Alle questioni formali, che comunque risultano sostanziali per quel che si
trascinano dietro in fatto di diritti e rapporti fra i generi, su cui s’è
soffermata la stampa mainstream che commentava la mancata stretta di
mano fra Al Jolani-Ahmed Al Sharaa e la ministra degli Esteri tedesca Baerbock,
si sommano e delineano aspetti che rivestiranno il fulcro del divenire siriano,
necessariamente caratterizzato dalle volontà e i comportamenti dell’attuale
ceto dirigente proveniente in toto da Hayat Tahrir al Sham, i miliziani scacciatori
di Asad. La visita d’inizio anno della coppia franco-tedesca (accanto alla
Baerbock c’era l’omologo francese Barrot) che l’Alta Rappresentante Ue Kallas
ha rincorso come fosse una creatura che sua non era, evidenzia per l’ennesima
volta gli indirizzi decisionali della politica europea provenienti non dai
palazzi di Bruxelles ma da quelli berlinesi e parigini. Mentre gli europei
tengono a ribadire princìpi su diritti e minoranze sui quali Al Sharaa ha
ascoltato gli interlocutori, Qatar, Emirati Arabi Uniti e soprattutto Turchia hanno
iniziato a trattare questioni banalmente materiali, ma assolutamente sentite
dalla gente: ricostruzione edilizia di città e paesi sventrati dal
pluridecennio di guerra interna e d’infrastrutture e servizi (centrali
energetiche, strade, scuole, ospedali) danneggiati o polverizzati. I Paesi dei
petrodollari non sono nuovi al ruolo di paladini della solidarietà all’Islam sunnita
povero o disastrato, la Turchia erdoğaniana può mettere a disposizione
l’apparato statale di Toki, l’azienda creata dai governi kemalisti ma
ampiamente gestita dall’apparato dell’Akp dal momento della presa del
potere a inizio del nuovo millennio. Toki è stata al centro di polemiche
per una dirigenza votata al sostegno dell’attuale sistema di potere, ovviamente
a sua volta ripagata dalle copiose commesse governative, però nel bene e nel
male ha avuto un ruolo centrale nel supporto abitativo ai superstiti del
tremendo terremoto del febbraio 2023 che ha contato cinquantasettemila vittime.
Una delle ipotesi che il
presidente turco caldeggia
è la ricollocazione di ex rifugiati nella Siria della transizione. Il piano
mira ad alleggerire, almeno in parte, la tensione che i 3,5 milioni di profughi
creano da anni nelle metropoli anatoliche, soprattutto a Istanbul e Ankara. Un congruo
numero di siriani sfollati dalle aree rurali sarebbero destinati alle terre di
confine che fra Afrin-Kobane-Cizre, costituivano i cantoni del cosiddetto Rojava
kurdo. Sarà possibile farlo? Se al posto delle precarie tendopoli, dove tuttora
si ritrovano accampate decine di migliaia di famiglie, si dovessero profilare
abitazioni più o meno strutturate la lusinga ci sarebbe eccome. Ultimo ostacolo
alla “pulizia etnico-politica” è quel che resta delle Unità di Protezione del
Popolo, le Ypg kurdo-siriane, che in molti punti sono ‘migrate’ a est mentre
proseguono la difesa di Kobane. Che la situazione bellica interna non sia
pacificata e un tratto di territorio continui a vedere presenze armate a ‘macchia
di leopardo’ è confermato da notizie di reiterati scontri fra le due fazioni
maggioritarie contrapposte in questi anni: il filo turco Esercito nazionale
siriano e le Forze democratiche siriane a trazione kurda. Chi
comanda a Manbij e sotto di essa, nelle centinaia di tunnel scavati e percorsi
in lungo e in largo da differenti manipoli, non è deciso. Sebbene nel mese di
dicembre la rotta del regime di Asad ha rafforzato anche qui la presenza degli
arabi sunniti a danno dei kurdi che, secondo i primi soggiogavano la popolazione.
I punti di vista continuano a divergere, ognuno ha, avrebbe, le sue ragioni
come se dodici anni di sangue versato a fiotti non fossero serviti a guardarsi
dentro, comprendere errori e orrori e lavorare per il futuro. La Siria di
domani di cui molti parlano, ha il volto dell’Al Sharaa se non misogeno alla
maniera dei più estremi talibàn, certamente poco disponibile verso la
rappresentanza femminile probabilmente non solo esterna come frau Baerbock. E
fra i cantieri della ricostruzione, quelli del ritorno dei fuggiaschi, il
cantiere della convivenza etnico-confessionale si presenta come il più
ardimentoso e rischioso. Specie se dovrà prevedere pure la ricollocazione dei
detenuti jihadisti e dei loro familiari ostili a tutto e tutti.
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