Chi non ama Recep Tayyip Erdoğan ricorda come neppure per lo sprint delle
presidenziali a elezione diretta di domenica (se nessun candidato supererà la
soglia del 50% dei consensi il secondo round ci sarà il 24 agosto) il sultano
abbia rinunciato alla vetrina che l’incarico di premier gli riserva. Figurarsi se
uno che vuol diventare superpresidente d’una Turchia presidenziale poteva
limitare l’overdose espositiva in un’accesa partita di potere. Ha dunque dato
fondo al suo stile strabordante, prendendosi ogni spazio radiotelevisivo
possibile, con la compiacenza dei media filo governativi poco accessibili alle
altre voci. Gli avversari si chiamano: Ekmeleddin İhsanoğlu, figura indipendente
del mondo culturale islamico, sostenuto dal kemalismo repubblicano e
ultranazionalista, più 14 forze politiche non presenti in Parlamento. Selahattin
Demirtaş, co-leader del Partito Democratico del Popolo, un outsider cui già al
primo turno viene pronosticato un seguito più alto del solo elettorato kurdo e
che potrà avere un ruolo qualora fosse necessario il ballottaggio. Sia da
aperto sfidante del favoritissimo leader dell’Akp, sia quale suo possibile
puntello se l’ex sindaco dell’amata-odiata Istanbul dovesse avere un testa a
testa con l’esponente del compromesso fra laicismo e tradizione musulmana.
In quest’elezione cui guarda una grossa fetta
di Medioriente, quello malato e stremato
dai nuovi scenari di guerra, e quello che voleva bypassarli con la formula
dell’Islam moderato si confrontano diverse questioni. Alcune hanno il volto dei
tre concorrenti e sono chiarissime: l’Erdoğan uomo-Stato che prova a mutuare dal
passato patriarcale di Atatürk una gestione diversificata di comando,
portatrice di tradizione e confessione, modernismo e affarismo, più una
parvenza d’apertura a esigenze diverse che di recente è entrata terribilmente
in contrasto con le nuove generazioni urbane, poco disposte a dire sissignore all’uomo
solo al comando e mitizzarlo. Lo scontro sul Gezi Park è stato significativo ma
insufficiente a decretare una crisi di regime. Il black out che il premier
pensava di aggirare col doppiogioco d’una repressione paternalistica s’è
dimostrato poco gestibile nel dissenso di piazza, però ha retto nella verifica
dell’urna delle amministrative di fine marzo, più per assenza di alternative
che per un convinto rilancio. Insomma il blocco sociale interclassista, forza primaria
erdoğaniana, regge, sebbene l’infatuazione popolare non sia più vivida come un decennio
fa. E il capo dell’esecutivo è accreditato d’un 55% che aggira i veleni del
gülenismo portatore di voti a İhsanoğlu.
L’anziano intellettuale, legato un tempo all’Akp
ed ex segretario della
Cooperazione Islamica, non riesce a scaldare il cuore di un’Anatolia timorosa
che qualsiasi cambiamento al vertice potrebbe trasformarsi in regresso, di
condizioni socio-esistenziali prima che di qualsiasi altra cosa. Scarso appeal
hanno mostrato le sue lamentele sull’assenza di finanziamenti statali per lui e
il politico kurdo, mentre il premier godeva di cospicue risorse istituzionali. Qualche
dubbio più ampio l’introduce il timore di possibili manomissioni di schede, che
avevano creato contrasti fra maggioranza e opposizione nel corso dell’ultima
consultazione anche in diversi seggi della capitale. Così la coppia sfidante sembra
avere poche chances, per quanto il problema dell’autoritarismo, un putinismo in
salsa turca condito d’odio verso la libera informazione e la conseguente
repressione di giornalisti, blogger e social media, trovi un seguito ma di
minoranza, alla faccia degli appelli dell’Osce. Come minoritari sono parsi i
richiami ai diritti di libertà d’espressione e di critica calpestati a suon di
galera e tortura, poi all’emarginazione culturale ed etnica dei ceppi razziali
diversi dai turchi sollevati nei propri comizi da un Demirtaş comunque
ottimista sul superamento di divisioni e sofferenze passate. Gli osservatori
prestano attenzione anche al voto dei tre milioni di turchi sparsi nel mondo -
1.4 milioni nella sola Germania - affermando che inciderà sulle percentuali. Con
essi gli elettori raggiungono quota 57 milioni anziché 54.
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