YAZD - C’è una dicotomia, o perlomeno così
sembra, fra quello che taluni ayatollah iraniani sostengono politicamente e ciò
che affermano dei mullah che si possono incontrare davanti ai meravigliosi iwan
di storiche moschee. Uomini sorridenti, benevoli, sempre accoglienti. E
discorsivi come certi preti-operai di fine Sessanta. Con un volto diverso non
solo da quello pensieroso e spesso torvo del padre della Repubblica islamica
che appare in tante immagini sparse per le città, ma dagli stessi epigoni che
hanno rivestito le cariche supreme, da Khamenei a coloro di cui si vocifera una
prossima investitura. In prima fila c’è Ebrahim Raisi, candidato alla
presidenza per la componente conservatrice che proprio ieri ha confermato di sostenere
entrambi i suoi elementi: il laico Qalibaf e il chierico Raisi. Questi divenuto
ayatollah risulta un sayyid e veste
il turbante nero, simbolo della discendenza diretta da Maometto. I nemici lo
dipingono come feroce e addirittura sanguinario, per le condanne a morte inflitte
a fine anni Ottanta, quando rivestiva il ruolo di giudice. Ma nelle esecuzioni di
quel periodo molti vedono solo la scelta vendicatrice di Khomeini. Certo Raisi
non s’opponeva alla via repressiva, forse perché giovanissimo (all’epoca aveva
poco più di vent’anni) e, nonostante l’incarico, piuttosto privo di autorevolezza.
Oppure accettava silenziosamente ogni cosa,
vedendo quel che accadeva a insigni ayatollah come Montazeri, censurato e azzerato
dal Ruhollah proprio per le critiche su quelle esecuzioni. In occasione della
rivolta dell’Onda Verde, Raisi ebbe modo di ribadire i suoi orientamenti:
disapprovò la “benevolenza” con cui il sistema aveva trattato i capi della
contestazione. Benvoluto dai conservatori e dall’attuale Guida Suprema, se
dovesse fallire l’elezione presidenziale Raisi potrebbe occupare quel ben più
potente seggio alla scomparsa di Khamenei, ritenuta prossima causa malattia. Nell’ipotetica
carica presidenziale di Raisi gli osservatori temono moti d’orgoglio, specie
ora che il Grande Satana statunitense è guidato da un elemento imprevedibile e senza
scrupoli come Trump. Sebbene la storia del quarantennio di tensione fra i due
Paesi insegna che altri inquilini della Casa Bianca, democratici o
repubblicani, hanno praticato la via della demonizzazione non solo del sistema
clericale, ma dell’intera nazione che incarnava la ribellione antimperialista
in salsa islamista. Le dichiarazioni di politica estera del chierico di Mashhad
sono finora state contenute. Lui afferma di voler proseguire il rapporto
riapertosi con l’Occidente, ad eccezione del regime israeliano che pratica
l’occupazione di terre altrui.
Però alcuni analisti iraniani critici ne sottolineano
l’inesperienza estera, di fatto Raisi rappresenta l’attuale migliore pedina
spendibile dal clero ultraconservatore, e dai certi sostenitori come
l’associazione Hojatien, guidata
dall’ayatollah Mesbah-Yazdi, per contenere il connubio fra riformisti e
pragmatici che ha portato Rohani alla guida del Paese. Anche nella vita privata
Raisi ha intrapreso una carriera di rango, imparentandosi (ne ha sposato la
figlia Jamileh) con Amad Alamolhoda, colui
che guida della preghiera del venerdì a Mashhad ed è membro dell’Assemblea
degli Esperti, che è l’organo che sceglie la Guida Suprema, uno dei traguardi
di Raisi. A conferma d’una sua predestinazione, un anno fa è stato proprio
Khamenei a investirlo, dopo la carica di custode del sacro santuario Imam Reza
di Mashhad, anche di quella della bonyad Astan
Qods Razavi, che non è solo religiosa, ma politica ed economica perché
tratta affari multimiliardari legati a produzione, energia e brokeraggio. Insomma
Raisi sembra orientato verso il Gotha dell’apparato dirigente, e allora perché
rischiare di misurarsi in una tenzone politica incerta? Le sue quotazioni per
incarichi prestigiosi potrebbero sminuirsi, ed esperti di politica iraniana
evidenziano la pochezza del suo programma.
Ci illumina proprio un pacato chierico, incontrato
in uno dei gioielli cittadini dell’architettura islamica, la moschea Mullah
Ismail, a ridosso del bazar di Yazd. Prendendo spunto dalla splendida città,
seicentomila abitanti, al confine con zone desertiche, che dietro i silenzi
delle millenarie muraglie di fango nasconde tuttora povertà e disagi, ci mostra
i sentimenti del cuore iraniano ancora bisognoso. Ciò che avevamo notato fra le
vecchine, rigorosamente in chador, che vendono scampoli di frutta sul
marciapiede; nel riciclo di oggetti poverissimi venduti ai margini del mercato
ufficiale; nel rovistare infantile fra i cestini di rifiuti riempiti dai bazari
impegnati a vendere merce ai turisti presenti anche in questo luogo meno
battuto, dove comunque passavano le carovane dell’ennesima via della seta. L’economia
dei poveri, seppure i mostazafin di
trent’anni addietro siano scomparsi, e la mai accantonata difesa dagli
imperialismi sono due temi di attualità anche nell’attuale consultazione. E il
gentile mullah, poco più che trentenne, che si è formato a Qom e discorre
amenamente lo fa notare. Considerato che il secondo argomento viene agitato
anche dal presidente uscente, che è diplomatico ma come tutti difensore
dell’identità patria, probabilmente sarà la questione economica a far pesare
l’urna sulla fiducia del presente che non è ancora futuro o su un recente passato
barricadero, presentato come difesa da chi non ama l’Iran e la sua gente,
soprattutto perché respingono ingerenze neocoloniali.
(3 - continua)
(3 - continua)
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