martedì 1 luglio 2025

Presa per il Golan

 


Nel Medioriente dalle movenze forzate, bellicizzato e bullizzato dalla coppia geopolitica del momento, Trump-Netanyahu, appare l’ennesimo documento firmato dal pennarello che conta, quello del primo cittadino statunitense. Un foglio che cancella le sanzioni alla Siria, carezzando e allettandone l’attuale leader ad interim Ahmad al-Sharaa. Che ha bisogno non solo di riconoscimenti internazionali a tutto tondo, ma soprattutto di finanziamenti per dare respiro a un’economia agonizzante da oltre un decennio con l’avvìo del conflitto interno ed esterno. Nel quale i protagonisti hanno mutato ruoli, a cominciare proprio da al-Sharaa, ex al-Jolani e conduttore del Fronte al-Nusra poi scissionista e creatore di Hayat Tahrir al-Sham, meno qaedista ma sempre jihadista. Uscito di scena il clan Asad, riparato in gran parte a Mosca, ma attivo con qualche comandante sulla costa fra Tartus e Latakia, dove nei primi giorni del marzo scorso militanti alawiti avevano attaccato reparti del nuovo esercito, per poi subìre una violentissima repressione con centinaia di morti anche fra i civili. Dunque un Paese, o quel che resta, altamente instabile se si pensa ai gruppi armati kurdi firmatari d’un accordo col governo provvisorio per la propria integrazione in un’ipotesi di rinnovate Forze Armate la cui direzione è tuttora incerta, anche perché finora fra i nuclei da assemblare ha pesato la componente mercenaria vicina alla Turchia. E già dal 2019 le operazioni militari di Ankara hanno fortemente ridimensionato i territori del Rojava. Per tacere dei micro nuclei di combattenti dell’Isis esterni all’immenso campo carcerario di Al Hol (dove sono rinchiusi quarantamila fra miliziani e loro familiari controllati da forze kurde, sostenute dagli Stati Uniti) che riescono a pensare ad agguati destabilizzanti, se è reale la voce della stampa libanese d’un tentativo di attentato contro al-Sharaa. Obiettivo fallito, timori diffusi e necessità di rafforzare una leadership.

 

Ora mettersi nelle mani del presidente statunitense può diventare un terreno minato anche per un ex combattente ora votato alla pacificazione e alla diplomazia, qual è l’ex jihadista siriano. La ricerca, come afferma il suo ministro degli Esteri al-Shaibani, consiste “nell’aprire le porte alla ricostruzione e al ripristino di infrastrutture vitali, per riportare in patria milioni di sfollati”, ma accanto a probabili finanziamenti che passeranno dalle casse di Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita è il ridisegno locale il fattore con cui al-Sharaa e le comunità siriane devono fare i conti. Il percorso diplomatico che l’amministrazione statunitense rilancia ricalca gli “Accordi di Abramo” con cui s’invogliano alcuni Paesi arabi alleati a lanciarsi nell’abbraccio d’Israele e dei suoi piani regionali. Piani di bellicismo tattico anche quando Tel Aviv non lancia raid assassini, visto che l’eliminazione d’ogni traccia di presenza palestinese in Palestina, passa attraverso la colonizzazione galoppante. Nei piani statunitensi s’intravede la copertura d’ogni volontà di Israele, non solo riguardo al genocidio in corso nella Striscia, accettato senza problemi dal precedente capo della Casa Bianca, ma dagli altri agguati ai territori statali limitrofi di Libano e Siria. E quest’ultima, oltre ad aver perso dal 1967 le alture del Golan, militarmente strategiche e indispensabili per l’approvvigionamento idrico, ha ricevuto anch’essa bombe israeliane, l’avanzata dell’Idf posizionato a una quarantina di chilometri da Damasco, cui, come in Cisgiordania, sono seguiti insediamenti di ultraortodossi ebraici. Se ne contano ormai decine per un totale di oltre trentamila coloni su terra altrui che, com’è accaduto per il Golan diventato di fatto israeliano, può costituire l’ennesimo lembo di territorio che allarga l’occupazione del Grande Israele.  Cedere quello che da oltre quarant’anni i siriani hanno perduto sembra un eufemismo, non può esserlo un ulteriore ridimensionamento territoriale che può nascondersi dietro la mano tesa di Trump armata di pennarello. Posto che nell’altro braccio, l’ultimo Stranamore di Washington,  continua a maneggiare Massive Ordnance Penetrator come in Iran. Per ora la penetrazione in Siria passa per il progetto degli aiuti.