La sospensione della vita per gli avversari di Erdoğan passa anche
attraverso la trafila di processi kafkiani messi in atto dal nuovo Atatürk
anatolico che i politologi definiscono sultano. Non solo per la fede islamica
irregimentata a sistema politico, ma per la personalizzazione con cui incarna
una nazione e il suo popolo cui chiede anima e corpo. Questa sospensione può
toccare tutti. Un destino giuridicamente guidato l’ha rivolto anche a casi
d’omonimia come quello di Asli, scrittrice libera e perciò pericolosa per
Erdoğan, pure se lei si chiama Erdoğan. Non c’è celia nelle sentenze vomitate
dal tribunale turco alla fine della scorsa settimana: condanne all’ergastolo
per scrittori, intellettuali, giornalisti finiti nella rete repressiva dello
Stato con l’accusa di appartenere al movimento gülenista. Quello accusato dal
presidente turco di star dietro il tentato golpe di metà luglio 2016. Le
recenti pene colpiscono alcuni elementi: il manager Yakup Simsek e l’art-director
Fevzi Yazici, del quotidiano Zaman,
da sempre indicato come voce dell’imam Fethullah Gülen, l’imprenditore un tempo
amico e da anni odiato nemico del partito e dell’uomo di potere in Turchia. Colpiscono
anche una famosa opinionista, Nazli Ilicak, che s’era permessa di affermare
come il movimento Hizmet non sia
un’organizzazione terrorista. Ma c’è ergastolo per tutti, anche per gli
altrettanto noti fratelli Altan, lo scrittore e giornalista Ahmet e
l’economista Mehmet che avrebbero lanciato all’opinione pubblica “messaggi
subliminali” per un’adesione al colpo di mano militare.
Sub limen, sotto la soglia dell’inconscio avrebbero lavorato i due cervelli
Altan per condurre alla disobbedienza una popolazione che, ascoltandoli in
programmi televisivi, leggendone le note editoriali, sarebbe stata influenzata
dai loro orientamenti non conformi alle direttive del regime. Neppure la
pubblicità è così sicura che questi input passino attraverso il messaggio
diretto o quello destinato all’inconscio; lo stesso dicasi per la propaganda
politica e ideologica. Insomma studi scientifici hanno ribaltato le teorie di
Vance Packard, in voga a inizio anni Sessanta. Ma quello Stato inquisitorio che
è diventato la Turchia erdoğaniana cerca appigli per la sua caccia al nemico
che va assai oltre le vicende accadute. Il tentato putsch di alcuni reparti di
esercito, aviazione e marina più alcune fazioni della Jandarma (la polizia
militare) è apparso sotto gli occhi di tutti. Realtà, finzione? Ne è seguito un
balletto accusatorio fra Gülen, additato quale ispiratore e organizzatore, e la
risposta al presidente turco a suo dire regista d’una messa in scena per poter
scatenare una pesantissima repressione funzionale a un repulisti securitario: 50mila
arrestati (quasi 9000 poliziotti, 7000 fra ufficiali e soldati, 2600
magistrati) con 170mila procedimenti giudiziari aperti e 150mila soggetti
epurati dai pubblici servizi. Lo stato d’emergenza scattato e protratto per
mesi s’è accompagnato alla crescita d’una caccia a qualsivoglia avversario, dai
parlamentari repubblicani e dell’opposizione kurda, ai militanti del Pkk,
considerati direttamente terroristi.
In questo clima ogni voce fuori dal coro risulta sgradita e
passibile non solo di censura, ma di sospensione d’ogni diritto, quello della
libertà innanzitutto. Così un sistema che costruisce consenso creando mostri
adotta la mano pesante come unica forma d’identitaria, trovare nemici e capri
espiatori è diventato in Turchia l’unico percorso politico ammissibile, che usa
le stesse Istituzioni, governativa e parlamentare, per intimidire e
assoggettare. Gli apparati di controllo della politica, come quello giudiziario
sono stati ripuliti e predisposti alle direttive presidenziali, che poi sono
quelle dell’uomo solo al comando, vista la controriforma costituzionale non a
caso approvata grazie all’appoggio del partito nazionalista e fascista dei Lupi
grigi. In questa Turchia uno dei massimi esponenti dell’intellighenzia, il
citato Ahmet Altan, finisce in galera addirittura a vita e non sa, come
denuncia la scrittrice Erdoğan se questa gogna potrà finire o sarà destinato a
marcire in galera alla stregua del leader kurdo Öcalan, ormai vicino al
ventennio di detenzione. L’uso che l’Erdoğan sultano fa di questi
“prigionieri”, definiti in tal modo dai fedelissimi magistrati, è eminentemente
politico. Di quella personalizzazione della politica con cui riesce a praticare
con indifferenza qualunque svolta a 360°, attuando e azzerando ogni patto, come
ha mostrato in questi anni con le minoranze interne e in Siria. Padrone del
tempo e dello spazio, carceriere dei pensieri e degli uomini che vogliono vivere
liberi.
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