lunedì 16 giugno 2025

Iran alzo zero

 

Ora che anche noti dissidenti agli ayatollah,  compresi quelli che non rischiano granché poiché da rifugiati all’estero (l’avvocata premio Nobel Ebadi, la scrittrice Delijani) sono al riparo dalla repressione interna e dalle bombe d’Israele, diffidano della soluzione finale attuata da Netanyahu per un cambio di regime, il prosieguo della guerra si spoglia di qualsiasi bontà verso il prossimo. Israele e il suo premier pensano a sé, alla loro grandezza, alla reiterata follìa nell’offrire morte e orrore per tutto il tempo a venire. I palestinesi che subiscono da decenni angherie e distruzioni, a Gaza e in Cisgiordania, conoscono bene quest’intento razziale e coloniale immerso nei dollari della lobby ebraica, unico pilastro del sedicente Stato d’Israele democratico, di fatto mai nato neppure all’epoca della fondazione. I suprematismi etnico (il popolo eletto), politico (il sionismo), confessionale (l’ebraismo ultraortodosso) hanno sempre accompagnato non la rivendicata esistenza, ma l’imposizione di proprie volontà a danno d’altri. E’ storia quasi secolare quella che fa d’Israele l’elemento di rottura d’un Medio Oriente già seviziato da imperi vecchi e recenti. E dal 1948 in balìa di quanto soprattutto l’Occidente para-statunitense, i suoi patti economici e militari, permettono di eseguire in un’area sempre più vasta ai governi laburisti, centristi, likudiani, nazionalisti, ultraortodossi scaturiti dalla Knesset. Quest’impostura da quattro giorni s’affaccia a quasi duemila chilometri a Levante, in territorio iraniano dove con la finta ritrosia della presidenza Trump si cerca di sotterrare quanti più nemici possibili: generali di esercito e pasdaran, scienziati e ricercatori del programma nucleare, più la gente che gli vive attorno, visto che i cosiddetti “omicidi mirati” vengono praticati con missili, droni esplosivi, autobombe che non risparmiano civili, magari neanche in sintonia col regime, come la poetessa Parnia, la pittrice Mansoureh, l’hostess Mehrnoush, spolpate, arse vive, disintegrate dagli attacchi lanciati da venerdì notte sul loro Paese.


Seminare il panico, sterminare gente, come Israele fa nella Striscia da venti mesi, come ha fatto a Beirut e nel sud del Libano nello scorso autunno e in Siria settimane fa.  Terrorizzare, definendo gli avversari terroristi. Non solo Hamas, Hezbollah, Houti e Pasdaran Israele e i suoi benpensanti sostenitori bollano come terrorista chiunque non accetti questo criminale gioco al massacro. L’alibi  dell’autodifesa - che è invece esclusivamente offesa, desiderio di morte, morte altrui e pure della propria gente trascinata in conflitti eterni da una coriacea cricca di militari, spioni, sediziosi fanatici del proprio ego - è una foglia di fico incapace di coprire una tragica realtà che si palesa al cospetto della comunità globale. Purché questa voglia vedere. Israele, nazione che non sa e non vuole vivere in pace, proietta sul mondo paranoie e frustrazioni, non solo quelle storiche che pure hanno ricoperto di lutti la progenie. Inventa continue  rivendicazioni, sempre ulteriori nemici, demoni che in realtà hanno le fattezze dei suoi presunti statisti. Una stirpe di militari, irregolari attivisti delle bombe, ripuliti e dipinti come Presidenti, Primi Ministri propensi a soggiogare e magari proporre accordi per rinnegarli a proprio vantaggio. Così è stato per i territori che hanno polverizzato la Palestina, così per il pericolo rappresentato da potenziali bombe atomiche iraniane, potrebbero essere nove, a fronte delle novanta e passa fornite all’Idf dagli Stati Uniti. Anche media mainstream ammettono che il denaro di cui l’Intelligence di Tel Aviv è dotata gli permette di fare dell’Iran un laboratorio per attentati e omicidi mirati, infiltrando, assoldando, corrompendo cittadini e finanche elementi in carriera nei circoli della sicurezza avversaria, sicuramente corpi militari, probabilmente anche Guardiani della Rivoluzione. Nei conflitti ogni stratagemma è possibile. Ma in questi giorni che potrebbero diventare settimane o mesi, in cui da Teheran chi può fugge, si fa comprare o si nasconde, e chi non può, né vuole si difende dai raid come riesce, riparando nelle cantine e nelle fermate del metro, gli stessi dissidenti agli ayatollah possono valutare il futuro che li attende insieme all’intero Paese. 


 

sabato 14 giugno 2025

L’atomica e i cambi di regime

 


Rovesciare gli ayatollah, sostituirli con un “Leone che risorge”, così come viene denominato l’attacco israeliano in corso, o coi desideri dei nostalgici della dinastìa Pahlavi che pure dicono di volere un Iran del futuro basandosi sui simboli d’un triste passato. Israele e gli Stati Uniti, mica solo Netanyahu e Trump, inseguono il sogno del cambio di regime in Iran. Viste le molteplici criticità dello Stato persiano sul fronte economico, soprattutto per gli embarghi decennali voluti da tutte le amministrazioni statunitensi in virtù del mai sanato smacco degli ostaggi che viaggia ben oltre i 444 giorni di quella crisi (1979). Se oggi Trump e un pezzo d’America accettano d’appoggiare la guerra al Medio Oriente lanciata dal premier israeliano è per la revanche eterna rivolta agli iraniani che hanno spazzato via il potere dei governi-fantoccio come quello sanguinario dello Shah. In quella rivoluzione diventata islamica, pur avendo altre anime, c’era il rigetto dell’intento di dominio esterno sempre presente con svariati attori. L’alleanza d’acciaio fra Washington e Tel Aviv, elemento portante per la nascita, lo sviluppo e l’ingombro del sionismo ben oltre i propri confini statali universalmente riconosciuti, vede da tempo favorire a senso unico abusi, guerre, stragi, da parte d’Israele col supporto militare di un’America subordinata ai voleri del fanatismo ebraico. Fantastica geopolitica che vede fondamentalismi a senso unico, accade fra le due sponde atlantiche dell’Occidente civile che rincorre pervicacemente le crociate del Terzo Millennio. Sfruttare la debolezza intrinseca d’un regime, quello iraniano lo è, indebolito da un’opposizione allo strapotere clericale, è la strada pensata dagli avversari interni ed esterni, coi primi propensi ad aiutare chi vuol dare una spallata non tanto a una Guida Suprema  indebolita dall’età, ma al simbolo del suo ruolo. Il potere del clero sancito dal velayat-e faqih, imposto dal Ruhollah Khomeini agli altri ayatollah. Scelte antiche e divisive, fra gli stessi chierici di rango, eppure pesantemente presenti nei conflitti fra un Iran riformista e uno conservatore che periodicamente hanno spaccato il Paese, non solo il Gotha dei turbanti. 

 

Se per un primo ventennio questi contrasti sono stati vissuti dentro il ventre molle della nazione, saldando due caste di potere, chierici e militari, i loro gruppi di rappresentanza parlamentare e le bonyad economiche controllate, nel secondo ventennio il fremito civile, la voglia di diritti, la gioventù studentesca urbana che s’erge contro quelle caste e agogna la laicizzazione, il genere femminile che rifiuta il velo e magari pure la chirurgia estetica in voga, hanno animato gli scrolloni dell’Onda verde del 2009 e le periodiche rivolte, fino all’omicidio di Stato di Mahsa Amini. Questo in una società spaccata fra chi difende il passato recente della Rivoluzione islamica e chi non amandolo, insegue un cambiamento. Altra cosa sono i rovesciamenti pilotati, come può diventare la guerra di Netanyahu lanciata all’intera nazione iraniana, più che contro chierici e pasdaran. Un po’ come accade alla Gaza distrutta per scacciare Hamas, mentre il progetto è fare terra bruciata di ogni palestinese. A economia azzoppata e spaccature interne s’aggiunge l’attuale debolezza degli apparati iraniani della forza, non tanto per la disgregazione dell’Asse della Resistenza con lo sfaldamento di Hezbollah e Hamas, ma per il meticoloso e prolungato lavoro d’infiltrazione operato dagli apparati dell’Intelligence israeliana che si servono di oppositori iraniani e d’insospettabili iraniani inseriti nella vita civile, militare, scientifica e probabilmente politica del loro Paese. Non si tratta d’inseguire le solite congetture complottiste, parlano i fatti di cronaca geopolitica che possono svelare reiterate operazioni del Mossad legate a questa tattica, peraltro già praticata nei confronti di Fatah e Hamas. E’ un fatto: Israele, grazie al fiume di denaro a sua disposizione, compra i propri avversari, certo se costoro sono propensi a vendersi. Ultimo, e non certo secondario, fattore del piano di rovesciamento legato alla forza, il peso tecnologico negli attuali conflitti, un terreno su cui l’Iran paga pegno, poiché lo scontro che può anche tenersi nei tunnel e nelle trincee, viaggia nei cieli, corre nei bip informatici. Perciò ogni altrui avanzamento, non necessariamente sulla deterrenza nucleare, è temuto. Mondi di serie A e B e peggio ancora. I secondi e terzi piacciono subalterni, è una storia che si ripete dai tempi di chi l’atomica l’ha usata veramente.  

venerdì 13 giugno 2025

Israele, guerra all’Iran

 


Il principale Stato-terrorista globale lancia nella notte raid aerei su impianti nucleari e centri militari iraniani, colpendo in maniera mirata nella stessa capitale. Lo diceva da tempo, l’ha fatto, certo di non avere reazioni. Secondo fonti d’agenzia nel mirino le città di Natanz, col suo centro d’arricchimento dell’uranio, Ishfan, però l’Aiea dichiara che la centrale non è stata colpita, Tabriz dove al settore di ricerca nucleare s’affiancano due basi militari, quindi a sud-ovest Arak e Kermanshah. Con operazioni-killer, di cui il Mossad è capofila al mondo, sono stati eliminati Hossein Salami, responsabile delle Guardie della Rivoluzione e Mohammad Bagheri, capo di Stato maggiore dell’esercito. Fra le vittime di stanotte sono stati annunciati anche gli scienziati nucleari Abbasi e Tehranchi. La motivazione sarebbe l’autodifesa da “un regime che minaccia l’esistenza d’Israele”; chi minaccia chi e soprattutto chi attacca chi sono sotto gli occhi del mondo. Che però non vuol vedere la scalata di violenza d’un Paese sorto con princìpi che si sono sempre più rivelati guerrafondai, espansivi, coloniali. Verso i palestinesi, popolo defraudato della propria terra e verso il Medioriente vicino e lontano. L’intenzione di continuare a colpire al cuore la nazione iraniana era stata in più occasioni esplicitata dal governo Netanyahu, e già diversi attacchi interni con attentati e una sequela d’uccisioni mirate contro ingegneri del piano nucleare erano state compiute, ma non rivendicate da Israele. Per la precisione e sofisticatezza dei mezzi impiegati il pensiero correva alle Intelligence di Tel Aviv e Washington, che però hanno sempre negato coinvolgimenti. La Casa Bianca sostiene di non essere stata messa al corrente dell’operazione di stanotte. Formalmente gli Stati Uniti hanno riaperto la trattativa sul nucleare con Teheran, e sembrerebbero propensi al dialogo. Di fatto finora gli incontri sono stato formali, le delegazioni restano su posizioni lontane, visto l’intento americano d’impedire lo stesso impiego civile del nucleare, su cui comunque l’Iran continua a lavorare.  

 

Secondo la valutazione della stessa Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica le bombe su impianti nucleari possono produrre conseguenze poco prevedibili riguardo a fughe radioattive e contaminazioni a lungo termine d’aria, suolo e acqua. Se per distruttività non corrispondono a esplosioni di ordigni atomici, il fatale effetto letale può risultare altrettanto pericoloso. Mentre i vertici di Israel Defence Forces con Zemir esultano e rilanciano come indispensabili simili azioni per tagliare le gambe al nemico, peraltro supportati dal leader dell’opposizione Lepid che si congratula con l’esercito, da Teheran giungono le grida di vendetta. Il vecchio ayatollah Khamenei afferma ancora una   volta che “Israele dovrà affrontare un destino amaro e doloroso”. Litania trita e inefficace. Lo Stato ebraico la conosce, se ne infischia e ha conseguentemente alzato posta e pretese. Trovando in Trump un sodale supremo in fatto di provocazioni visto che l’accelerazione verso gli assassini-mirati, che nel decennio 2010-2020 erano rivolti ai soli tecnici e ingegneri nucleari, fu opera del presidente che diresse un drone esplosivo sulla massima autorità militare e politica iraniana: il generale Qasem Soleimani. Il colpo venne incassato con le sole invettive verbali o poco più dagli eredi della civiltà persiana, e da allora il crescendo dell’aggressività senza confini di Tel Aviv, ha sempre avuto il benestare dello Studio Ovale, chiunque vi sedesse o risiedesse, assieme all’infinità d’armamenti e finanziamenti che sempre più viaggiano dalla sponda atlantica statunitense al satellite sionista nel Mediterraneo. L’escalation tecnologico-informatica dei conflitti favorisce chi incentiva tali competenze, le utilizza in maniera massiccia e chi ha fondi, tanti fondi, da investire in corruzione e infiltrazione dell’avversario. Attualmente l’Iran e i suoi vicini di fede e ideali mostrano un ventre molle per instabilità, opposizione ideologica, crisi economica e contraddizioni incistate da oltre due decenni. Quella è la ferita purulenta su cui i Servizi infilano il proprio ditone. Nel piano chirurgico dello Stranamore Netanyahu e soci non certo per guarire, ma per seppellire l’avversario. A Gaza e altrove. Col ghigno ridente dell’amico Donald e l’occhio socchiuso d’un Occidente che vede le autocrazie solo altrove.

lunedì 9 giugno 2025

Questione di quorum

 


Il quorum, nel latinorum politico il numero “dei quali” c’è bisogno per determinare la validità d’un voto, è diventato l’inafferabile Araba fenice che sfugge o concretamente fugge dalle urne per invalidare l’istituto referendario. A tratti usato e poi abusato, da chi come i radicali non praticava attivismo politico nei territori e si richiamava a princìpi sui diritti, quasi sempre sacrosanti ma non sempre vissuti sulla pelle e impiantati nel cuore della popolazione. Taluni  radicali valorosi (Aglietta, Faccio, Spadaccia) non ci sono più e non c’è più neppure chi della Rosa nel pugno fece un principato (Pannella) senza la lungimiranza di certi principi, che non dovevano sostituire i princìpi per i quali ci si batteva, coi propri paggetti autoreferenziali (Rutelli, Della Vedova, Capezzone) plasmati a misura servile del protettore. Così in fatto di quorum le battaglie civili sui grandi referendum (1974 divorzio, 1978 finanziamento ai partiti, 1981 aborto, 1985 scala mobile, 1987 nucleare, 1991 preferenze Camera, 1993 legge elettorale, 1995 privatizzazione Rai) ottenevano dall’87% al 57% del benedetto quorum. Vincevano i sì, vincevano i no, ma gli elettori s’esprimevano. Fino all’inaridimento dei rapporti fra partiti, elettorato e temi trattati. Dal 1997 il quorum diventa maledetto, per chi indice i referendum, o benedetto, per chi vuole boicottarli usando la lontananza dai seggi che comporta il fallimento della consultazione. Con l’eccezione d’un quorum valido (54,8%) su una questione sentita, sentitissima: la conservazione del bene pubblico dell’acqua. Referendum stravinto con 25 milioni e 900mila voti (95,35%), poi successivamente tradito dagli organi legislativi e di controllo dello Stato che hanno consentito a rendere l’acqua fonte di profitto per aziende pubbliche e private. Simili situazioni sono pugnalate all’anima di elettori e cittadini per il doppio comportamento di rendere insignificante la consultazione diretta e per permettere lo scempio abusivo che è il furto d’un bene primario, patrimonio del genere umano. Così Politica e Impresa hanno azzoppato lo strumento referendario.  Sbiadito, considerato sterile dai pessimisti, ma divenuto inefficace per via degli attentati alla validità impiegati dai boicottatori. E chi sono gli affossatori dei cinque quesiti dell’8 e 9 giugno? Non solo i partiti che hanno espresso ufficialmente la propria intenzione distruttiva (Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia, Italia Viva), ma parecchie singole presenze fra l’elettorato dei partiti d’opposizione, cioè i sostenitori dei cinque referendum. Poiché soprattutto sui temi di difesa dei diritti dei lavoratori, una certa tipologia di elettori, gli imprenditori presenti nel Partito  Democratico, Movimento Cinque Stelle, Alleanza Verdi e Sinistra, +Europa avrà fatto mancare la propria partecipazione alle urne. E’ un cattivo pensiero? Certo, ma plausibile non solo a naso. Basta rifarsi alle percentuali di sostegno delle ultime elezioni politiche (Pd 19% M5S 15,5 % Verdi e Sinistra 3,6, +Europa 2,9 per un totale del 41%). Ma oggi famosi sondaggisti (usiamo quelli dell’Ipsos del 30 maggio scorso) danno le percentuali di questi gruppi del centrosinistra in crescita (45,5%). E visto che un pezzo (vogliamo calcolarlo attorno a un 5%, ma potrebbe risultare anche più ampio) di astensionisti cronici, poiché disgustati dalle pluritrentennali comparsate del centro-sinistra, in quest’occasione hanno votato per coscienza e sostegno ai diritti di lavoratori e per la cittadinanza, chi altro ha sgambettato il quorum?

martedì 3 giugno 2025

Melonismi: il voto del non voto

 


L’ennesima uscita a effetto Barnum, come il Circo dell’impresario a stellestrisce Phineas Taylor, offerto dalla Meloni premier a favore di telecamere e soprattutto del codazzo di replicanti-esegeti, portavoce o meno della Sorella d’Italia, cioè il giretto per il seggio senza ritirare le schede referendarie e votare, non è solo l’ennesima sparata d’una venditrice di fumo assurta a massima carica della politica nazionale. E’ l’ulteriore tassello della parodia da furbetta del quartierino che ora fa cose più importanti e seguìte rispetto alle precedenti fasi di militante missina e politica in età di svezzamento berlusconiano. Entrambe condite da arroganza e opportunismo senza freni, fregandosene dei ruoli istituzionali d’un ceto passato dalle ruberie di Stato della Prima Repubblica, allo scippo dello Stato dei restanti trent’anni e ormai più che stiamo vivendo. Ormai fa sua la parodia del Bagaglino, di cui Andretti e Craxi andavan fieri per il ritorno d’immagine che ne seguiva, passando per i Drive In e l’intero asservimento mediatico-intrattenitivo di cui il Cavaliere più amato dagli Italiani e dalle Italiane ha goduto, compresi i “Bungabunga” con le Olgettine, le storielle sessiste espresse sul palco di Atreju, insomma ogni comparsata giocata fra la Villa di Arcore e Palazzo Chigi. La figlia, sorella e madre d’Italia Giorgia, che ha imparato benone la lezione recitativa con accenti enfatici, colpi di teatro e astuzie comunicative se ne serve per la gestione del potere e rilancia in quell’orgia tanto cara alle destre liberali o illiberali, che non è un ossimoro visti i “padri nobili” cui i suoi corifei s’ispirano. Se poi aggiungiamo anche la non celeste ma nerissima nostalgia alla quale si richiamano parecchi meloniani, appare l’intera gamma dello straniamento che da un trentennio il post-fascismo - ben prima dello sdoganamento berlusconiano e del pellegrinaggio a Fiuggi - aggiunge ai richiami a mondi tolkeniani, manipolazioni fasciocomuniste, falsificazioni rossobrune. Sciocchezze. Senz’arte né parte di cui si sono riempiti le gote anche autoproclamati intellettuali di quella sponda. E il voto non-voto, cos’è? Beh, la Meloni vola basso e guarda al tornaconto, non lancia illusioni con Massimi Sistemi, s’accontenta di creare confusione, abbaglia taluni suoi elettori lavoratori dipendenti che qualche dubbio sull’astensione dalla difesa dei propri diritti se lo pongono. In più scompiglia i seggi, invitando ad andare in quei luoghi a far nulla, e dunque intralciando le normali operazioni di voto, occupando spazi, allungando le code dei votanti reali. Ai Fratelli e alle Sorelle d’Italia Giorgia fa intendere: fate trambusto, ostruite il passaggio, impedite l’espressione, così li fregamo.

venerdì 30 maggio 2025

L’arte non lava l’infamia

 


Passa per la cultura, una grande mostra (I tesori dei faraoni) ospitata alle Scuderie del Quirinale dal prossimo ottobre, la ricucitura del governo di Roma con quello del Cairo. Giorgia Meloni lancia il cuore oltre l’oltraggio molto più di Matteo Renzi e Paolo Gentiloni che messi insieme, durante i loro esecutivi dal 2016 al 2018, non avevano mosso un dito in occasione del sequestro, della carcerazione comprensiva di torture e assassinio del ricercatore Giulio Regeni, un piano criminale sempre coperto dal presidente egiziano al Sisi. Certo, i nostri premier seppero di quello scempio a delitto avvenuto, ma non si peritarono mai d’interrompere i rapporti con la cricca militare che schiaccia dal 2013 la vita quotidiana della popolazione interna e dei visitatori esterni, a meno che non fruiscano del turistificio sul Mar Rosso. Ovviamente la cultura vola alto, non s’infanga del lordume del ceto politico d’ogni nazione ed è bene che l’esposizione romana, organizzata da una Srl (Mondomostre creatura aziendale di Tomaso Radaelli) sviluppi il suo programma, sperando in costi d’ingresso accessibili ai visitatori. La promozione fa già conoscere chicche pregiatissime (il sarcofago di Tuya, la maschera di Amenemope, le raffigurazioni di Ramsete VI e Sennefer) da gustare nel corso della visita. A curare la collezione, un esperto di quelle antichità, Tarek el-Adawi, ex direttore del Museo Egizio che sorge a ridosso della famosa piazza Tahrir, che nel gennaio 2011 fu il cuore delle speranze di trasformazione. Un uomo a sua volta testimone di alcune razzie: il furto compiuto da ladri che un paio di giorni successivi all’avvìo della rivolta s’introdussero tramite un lucernaio nelle sale espositive prelevando alcuni pezzi, diversi dei quali vennero comunque recuperati. E le razzie compiute da poliziotti che, anche dopo la caduta di Mubarak, usavano talune sale del Museo per malmenare e abusare i dimostranti.

 

Come denunciò in un processo Samira, una delle oppositrici sequestrate fra le mummie dei faraoni e poi trasferita nel carcere militare Haikstep. All’epoca la giovane rivelò: “In quei momenti desideravo di morire e non ero la sola. I militari ci toccavano, ci toccavano tutte. C’imponevano di abbassare i pantaloni… Una donna dei Servizi mi disse di distendermi perché “Sir” mi avrebbe visitata. “Sir” vestiva con abiti in dotazione all’esercito. Ero nuda davanti a lui, c’erano anche ufficiali e soldati che guardavano. Io chiedevo alla donna d’impedirlo. Uno che mi esaminava toccò il mio stomaco con uno strumento elettrico e continuava a insultarmi Se lui era un medico, come poteva farmi questo? Mi umiliavano per stroncarmi, volevano che non mi occupassi più di diritti, di politica. Ridotta in quelle condizioni non stai più lottando contro l’oppressione, ti senti semplicemente un essere inferiore”. Questa testimonianza di Samira è dei mesi successivi all’abuso, nella primavera 2011. Poi da 2013, dopo il golpe che portò al Sisi alla presidenza, la stampa interna non diffuse più notizie simili, né tantomeno informazioni. Un silenzio tombale ben più profondo e assolutamente non artistico ha soffocato il Paese, fino a lacerare, strangolare, annientare migliaia di giovani,  come fu per Giulio Regeni che cercava di capire cosa accadeva nelle strade d’una civiltà millenaria resa lugubre dai nuovi potentati. Quel che diversi governi italiani - oltre ai citati, anche Conte e Draghi e oggi Meloni - non hanno compiuto è un gesto d’amore oltreché d’onore verso un concittadino calpestato fino al martirio da un manipolo di killer: gli ufficiali della National Security Agency al servizio di al Sisi, il generale Tariq Sabir, i colonnelli Athar Kamel e Usham Helmi, il maggiore Magdi Sharif. Per quest’infamia è in corso a Roma un precesso, verso il quale il governo egiziano, che non può essere annoverato quale Istituzione amica, ha pervicacemente opposto indisponibilità assoluta. Ogni fruitore della mostra I tesori dei faraoni rivendichi il bisogno di giustizia per il nostro martire Regeni. L’odierna premier Meloni non può nascondere l’abominio d’un assassinio dietro la bellezza dell’arte.