Se ancora servissero conferme sui vari progetti in corso per ridisegnare il Medioriente il viaggio di queste ore del presidente americano Trump, che si ‘scomoda’ per incontrare soci in affari e possibili sudditi del neo impero, è ampiamente istruttivo. Un giro di valzer diverso dal semi disimpegno obamiano, frutto dell’opportunistica nebulosa del presidente del finto cambiamento, o dalla tradizionale presenza attraverso alleati di comodo, fossero pure le milizie kurde del Rojava sostenute da Biden. I rilanci del Trump-due ripartono dalle certezze del Trump-uno e dei suoi ‘Accordi di Abramo’, partoriti per costruire attorno al super alleato israeliano, il morbido drappello di normalizzatori dei rapporti con lo Stato sionista formato da Arabia Saudita, Emirati Arati, Bahrein, Marocco. In barba a quel che l’Idf ha fatto e fa sui territori palestinesi, ma anche in Libano e Siria. Se verso l’operato di Netanyahu, massacratore e occupante di Gaza con finalità di sterminio e pulizia etnica, Trump predispone un futuro d’affarismo immobiliare tramite il progetto dei resort, più articolata è la valutazione su quel che aspetta la dissanguata Siria, posto che Israele oltre al Golan ne pretende un’ulteriore fetta abitata dai drusi di cui si propone unilateralmente protettore. E nella consorteria geopolitica fra Bibi e Donald l’idea di frazionare quella che è stata la Siria in base alle etnìe arabe, druse, alawite, kurde è un passo favorevole ai propri interessi e a un quadro ricompositivo di non facile soluzione. Il disegno unitario del premier in pectore al-Sharaa ha bisogno di un’adesione ideale che non tutta la cittadinanza mostra di volere. In contemporanea necessita di denaro, tanto denaro, per sfamare chi vive lì prospettandogli un futuro attivo mediante investimenti e lavoro. E poi servizi primari, d’igiene, sanità, trasporto, istruzione, e case per non ammassare gente in città spettrali o in enormi campi profughi.
Incontrando al-Sharaa Trump ha azzerato l’embargo, dunque non più sanzioni per il Paese che fu protetto da Putin sotto gli Asad e ora è in mano a un ex jihadista. Nella foto di rito il completo che lo riveste l’avvicina più al tycoon che allo sceicco dei petrodollari Bin Salman, che non rinuncia al tradizionale abbigliamento. I buoni uffici ricercati e ristabiliti (sebbene dall’umorale inquilino della Casa Bianca ci si possono sempre attendere voltafaccia) dovrebbero introdurre quella liquidità, linfa vitale per i primi passi di normalizzazione in Siria. La domanda che anche gli analisti si pongono riguarda la contropartita, che non è ridotta ai desideri territoriali israeliani, bensì a una sovranità limitata da imporre a Damasco con un ricatto simile alle precedenti chiusure di merci. Insomma, rispetto al riposto marchio di terrorismo, una promozione dell’attuale ceto politico siriano in cambio della sua morbidezza verso un mutato panorama regionale. Che oltre a rilanciare la centralità d’una Turchia indubbiamente avvantaggiata dal ridimensionamento della duplice presenza miliziana kurda e di Hezbollah, rimette in gioco il ruolo di ‘sorveglianza moderatrice’ di quel mondo arabo partecipe e favorevole agli ‘Accordi di Abramo’. Riuscire a farlo con l’ausilio degli eredi del Fronte al-Nusra è uno scacco a quell’intransigenza sunnita oppositrice di Israele e favorevole alla causa palestinese. La nuova veste, non solo sartoriale, di al-Sharaa verso i palestinesi appare mutata. Nel clima di ristabilimento della sicurezza e d’una pacificazione interna il governo di transizione vieta alle fazioni palestinesi presenti sul territorio di operare militarmente. Già nel mese scorso, a seguito d’una richiesta statunitense, le strutture con funzione di polizia avevano arrestato due esponenti della Jihad provenienti dalla Cisgiordania. Che sia questa la ‘buona condotta’ voluta da Trump, e soprattutto da Netanyahu, in cambio di quei finanziamenti tanto necessari a un futuro?