L’ultima
esplosione, dove una vittima non è confermata, ma dieci feriti gravi sì, s’è
verificata in un luogo centralissimo e simbolico: l’Alta Corte di Giustizia a
Ramses Street, uno dei punti più frequentati e commerciali della capitale
egiziana. Un palazzo, peraltro, controllatissimo. Evocativo di anni di udienze
e sentenze clamorose, sebbene molti processi contro gli oppositori del regime
dello Scaf, prima che dello stesso Al-Sisi, si sono consumati e si stanno
svolgendo in luoghi protetti come le carceri di massima sicurezza situate
nell’immenso hinterland del Cairo. Chi abbia interesse a seminare terrore è da
mesi un argomento dibattuto. Il presidente Sisi e il suo contestato entourage repressivo
si sono ultimamente guadagnati la considerazione internazionale coi raid aerei
sui jihadisti di Tobruk e di Derna, anche sul fronte interno hanno colpito duro
nel Sinai, allentando la stretta delle detenzioni. Sono stati scarcerati i
giornalisti di Al Jazeera, detenuti
per oltre un anno, e proprio ieri 120 giovani e studenti che avevano partecipato
a cortei non autorizzati (non la guida della Fratellanza Badie e al-Shater
condannati invece a morte). Il Cairo e qualche altra importante città egiziana
subiscono attentati che seminano morte e paura. E risentimento fra la gente
che, com’è accaduto ieri nell’area prospiciente il Palazzo di Giustizia, reclama
a gran voce sicurezza e repressione.
Il terrore
urbano s’è avviato a cavallo fra il 2013 e 2014, quando bombe e
autobombe iniziavano a scoppiare lungo strade ad alta percorrenza (per la
carenza di mezzi pubblici ogni via cairota è sempre strapiena di traffico
privato) e si registrò il clamoroso boato notturno in un altro luogo assai
vigilato: il quartier generale della polizia. Secondo i mukhabarat si trattava delle prime mosse armate della Brotherhood; ipotesi
possibile ma non certa, anche perché la componente maggioritaria della
leadership ancora a piede libero condannava passi radicali e armati, reclamando la fruibilità della scena politica
di massa. Nell’ipotesi dell’uso terrorizzante delle esplosioni faceva capolino
la teoria delle “bombe a scopo coercitivo” pilotate dallo stesso esercito che
aveva strumenti e finalità per una simile strategia. Dopo un anno le certezze
mancano, si è delineato però un orizzonte instabile, ma più chiaro. Una parte
della popolazione pro Confraternita prosegue a manifestare e scontrarsi, com’è
accaduto nei giorni scorsi nei quartieri popolari di Matariya e Fayçal,
lanciando pietre e molotov, sparando qualche colpo di pistola, venendo
arrestata e uccisa. Continua, insomma, a rivendicare una visibilità che ha
definitivamente perduto e che, sul fronte della protesta, diventa rischiosissima
anche per oppositori laici, fucilati in strada: il caso più clamoroso riguarda l’attivista
socialista Shaimaa al-Sabbagh.
Parecchi
giovani iniziano a guardare ai jihadisti, che sono presenti e organizzati nel Sinai e
non solo. Com’era prevedibile l’incrudimento dello scontro e soprattutto la
persecuzione estrema possono spingere, e stanno conducendo, forze giovanili
nelle braccia fondamentaliste. Per ora non come in Iraq, Libia o nei territori
sub-sahariani, ma tutto ciò accade. E’ possibile che le ripetute esplosioni
succedutesi in città siano frutto di “lupi solitari” capaci di scegliere
individualmente obiettivi, cercando di accreditarsi verso cellule armate che possono
formarsi nel Paese. La morte di attentatori inetti che saltano in aria, com’è
già accaduto, ne fa notare la provenienza fra strati marginali della
popolazione dove la propaganda islamica, combattente e non, sono diffuse
nonostante i controlli e la repressione. Poi c’è il jihadismo organizzato, alla
ex Ansar Bait al-Maqdis, che ha sposato la linea dell’Isis con tanto di
decapitazioni mostrate nel deserto ormai chiamato “Wilayat Sinai”. Costoro terrorizzano
altrove. Usano coltelli e kalashnikov, non sembrano orientati sulle autobomba,
in quei luoghi occorrono magari bazooka e missili. Ma non è detto che,
diventato globale in casa, questo conflitto non preveda ogni tipologia armata.
Una condizione che non favorisce affatto la normalizzazione sognata da una
parte del Paese e che Sisi ha promesso di garantire.
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