domenica 26 gennaio 2020

Di Segni: “Io, militare in Israele respiravo cultura, non odio”


Davanti all’odierna intervista a Noemi Di Segni, presidente delle Comunità ebraiche italiane, realizzata da un navigato e appassionato cronista del Corriere della sera, qualcuno sentirà un senso di straniamento. Già come lettore mi son trovato di fronte a un’incompiuta per talune domande e soprattutto per certe risposte. Sia chiaro: ogni giornalista imposta l’intervista come crede, e l’interlocutore risponde su quel che crede. Però siamo davanti a una ripetuta tendenza da parte dei convinti israeliani, quale la Di Segni è, di leggere la realtà secondo la propria visuale e raccontarla secondo interessi di parte. La carrellata dei ricordi s’avvia da Gerusalemme dove la presidente, nella vita affermata commercialista, è nata nel 1969. Dunque due anni dopo l’occupazione da parte dell’esercito israeliano della città delle tre religioni monoteiste, più le varie confessioni di fede cristiana. La signora ricorda “… la fluidità con cui si passava da una parte all’altra della città, a bordo dell’autobus numero 4…”. L’intervistatore insiste sul concetto di fluidità e su quello di convivenza fra comunità “… E’ possibile la coabitazione fra diverse famiglie e origini ebraiche accanto ad altre realtà. A Gerusalemme ci si sfiora, tutti diversi… Un insegnamento importante, significativo: si può convivere mantenendo la propria identità nello stesso luogo, anche se molto stretto. Senza colpirsi. Senza aggredirsi”.
Parole encomiabili, che però sembrano riferirsi ad altre epoche. Dopo l’occupazione dei militari di Tsahal, nel giugno 1967, la presenza delle “altre realtà” (le famiglie palestinesi che avevano resistito alla Nakba, quelle di religione cristiana, armena) decennio dopo decennio sono diminuite. I vari governi d’Israele, di cui la signora è orgogliosa esponente nel World Jewish Congress, hanno incentivato lo sradicamento delle comunità che da secoli vivevano a Gerusalemme, favorendo unicamente insediamenti ebraici come quello della famiglia Di Segni, originaria, a detta del Corsera, di Roma e Torino. Dunque italiana, un’appartenenza di cui la presidente è fiera e noi con lei. Ma questo è un nodo su cui con tanti sionisti, sostenitori dello Stato d’Israele, ogni discorso diventa vano. Perché costoro sostengono il diritto al ritorno nella terra dei padri, quello che negano alla diaspora palestinese, una diaspora provocata peraltro dalla nascita, nel 1948, di Israele. In più basta vederla Al Quds. Basta vedere Gerusalemme est, il quartiere dove i residui del popolo arabo vivono. Solo lo scorso anno lì il governo israeliano ha ordinato la distruzione di 169 abitazioni, lasciando senza casa 328 palestinesi. Secondo un rapporto del Land Reserch Centre, fra il 2000 e il 2017 in quell’area della città 9.422 famiglie arabe hanno visto la demolizione della propria casa. In Cisgiordania - lo “Stato” palestinese nato dagli accordi di Oslo - la distruzione di abitazioni palestinesi ammonta dal 2006 a 1.525 unità. E’ questa la convivenza pensata da Israele?
Gli oltre 400.000 palestinesi che vivevano nella città santa prima dell’occupazione militare sono diventati 340.000. Mentre il numero di coloni ebrei, cittadini di altre nazioni, continua a crescere e con esso gli insediamenti giudicati illegali dai maggiori organismi mondiali (Consiglio di Sicurezza Onu, Corte internazionale di Giustizia) tanto che da tempo si parla di ebraizzazione della città. Nei ricordi del passato la presidente Di Segni si supera col servizio militare svolto “…nel gruppo dell’Intelligence. Un insostituibile allenamento culturale. Non l’odio verso il nemico. Una parola che non ho mai, dico mai, sentito in due anni. C’era sempre un concetto di difesa, di tutela…” Se lei lo dice, sarà accaduto. Però la storia di Shin Bet, Mossad, Tsahal, la storia d’Israele dice anche altro. In tanti casi cose per niente onorevoli. Nelle migliori situazioni parla di soprusi, vessazioni, torture, come testimoniano da decenni le cronache che coinvolgono la popolazione palestinese. Non solo i suoi leader politici, i militanti o i gruppi armati. Gente comune colpita, anche a morte, solo per il fatto d’essere palestinese, in quella scellerata equazione di arabo eguale terrorista grazie a cui Sharon ha costruito il Muro dell’apartheid parlando di difesa. Un concetto tutto militare, ripetuto anche da Noemi Di Segni. Un sentimento che riporta alla mente la pratica di combattimento Krav Maga, messa a punto dall’addestratore militare israeliano Imi Lichtenfeld. Anche questa tecnica definisce difesa l’attacco, e può prevedere l’uccisione del potenziale avversario.

1 commento:

  1. La signora Di Segni ci comunica che in due anni non ha mai sentito ripetere la parola "odio" verso il nemico nel gruppo dell'Intelligence di cui faceva parte. Mica c'è bisogno della parola odio per odiare! Basta la parola "nemico" che invece lei usa con naturalezza e poi a questa aggiunge "difesa, tutela". Da chi? dal nemico, appunto, che diventa tale dopo che gli vengono chiuse le strade, confiscate le terre, abbattute le case. Che ci dice la signora Di Segni? che loro non pronunciavano la parola odio ma che, agendo da nemici con i nemici cui impedivano di vivere, si facevano odiare. Ok, tutto sta nel capirsi e, unendo le parole ai fatti concreti, non è difficile capire quel che la "militare" Di Segni comunica: chiamiamo difesa ogni forma di sopruso, fino all'omicidio nel caso in cui ce ne fosse capriccio o bisogno. Basta non chiamarlo odio e il mondo dà l'assoluzione.

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