretz, Yedioth Ahronoth e The Nation:“Mentre guardo i missili esplodere nel cielo della città che amo di più
al mondo, Tel Aviv, mentre ci affanniamo correndo giù per le scale delle nostre
case per raggiungere la stanza delle biciclette che utilizziamo come rifugio per le bombe, mi sento contrario a questa operazione militare
israeliana con tutto il cuore”.
L’operazione, che nella sua sempre fantasiosa criminalità d’intenti e d’azione
Israeli Defence Forces definisce “Bordo protettivo” ha fatto in dodici giorni
337 vittime da parte palestinese (e con i raid che proseguono aumenteranno), per due terzi civili fra cui tanti bambini, e
2 vittime israeliane. L’ennesima aggressione alla galera a cielo aperto che
sono i 40 chilometri della Striscia di Gaza dove sono costretti a vivere in
condizioni disumane un milione e mezzo di palestinesi, è sostenuta da attacchi via
cielo, mare e terra da uno degli eserciti più agguerriti e tecnologici del
mondo. In azione ci sono 52.000 soldati che praticano una strage “chirurgica”
colpendo più i familiari che gli stessi 20.000 miliziani della resistenza
palestinese. O comunque gli uni e gli altri.
Prosegue Sheizaf: “Continuo
a incontrare israeliani che non sanno, per esempio, che controlliamo ancora il
ponte di Allenby (che collega la West Bank alla Giordania), così di fatto
gestendo il traffico in entrata e uscita dei palestinesi dalla Cisgiordania. Oppure
non sanno che in realtà l’esercito continua a operare nell’area A, in teoria soggetta
alla sovranità dell’Autorità nazionale palestinese. Oppure che in West Bank non
c’è una rete 3G perché Israele non permette ai fornitori palestinesi di
utilizzare le frequenze. O che imprigioniamo palestinesi a centinaia senza
processo per mesi e anni. Oppure altri aspetti incontestabili dell’occupazione...
Abbiamo costruito due enormi prigioni. Chiamiamole
“prigione West Bank” e “prigione Gaza”. La prima è una struttura a bassa sicurezza, dove i
prigionieri sono autogestiti, almeno fin quando si comportano bene. Ogni tanto
hanno permessi d’uscita per delle vacanze e una volta all’anno vengono persino
portati in spiaggia. Alcuni fortunati hanno lavori nelle industrie vicine e
ricevono stipendi al di sotto del salario minimo. Considerando anche i prezzi
bassi nelle mense del carcere, in fin dei conti i detenuti fanno un buon affare”.
E ancora: “Gaza invece è una struttura a massima sicurezza. È difficile da
visitare e per chi ci vive è impossibile uscirne. Lasciamo entrare solo cibo
(l’essenziale), acqua ed elettricità in modo che i prigionieri non muoiano. A
parte questo, di loro ci frega poco o nulla, a meno che si
avvicinino allo sbarramento della prigione e allora gli spariamo come pesci
in barile finché non si calmano. E quando finalmente si calmano,
smettiamo di sparare perché non siamo dei bastardi che sparano alla gente per
divertimento”. Chi parla d’Israele e Palestina
quali nemici di realtà simmetriche che si scontrano da decenni può trovare in
taluni ebrei la maggior smentita a questa grande bugia. Intellettuali come lo
storico Ilan Pappé, impegnato nell’opporsi al revisionismo sionista che dagli
inizi del Novecento cancella due millenni di storia per accomodanti e univoche riscritture
di questo conflitto. O come l’architetto Eyal Weizman che analizza le
trasformazioni dei Territori occupati in un sistema dove gli interventi
architettonici e le caratteristiche naturali sapientemente ridisegnate creano
una vera occupazione civile. Suggerimenti per lettura, riflessione e
divulgazione i rispettivi “La pulizia etnica della Palestina”, Fazi, 2008.
“Architettura dell’occupazione”, Mondadori, 2009.
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