mercoledì 21 aprile 2021

L’egiziana Laila Soueif, esperta in detenzioni

Nella vita Laila Soueif ha insegnato matematica, tuttora è docente presso l’Università del Cairo. Ma nel corso dei suoi sessantacinque anni è diventata, suo malgrado, esperta in strutture carcerarie. Lì sono finiti il marito, Ahmed Seif al-Islam, avvocato dei diritti, scomparso ormai da sette anni, e il primogenito Alaa Abdel Fattah, oggi quasi quarantenne, internato come il genitore già ai tempi di Mubarak per l’attivismo politico che ne distingueva il carattere sin dalla giovane età. Dopo un arresto e un rilascio in epoca Sisi, Alaa è da due anni nuovamente detenuto, con l’accusa di attentare alla sicurezza dello Stato. Le altre figlie di Laila, Mona e Sanaa, hanno avuto problemi con la giustizia l’estate scorsa, quando assieme alla madre attuavano un sit-in davanti al supercarcere di Tora dove il fratello è rinchiuso. Impossibilitate a visitarlo, a consegnargli una lettera hanno inscenato la protesta, subendo un’aggressione pilotata dalle Forze dell’Ordine (se Intelligence, polizia, guardie carcerarie non s’è mai saputo, ma il manipolo di donne che le ha aggredite agiva su mandato). Le tre Soueif denunciavano anche il pericolo d’infezione che il congiunto e altri carcerati vivevano quotidianamente per il sovraffollamento delle celle, l’impossibilità di mantenere distanze di sicurezza senza i presidi sanitari previsti. Le stesse cose dichiarate dai parenti di Patrick Zaki e di tanti prigionieri meno noti. Anche Sanaa lo scorso marzo è finita in galera, subendo una condanna di diciotto mesi per le informazioni sui rischi di salute causati dal Covid 19, giudicate dalla Corte “false”. Nonostante il riserbo del regime, nelle carceri egiziane si sono verificati decessi per la pandemia. 

 

Però l’impunità regna sovrana, anzi punisce chi lancia l’allarme tramite i social, come ha fatto Sanaa. Suo malgrado la professoressa Laila s’è trovata di continuo a fare i conti con la materia giudiziaria che colpiva la famiglia. Durante la repressione di Al-Sisi ha visto imperversare centinaia di motivazioni che producono condanne. Questioni pretestuose, in gran parte sostenute da un clima a metà strada fra la falsità e la paranoia che attribuisce a qualsiasi pensiero diverso dalle posizioni governative, spesso neppure dissidente, un “pericolo per la sicurezza nazionale”. In base al quale s’imprigiona l’opposizione, s’imbavaglia la stampa, si perseguitano intellettuali e chiunque reclami libertà di pensiero e parola. Verso tutti c’è l’accusa di terrorismo. Nella migliore delle ipotesi la detenzione viene procrastinata di mese in mese in attesa d’una sentenza che s’allontanata all’infinito. Si fa di tutto per indurre in depressione chi subisce simili trattamenti, si punta al suo deperimento fisico che può portare alla morte. E’ accaduto a detenuti famosi, i Morsi padre e figlio, e se per l’ex presidente c’era un sospetto di malattia cardiaca, per il venticinquenne Abdullah lo stress carcerario sembra unito a un’iniezione letale. Laila denuncia da tempo questo stato di cose, non solo per la progenie reclusa, per le stesse condizioni d’una nazione prigioniera nelle galere e fuori, dove chi gira per via è angosciato dalla paura di finire nell’inferno di chi sta dentro. La professoressa Soueif continua a ripeterlo, negli incontri pubblici che tuttora tiene. Dice che non ha nulla da perdere e continuerà.  Continuerà a denunciare anche contro quel mondo che non vuol sapere.

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