sabato 7 giugno 2014

Afghanistan, ballottaggio esplosivo





A poco più di una settimana dall’avvio del ballottaggio per la presidenza afghana Adbullah Abdullah, il candidato favorito che nei preliminari ha ottenuto più voti (45%) e che raccoglie la maggior parte degli alleati politici (soprattutto signori della guerra) è stato oggetto di un attentato in cui sono decedute sei persone e ventidue sono rimaste ferite nella località di Mirwais Khan. Inizialmente si pensava a vittime nel suo entourage ma sia Abdullah sia la scorta sono rimasti illesi. Secondo lanci d’agenzia testimoni oculari parlano di due esplosioni succedutesi a breve distanza con l’impressione di attacchi suicidi. La polizia indaga e forse per questo l’incertezza resta. Il presidente uscente Karzai e l’altro candidato alla carica di Capo della Repubblica Islamica Ghani hanno condannato l’attentato quale “intimidazione per il consolidamento della democrazia nel Paese di cui le elezioni sono un importante passo“. Qualcuno vuol far fuori Abdullah? Non è escluso. Ma la sequenza di ipotesi è articolata e destinata a restare irrisolta. La componente talebana che più d’un anno fa voleva porsi in concreta alternativa alla presidenza Karzai, aprendo un proprio ufficio in Qatar (peraltro tollerato dalla politica statunitense) può voler sostenere la linea del boicottaggio elettorale fino alle estreme conseguenze di assassinare il personaggio più accreditato.

Oppure l’iniziativa bombarola parte da qualche riottoso alleato fra i tanti fondamentalisti imbarcati nella campagna acquisti dello sprint presidenziale. In queste settimane Abdullah ha ottenuto l’appoggio di alcuni candidati al primo turno come Rassoul, ha riscosso l’adesione di Sayyaf e Sherzai figure di spicco del passato che non tramonta in fatto di violento controllo di territori e voti, e d’un altro potentato della forza come Hekmatyar che ha fatto schierare l’Hezb-i Islami a sostegno del medico che vuol subentrare a Karzai. Completa il quadro della schiera dei signori della guerra favorevoli ad Abdullah la coppia dei suoi vice: Mohammad Khan e Mohammad Mohaqqeq, quest’ultimo impegnato, a suo dire, “a migliorare i rapporti col mondo occidentale”, sicuramente attraverso la rete degli appalti pubblici e privati che intende controllare, sostiene chi ne conosce le malefatte. La logica vuole che nella nuova veste di padrini del business tutti costoro dovrebbero avvantaggiarsi dall’elezione di Abdullah alla presidenza proprio per consolidare accaparramenti e speculazioni sugli aiuti occidentali (negli ultimi tempi 15,7 miliardi l’anno, ma si sono toccate punte di 36 miliardi, cooperazione compresa). Un giro enorme d’affari per politici e mafiosi locali e per le stesse nazioni “benefattrici” cui ritornano copiose quote sotto forma di pagamenti per servizi forniti.

Nella sfera dei sospetti esplosivi potrebbero rientrare anche azioni di disturbo delle potentissime Intelligence regionali: l’Isi pakistana, la Vevak iraniana, che contendono la piazza alla Cia. Quest’ultima deve proteggere quella che gli oppositori extraparlamentari definiscono la grande farsa elettorale. Non trova molto credito l’idea che a usare le maniere forti sia stato Dostum, duro sì ma non folle da far rischiare ritorsioni sul suo protetto Ghani. Il cerchio si può chiudere sulla congettura più inquietante: un attentato autoprodotto dallo stesso Abdullah per vittimizzarsi e accaparrare preferenze. Ovviamente con tutte le precauzioni per non farsi male davvero e fomentare un mito di sé pari agli “eroi patri” che hanno subìto attentati - Massoud e Rabbani - nei loro casi letali. Tutto questo in attesa della nuova grande mascherata politica che dovrà risultare funzionale agli interessi geostrategici principalmente statunitensi, ma non solo, e allo sfruttamento del sottosuolo (terre rare, litio, cobalto, rame e pure idrocarburi) dove le aziende di Cina e India vogliono farla da padrone. Archiviato il gioco elettorale, magari senza cadaveri eccellenti, potrà riprendere il tran-tran del business fra guerra e pace che nel Paese dura da decenni.

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