mercoledì 14 maggio 2025

Ridisegnare il Medioriente

 


Se ancora servissero conferme sui vari progetti in corso per ridisegnare il Medioriente il viaggio di queste ore del presidente americano Trump, che si ‘scomoda’ per incontrare soci in affari e possibili sudditi del neo impero, è ampiamente istruttivo. Un giro di valzer diverso dal semi disimpegno obamiano, frutto dell’opportunistica nebulosa del presidente del finto cambiamento, o dalla tradizionale presenza attraverso alleati di comodo, fossero pure le milizie kurde del Rojava sostenute da Biden. I rilanci del Trump-due ripartono dalle certezze del Trump-uno e dei suoi ‘Accordi di Abramo’, partoriti per costruire attorno al super alleato israeliano, il morbido drappello di normalizzatori dei rapporti con lo Stato sionista formato da Arabia Saudita, Emirati Arati, Bahrein, Marocco. In barba a quel che l’Idf ha fatto e fa sui territori palestinesi, ma anche in Libano e Siria. Se verso l’operato di Netanyahu, massacratore e occupante di Gaza con finalità di sterminio e pulizia etnica, Trump predispone un futuro d’affarismo immobiliare tramite il progetto dei resort, più articolata è la valutazione su quel che aspetta la dissanguata Siria, posto che Israele oltre al Golan ne pretende un’ulteriore fetta abitata dai drusi di cui si propone unilateralmente protettore. E nella consorteria geopolitica fra Bibi e Donald l’idea di frazionare quella che è stata la Siria in base alle etnìe arabe, druse, alawite, kurde è un passo favorevole ai propri interessi e a un quadro ricompositivo di non facile soluzione. Il disegno unitario del premier in pectore al-Sharaa ha bisogno di un’adesione ideale che non tutta la cittadinanza mostra di volere. In contemporanea necessita di denaro, tanto denaro, per sfamare chi vive lì prospettandogli un futuro attivo mediante investimenti e lavoro. E poi servizi primari, d’igiene, sanità, trasporto, istruzione, e case per non ammassare gente in città spettrali o in enormi campi profughi. 

 


Incontrando al-Sharaa Trump ha azzerato l’embargo, dunque non più sanzioni per il Paese che fu protetto da Putin sotto gli Asad e ora è in mano a un ex jihadista. Nella foto di rito il completo che lo riveste l’avvicina più al tycoon che allo sceicco dei petrodollari Bin Salman, che non rinuncia al tradizionale abbigliamento. I buoni uffici ricercati e ristabiliti (sebbene dall’umorale inquilino della Casa Bianca ci si possono sempre attendere voltafaccia) dovrebbero introdurre quella liquidità, linfa vitale per i primi passi di normalizzazione in Siria. La domanda che anche gli analisti si pongono riguarda la contropartita, che non è ridotta ai desideri territoriali israeliani, bensì a una sovranità limitata da imporre a Damasco con un ricatto simile alle precedenti chiusure di merci. Insomma, rispetto al riposto marchio di terrorismo, una promozione dell’attuale ceto politico siriano in cambio della sua morbidezza verso un mutato panorama regionale. Che oltre a rilanciare la centralità d’una Turchia indubbiamente avvantaggiata dal ridimensionamento della duplice presenza miliziana kurda e di Hezbollah, rimette in gioco il ruolo di ‘sorveglianza moderatrice’ di quel mondo arabo partecipe e favorevole agli ‘Accordi di Abramo’. Riuscire a farlo con l’ausilio degli eredi del Fronte al-Nusra è uno scacco a quell’intransigenza sunnita oppositrice di Israele e favorevole alla causa palestinese. La nuova veste, non solo sartoriale, di al-Sharaa verso i palestinesi appare mutata. Nel clima di ristabilimento della sicurezza e d’una pacificazione interna il governo di transizione vieta alle fazioni palestinesi presenti sul territorio di operare militarmente. Già nel mese scorso, a seguito d’una richiesta statunitense, le strutture con funzione di polizia avevano arrestato due esponenti della Jihad provenienti dalla Cisgiordania. Che sia questa la ‘buona condotta’ voluta da Trump, e soprattutto da Netanyahu, in cambio di quei finanziamenti tanto necessari a un futuro?

lunedì 12 maggio 2025

Diplomazia turca

 


Le immagini filmate dell’attacco, nell’ottobre 2024, alle Industrie Turche Aerospaziali alla periferia di Ankara con cinque vittime e ventidue feriti, possono essere archiviate come l’ultimo atto di terrorismo attribuito a miliziani del Partito kurdo dei lavoratori. In realtà si parlò anche dei Falconi della Libertà, una branca autonoma che da anni non seguiva la linea originaria del gruppo propenso a colpire solo militari e poliziotti. Ma le stesse indagini svanirono in favore di quegli incontri con Abdullah Öcalan fortemente voluti dal leader del Movimento  nazionalista turco Devlet Bahçeli, che dopo mesi hanno prodotto il recente pronunciamento di scioglimento del Pkk. Una notizia che fa dire a Bahçeli: “L'atmosfera di pace e sicurezza deve essere assolutamente permanente e realistica. La pagina sanguinaria scritta con il tradimento sarà chiusa per non essere mai più aperta". E ancora: “La palude dei pregiudizi deve essere svuotata, le dispute inventate devono finire, le tensioni pianificate che sono lo stadio di polemiche a buon mercato devono cessare, le parentesi delle ossessioni ideologiche senza princìpi devono essere chiuse”. Del resto due esponenti di vertice del partito filo kurdo Dem hanno dichiarato: "Si va creando un'atmosfera che abbracceremo con speranza" (Pervin Buldan) e “la mossa ha eliminato tutte le giustificazioni per evitare la riforma democratica" (Tuncer Bakırhan). Speranzosi tutti, da chi come l’attuale ministro degli Esteri Fidan ha partecipato di persona agli incontri con lo storico leader kurdo con cui aveva colloquiato anche nei tentativi di accordo del 2010-12; mentre Ali Mahir Başarır, leader parlamentare del principale partito di opposizione (Chp) ha esortato la politica ad "abbracciare il processo" ma di farlo gestire dal Meclisi. Forse accadrà, sebbene i segnali fin qui recepiti dicono che è l’attuale governo a trazione Akp-Mhp a voler incamerare il futuro vantaggio elettorale da un patteggiamento che significa sicurezza e pace. Così da far dimenticare quel “terrorismo kurdo” che oltre alle quarantamila vittime del decennio 1985-95, in gran parte propri civili, rivisse nel biennio 2015 e il 2016 centinaia di uccisioni di cittadini nei mesi dell’assedio alle località del sud-est anatolico voluto da Erdoğan.  

 

E’ l’alleato nazionalista d’un presidente che deve gestire l’ondata di proteste per l’arresto del sindaco repubblicano di Istanbul İmamoğlu ad aver tirato fuori dal cappello del realismo politico un asso vincente per il domani. Perché da esso può scaturire quel ritocco costituzionale atto a sdoganare un’ennesima candidatura del leader islamico  alle presidenziali del 2028. Un ritocco sostenuto dai voti del partito Dem che ora aspetta la riforma cui accennava Bakırhan: federalismo, autonomia nell’amministrazione locale che i sindaci kurdi, nel tempo passati da sigla a sigla per aggirare arresti e persecuzioni, vorranno cementare attraverso il riconoscimento della nuova linea promossa da zio Apo Öcalan. Ora che lui e i suoi uomini non possono più   essere tacciati di terrorismo e auspicabilmente torneranno liberi, tale normalizzazione è attesa col batticuore. E l’asso gettato sul tavolo da Bahçeli è rivolto anche a un bel pezzo d’elettorato repubblicano. Moderato, amante dell’ordine e della patria kemalista che verrà mostrata pacificata e sicura. Un colpo che né il compagno di studi di Bahçeli, l’alevita Kılıçdaroğlu, segretario del Chp che voleva diventare presidente e due anni fa venne per l’ennesima volta surclassato, e neppure il rampante İmamoğlu hanno pensato d’inserire nel programma di partito: la trattativa coi terroristi. La fedeltà al kemalismo, che storicamente ha usato ma mai amato la comunità kurda, venendone in buona parte ripagato, glie l’ha fin qui impedito. Certo,  pensare ai quasi coetanei Öcalan e Bahçeli - il leader kurdo è maggiore d’un anno o due - discorrere di futuro sembra impossibile. Marxista-leninista e guerrigliero il primo, lupo grigio l’altro e, per quanto figlio di agricoltori e lanciato nella carriera universitaria, attratto dalla politica nella sponda segnata da un colonnello fascistoide, Alparslan Türkeş, creatore del gruppo paramilitare che nei Settanta mise sottoterra migliaia di militanti comunisti e sindacalisti. Eppure il realismo non conosce veti. Almeno in una Turchia in crisi economica ma sorprendentemente al centro d’ogni sorta di diplomazia, visto che Putin e Zelensky giovedì passeranno per Istanbul. 


 

sabato 10 maggio 2025

Eserciti contro

 


Al vermiglio del Sindoor indiano il Pakistan risponde col piombo della sua Bunyan Marsoos - struttura fatta di piombo - come viene tradotta l’operazione bellica di Islamabad. E se le ipocrite dichiarazioni delle reciproche rappresentanze politiche assicurano al mondo vicino e lontano che ciascuno aborre la spirale armata della crisi, sono proprio le rispettive potentissime lobbies delle stellette a soffiare sul fuoco della piaga riaperta con l’attentato di Pahalgam. Fra l’altro lo scambio di missili diretti teoricamente solo su strutture militari e caduti su abitazioni e luoghi di culto, anche fuori della contesa regione kashmira, dimostra come lo spunto preso dall’assalto terroristico anti indiano, ribadisce l’odio anti pakistano e con essi la furia fondamentalista hindu e islamista, specularmente armate cui s’affiancano le eminenze grigie in divisa. Ogni esercito indica gli obiettivi colpiti, da una parte se ne fa vanto, dall’altra accusa il nemico di quattro guerre e di decine di scaramucce a suon di bombe. Anche recenti. Negli elenchi diffusi in queste ore dai due Stati Maggiori risultano colpite: le basi aeree di Nur Khan presso Rawalpindi, Murid a 120 chilometri da Islamabad, Rafiqui nel Punjab pakistano. Di contro quelle di Drangyari e Udhampur nel Kashmir indiano, il sito di stoccaggio per batterie missilistiche a Nagrota sempre nel Kashmir indiano, quindi i campi militari di Pathankot e Adampur che vantano le batterie S-400 fornite da Mosca. I generali hanno rubato la scena a Modi e Sharif, il comandante dell’aeronautica di Delhi Singh fa l’agnellino dichiarando d’aver risposto all’aggressione pakistana, costituita da droni, missili e incursioni aeree dalla Linea di Controllo. E per ridimensionare gli attacchi subìti hanno smentito la versione pakistana che vantava la “distruzione delle basi di Udhampur e Pathankot”. Qual è la verità? Ognuno gioca la sua partita, erta di propaganda verso la stessa opinione pubblica interna aizzata non solo dal reciproco nazionalismo della Lega Musulmana-N di Sharif e del Bharatiya Janata Party di Modi, ma proprio dai comandi dei rispettivi eserciti. 

 

Dei due blocchi contendenti la ciclopica India conta Forze Armate seconde solo alla Cina per numero di uomini, un milione e trecentomila, mentre la graduatoria delle armi la colloca al quarto posto, dopo gli Stati Uniti, primi assoluti per finanziamenti e arsenale. Il Pakistan ha un po’ meno della metà dei militari indiani, però i suoi uomini e anche donne, sono professionisti a tutti gli effetti, giudicati dagli esperti del settore decisamente efficaci. Motivati e orgogliosi naturalmente anche gli indiani, vantano accademie e spirito di corpo, oltreché arsenali in via di svecchiamento dopo il passaggio da forniture belliche russe a quelle statunitensi. Washington rivolge la strategia delle alleanze belliche in funzione anticinese già dalle amministrazioni Obama. Certo   la mercanzia armata non manca nel mercato mondiale, fra i gioielli bruciati dai missili pakistani risulterebbero alcuni esemplari dei caccia francesi Rafale. Ma Delhi nega d’averli persi. Fra i super generali contrapposti al comando l’indiano Anil Chauhan, sessantaquattro anni, risulta meno inquietante. Già in quiescenza, è stato reincaricato dal premier Modi dopo  una notifica governativa che dal 2022 ha consentito ai pensionati militari d’età inferiore ai sessantadue anni di poter essere ricollocati alla direzione delle Forze Armate. Più che all’arte della guerra i biografi ne sottolineano la passione per l’arte tibetana, la collezione di maschere etniche, la pratica del golf (sic). Ben più marziale il pakistano Asim Munir, cinquantasettenne salito ai vertici del proprio Stato Maggiore anche lui tre anni fa, per una sorta di ricompensa tutta interna al clan militare finito in un braccio di ferro con l’allora premier Imran Khan. All’epoca Munir era responsabile dell’inquietante agenzia Inter-Service, ma fu costretto a dimettersi per iniziativa del leader del Pakistan Tehreek-e Insaf, accusato di corruzione. La sorte cambiò direzione poco dopo: Khan finì sfiduciato dai suoi alleati di governo, quindi incriminato, vittima d’un attentato e infine incarcerato. Gli osservatori sostennero che la regìa delle oscure trame fosse nelle mani della lobby militare, da decenni padrona della scena politica interna. Perciò quando il ceto politico e i media indiani vedono nei militari di Islamabad i fomentatori del caos regionale godono d’un certo credito, compreso il sospetto dei legami col fondamentalismo jihadista. Mai smentiti dall’epoca del generale-presidente Zia-ul-Haq.


venerdì 9 maggio 2025

Il Pkk lascia le armi

 


Del marxismo storico, cui si richiamava fin dalla nascita nel 1978, il Partito dei lavoratori kurdi va a conservare l’arma della critica abbandonando quella delle armi. Infatti è attesa a momenti  la sua definitiva uscita dal conflitto armato con la Turchia. L’ha deciso un congresso interno dibattendo, con due delegazioni separate riunite per tre giorni in località diverse, l’invito del leader Abdullah Öcalan. Dopo svariati incontri proposti nello scorso autunno dal nazionalista Bahçeli, maggiore alleato nel governo dell’Akp, sedute cui ha preso parte anche l’attuale ministro degli Esteri di Ankara Fidan per molti anni al vertice dell’Intelligence, a febbraio Öcalan aveva definito lo scontro armato un retaggio del passato. Necessario alla lotta in una fase in cui la Turchia negava ai kurdi ogni diritto e riconoscimento d’identità, ma da tempo controproducente. Quel periodo era incardinato alla Guerra Fredda e al militarismo sfrenato che vedeva le Forze Armate di Ankara in prima linea nel condizionare la politica interna. Il presidente Erdoğan, intervenendo ieri a una riunione direttiva del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, ha sostenuto che tutti gli ostacoli sono superati: “L’organizzazione (militante kurda, ndr) sarà sciolta e inizierà una nuova era per tutti noi”. Dal suo canto Ayşegül Doğan, portavoce del Partito dell’Uguaglianza e della Democrazia dei Popoli la componente legalitaria kurda tuttora presente nel Parlamento nonostante le ripetute persecuzioni di suoi deputati tuttora reclusi, ribadiva l’arrivo d’una “decisione storica per il nostro popolo”. Tutti d’accordo, dunque, compresa l’ala cosiddetta militarista o comunque critica col pensiero dello zio Apo, come viene affettuosamente etichettato lo storico fondatore, ideologo e nell’ultimo ventennio rifondatore del raggruppamento, già prima di ridiscutere sull’uso della forza. Sue le aperture verso un federalismo creativo e comprensivo di riferimenti all’autodeterminazione, all’ecologismo, al femminismo. Occorrerà vedere quanto tollerato dallo Stato centrale e quanto praticabile nelle aree anatoliche del sud-est dove la quella comunità è maggioritaria. 

 

Il governo di Ankara in questi mesi, inseguendo tatticamente una conclusione favorevole delle trattive, ha concesso parecchie visite allo storico detenuto nel supercarcere isolano di Imrali. C’è stato anche un incontro ufficiale che non accadeva da dodici anni, fra Erdoğan in persona e i co-presidenti del partito Dem, Sırı Süreyya Önder e Pervin Buldan, quale ulteriore testimonianza del clima favorevole in atto. Poi giorni fa l’improvviso decesso per infarto di Önder sembrava facesse slittare un percorso quasi ultimato. Ma lo stato maggiore kurdo, quello legalitario e quello tuttora bollato di terrorismo, hanno spinto per la conclusione del dibattito e per la decisione finale. Al di là di prioritarie valutazioni di strategia politica, nel mostrare i limiti dell’armatismo del Pkk dotato di sole armi leggere, è l’evoluzione tecnologica che ha reso molto meno difendibili le postazioni sulle impervie montagne di Qandil. L’uso dei droni (i Bayraktar del genero di Erdoğan) che da un decennio impazzano nei conflitti locali, la possibilità d’un controllo elettronico dall’alto e dei conseguenti assalti bellici con tali mezzi rendono la presenza guerrigliera difficoltosa se non impossibile. Pur non essendo definito in che modo i miliziani consegneranno l’arsenale c’è chi ipotizza un’intermediazione irachena e proprio nell’area di Sulaymaniyah, un centinaio di chilometri da Kirkuk, dovrebbero insediarsi i leader del Pkk in attesa di sviluppi futuri su un loro impegno politico differentemente diretto. Le masse kurde s’aspettano di riabbracciare l’ormai canuto Öcalan, sebbene finora nulla trapelato né sul suo rilascio né su quello di leader non combattenti come Demirtaş. Liberazioni sul fronte del diritto auspicabili, per quanto il prezzo chiesto in cambio potrebbe riguardare quel ritocco costituzionale cui pensa Erdoğan per un ennesimo mandato presidenziale. Per quella corsa, con o senza İmamoğlu, alla coalizione di governo nel Meclisi mancano i numeri da richiedere appunto ai Dem. Arriveranno con questo disarmo?

mercoledì 7 maggio 2025

India fra vendetta e guerra

 


L’India lancia un attacco missilistico sulle abitazioni civili nelle aree del Punjab e Kashmir pakistani e fa una trentina di morti. Secondo Islamabad la cifra è più del doppio e assume la fisionomia dell’escalation militare. Non più le scaramucce, seguite all’attentato terroristico del 22 aprile, fra reparti dei due eserciti schierati lungo gli oltre settecento chilometri di confine che separano le rispettive giurisdizioni a nord e sud del Jammu e Kashmir. E’ voglia di guerra come nel 1949, nel 1965, nel 1971. Possibile? Possibile sì, secondo più d’un osservatore critico con la spirale nazionalista di Narendra Modi, da anni impegnato a esasperare i rapporti all’interno del suo Paese coi concittadini islamici e ora col Pakistan additato quale sponsor di vari gruppi di quel fondamentalismo. L’accusa non è ideologicamente neutrale visto che il premier indiano e il suo Bharatiya Janata Party incarnano e propugnano un altro fondamentalismo, quello del peggior induismo. Il leader che propone il Bharat come potenza mondiale ha ripreso e rilanciato il suo peggiore spirito incancrenito dai germi fascisti e razzisti dell’hindutva, che fa dell’etnìa e della religione il fulcro per selezionare gli indiani puri. Era un pensiero diffuso all’avvìo del Secolo Breve, pur distante migliaia di chilometri dal coevo nazionalismo europeo che originò fascismo e nazismo ne ripercorre alcuni obiettivi, inserendoci l’elemento confessionale. L’India moderna dei padri Ghandi e Nehru che avevano tenuto a freno tale deriva ideologica, non fa più presa sulla maggioranza d’una nazione che insegue potere, denaro, supremazia e deve trovare nemici per compattare il suo sogno di primato. Così i modelli o gli interlocutori politici di Modi diventano quegli autocrati di cui un buon pezzo di mondo sente bisogno. Non importano latitudini o tendenze culturali, può piacergli l’ortodosso Putin o l’islamico (ma non vicino di casa) Erdoğan, come lo sceriffo degli affari Trump. L’essenziale è primeggiare, a fianco di chi si vedrà di volta in volta. 



Fra gli stragisti in attività Modi deve avere un debole per Netanyahu, e per l’efficienza criminale d’Israele, se ne imita la via comunicativa etichettando operazioni di guerra con epiteti a effetto. L’attacco di stanotte l’ha definito Sindoor, un simbolo femminile tutt’altro che bellico, poiché indica la condizione delle spose hindu che si colorano di vermiglio la fronte così da essere riconosciute. Il governo di Delhi l’ha utilizzato per ricordare che le turiste indiane assalite coi loro uomini a Pahalgam sono rimaste vedove perché i partner sono stati sterminati a sangue freddo dai terroristi, probabilmente jihadisti. C’è un mistero sull’attacco rivendicato dopo due giorni da un sedicente Fronte della Resistenza, che gli analisti considerano una costola dissidente della più nota organizzazione deobandi Lashkar-e Taiba, peraltro negli ultimi tempi poco attiva. Un successivo comunicato del gruppo ha smentito il primo comunicato, facendo ipotizzare giochi d’Intelligence piuttosto ricorrenti in Pakistan. Eppure al di là di supposizioni e accuse i servizi segreti indiani in due settimane d’inchiesta non sono riusciti a raccogliere prove non solo sull’identità dell’attacco jihadista ma su presunti aiuti e coperture dello Stato o dello ‘Stato profondo’ pakistano. Probabilmente a Delhi non servivano conferme, bastavano le congetture per poter sferrare l’attacco cui però fa seguito l’affermazione che non seguirà un’escalation. Eppure per tradurre in realtà la dichiarazione occorrerà attendere l’eventuale risposta delle poco arrendevoli Forze Armate pakistane. Il futuro è aperto. Per ora si sa che i nove siti colpiti, di cui quattro nel Kashmir, sono dichiarati da Islamabad obiettivi civili, e se notizie d’agenzia rivelano che fra costoro ci sono alcuni familiari del leader d’un altro gruppo jihadista, Jaish-e Mohammad, per Delhi è la conferma di come il governo guidato da Sharif tolleri la presenza terrorista sul suo suolo. 

 

La presenza di migliaia di madrase (all’apice della virata islamista del Paese se ne contavano quarantamila) che divulgano le posizioni più radicali delle teorie deobandi non è un mistero, ma proprio il ceto politico e la casta militare pakistani nel tempo hanno sostenuto una battaglia anche armata contro i gruppi del fondamentalismo. La realtà è che uno speculare fondamentalismo confessionale è in atto nella nazione indiana, prendendo spunto dalla fede hindu per sostenere xenofobia e purezza razziale contro concittadini musulmani e cristiani (che superano i trecento milioni di fedeli) e altre minoranze meno numerose. E’ questa la miccia che può far esplodere serbatoi di fanatismo collocati in templi dedicati a Shiva o in scuole coraniche. Un nuovo conflitto che infiamma un altro angolo del mondo non sarebbe auspicabile per una diplomazia internazionale debole che, al di là di leader implicati con le proprie scelte in grovigli bellici, non mostra negoziatori carismatici. In più da tempo le guide indiana e pakistana risultano silenti fra loro, e questo non è un segnale rassicurante. Una potenza regionale angustiata da non pochi problemi qual è l’Iran, cerca di sminuire l’attrito e potrebbe lavorare per una distensione, se potrà agire. Mentre le storiche alleanze di supporto, americana verso il Pakistan e russa verso l’India, hanno perso impatto e stabilità. Proprio l’arrivo alla Casa Bianca di Trump ha spinto Modi ad avvicinarlo e omaggiarlo, con conseguente narciso gradimento del numero uno statunitense che pensa a un uso anticinese di questi nuovi approcci. Pechino che cinque anni addietro aveva avuto con Delhi contrasti nella gelida terra del Ladhak, situata nel territorio kashmiro indiano nella catena occidentale himalayana, come fa spesso sta a guardare. I rinnovati equilibri internazionali lo danno vicino al Pakistan anche sul versante delle forniture belliche che gli Stati Uniti hanno ridotto a Islamabad. Ma oltre gli intrecci geostrategici è il grande business delle multinazionali armate, ampiamente guidato da aziende americane (Lockeed Martin, Boeing, Raytheon Technologies, ecc.), a sorridere dei nuovi attriti del mondo.

martedì 6 maggio 2025

Israele, contrastare il nucleare iraniano, incentivare il massacro gazawi

 


Il rinvio del quarto incontro sul nucleare iraniano, che doveva tenersi nuovamente a Roma alla fine della scorsa settimana e che è slittato in data da destinarsi, è direttamente collegato alle richieste di Netanyahu all’amico Trump. Il premier d’Israele punta a convincere il presidente americano a riprendere la via del rifiuto d’un accordo, come aveva fatto nel 2018 ritirandosi dal cosiddetto ‘Piano d’azione congiunto globale’. L’approccio da buon statista con cui il tycoon sta affrontando nella sua seconda amministrazione alcuni intrighi mondiali, autoproclamandosi ‘paciere’ sul fronte ucraino e mediatore per la questione del nucleare iraniana, vede l’alleato sionista spingere per il fallimento dell’accordo con Teheran. Bibi propone a Donald due opzioni. L’azzeramento della produzione nucleare anche per uso civile, che peraltro l’Iran non accetterà mai. L’attacco ad alcuni siti sul territorio iraniano: centrali che processano l’uranio (Arak, Isfahan), oppure lì (Fordow, Natanz) dove avviene l’arricchimento dell’uranio ormai giunto a un avanzato grado o ancora direttamente ai reattori di Bushehr e Teheran. Trump ha tamponato, per ora, le bollenti intenzioni del governo di Tel Aviv, sostenendo la bontà della richiesta lanciata dal suo uomo, Witkoff, al negoziatore iraniano Araghchi: contenimento e possibile riduzione delle sanzioni economiche a fronte d’un freno all’arricchimento dell’uranio. Un baratto momentaneo e parziale, ma pur sempre un atto di reciproca buona volontà. E’ su questa linea, pur minuta, che le delegazioni dibattono da circa un mese con la mediazione messa a disposizione dal sultano omanita che le ha finora ospitate a Mascate e nella sede consolare di Roma. Eppure il prosieguo degli incontri è saltato, e non per il botta e risposta fra i “partigiani di Dio” yemeniti che hanno bucato la Cupola di ferro della difesa dai missili d’Israele, facendo cadere un proprio ordigno a poche decine di metri di una delle torri di controllo dell’aeroporto Ben Gurion. 

 

Quest’attacco, che ha provocato allarme ma non vittime e a cui l’aviazione israeliana ha risposto nelle ore seguenti facendone invece a sua volta, avveniva domenica 4 maggio, dunque il giorno successivo alla data del tavolo romano, prevista per sabato 3, e già in precedenza cancellata. Perché la pressione di Netanyahu su Trump per la riapertura del dibattuto nucleare iraniano, è elevatissima. Paradossalmente il leader israeliano sul tema aveva trovato maggiore accoglienza in Biden, al di là delle capacità intrinseche dei negoziatori della controparte, dove l’attuale Araghchi mostra una plasticità diplomatica che l’avvicina a Zarif (mediatore dal 2013 al 2021) rispetto al successore il generale Baqeri. Del resto gli accordi si fanno in due e lo stesso navigato Zarif poco poté davanti alla chiusura unilaterale statunitense incarnata proprio dal primo Trump. Ora la questione appare diversa: l’Iran è fortemente ridimensionato nelle sue mire di potere regionale per quanto sta succedendo da due anni e mezzo nella Striscia Gaza, in Libano, per i nuovi assetti del potere siriano; per tacere dei colpi interni subiti fra attentati, uccisioni di esponenti di rango delle Guardie della Rivoluzione, e offre segnali di oggettiva debolezza dei propri apparati della sicurezza. Perciò l’opzione scelta da Trump è stata il dialogo. Certo se diventerà infruttuoso, potranno riaprirsi i desideri d’attacco diretto ai siti di lavorazione nucleare che Israele vagheggia. Sebbene, parlando di Natanz, i locali sotterranei dove si pratica l’arricchimento dell’uranio a oltre cento metri di profondità risultano irraggiungibili anche usando la superbomba statunitense Gbu-43. Ma quest’arsenale, si parla d’una ventina di ordigni dal costo di 16 milioni di dollari ognuno, è in mano all’US Army non all’Idf. Per ora l’amico Trump fa sfogare Netanyahu su Gaza con quel che ha ed è bastato per raderla al suolo. Nulla ha controbattuto Washington alla decisione di Tel Aviv di spazzare la Striscia con una mega invasione per la definitiva espulsione di quanti più palestinesi è possibile. L’idea del resort resta in piedi. Chi fra i quasi centomila minori gazawi malnutriti vivrà, lo vedrà dai futuri campi profughi.