mercoledì 20 novembre 2024

Pakistan, riparte la guerra al terrore

 


Da oggi il premier pakistano Shehbaz Sharif lancia “l’operazione militare globale” rivolta ai separatisti del Belucistan. I toni del governo di Islamabad sono perentori, il ministro dell’Interno Mohsin Naqvi ha definito martirio di eroi quello degli ultimi poliziotti uccisi in un ennesimo attentato suicida compiuto nell’area. “I figli coraggiosi della nostra patria hanno sacrificato le loro vite per contrastare i disegni nefasti dei terroristi” ha dichiarato in video, mentre la tivù di Stato dedicava servizi giornalistici per ricordare come Islamabad sarà vicina ai familiari dei caduti con sostegni economici. La retorica in questi giorni è stata ridondante anche perché fra assalti e azioni kamikaze si sono registrati prima ventisei poi dodici morti in un crescendo che destabilizza completamente la sicurezza, non solo nel profondo sud della regione contesa. Il Belucistan è un’amplissima area tribale vissuta per secoli come tale dalle popolazioni autoctone prima di finire inglobata in più recenti confini nazionali. E’ divisa fra Pakistan e Iran, quest’ultimo in alcune fasce orientali aggiunge la denominazione Sistan. Storicamente i beluci sono popolazioni iraniche che parlano una lingua locale e pure pashto e brahui. Sull’onda di rivendicazioni autonomistiche sempre negate sia dagli ayatollah iraniani, sia dai governi pakistani d’ogni tendenza, si sono creati relazioni con le componenti del fondamentalismo talebano della Shura di Quetta. Uno dei gruppi che costituiscono una spina nel fianco di chi comanda a Islamabad sono i Thereek-i Taliban Pakistan autori di sanguinosissimi, sensazionali e reiterati attentati rivolti prevalentemente a reparti dell’esercito, e pure a loro familiari. Il più atroce accadde dieci anni or sono presso la scuola di Peshawar riservata ai figli degli ufficiali, e vide lo sterminio di 132 ragazzi presenti nel college. La motivazione dei TTP fu implacabile: si colpivano ragazzi fra i dieci e diciotto anni come vendetta per la medesima sorte subìta da adolescenti e famiglie del Waziristan del Nord sottoposto alla repressione delle Forze Armate con l’operazione Zarb-e-Azb, che doveva colpire i miliziani islamisti ma produsse centinaia di vittime civili.

 

In Pakistan il clima è infuocatissimo da tempo. Nel 2023 i dati offerti dal ministero dell’Interno registrano “1.524 morti e 1.463 feriti per azioni terroristiche e antiterroristiche”. Nel Belucistan propriamente detto, opera l’Esercito di liberazione beluco, che chiede autonomia al governo centrale per poter gestire il territorio  completamente depredato dall’esterno. Da oltre un quindicennio gli esecutivi di Islamabad hanno dato via libera all’uso della regione da parte di aziende cinesi a supporto del cosiddetto corridoio economico Cina-Pakistan. Terminale il porto di Gwadar, in cui Pechino ha investito miliardi, uno dei terminali del passaggio di merci inserito nella Belt and Road Initiative affacciata sul Mar Arabico. Questo, come in altri investimenti infrastrutturali cinesi, vede una cospicua presenza di forza lavoro straniera e non offre ritorno alla popolazione locale né come ricaduta economica né sotto forma di servizi. Se ne avvantaggia solo il governo centrale che stipula contratti con l’estero non riconoscendo ai beluci neppure un dollaro. Una vera usurpazione secondo i gruppi armati che prendono di mira i progetti e le forze dell’ordine pakistane che li presidiano. Dell’aumento di azioni definite terroristiche - sebbene sui fronti bellici libano-palestinese e ucraino si registrino decine di migliaia di vittime - si è ultimamente occupato anche il Dipartimento di Stato Statunitense. Washington ribadisce l’impegno di sostenere l’alleato pakistano, ma sia la smobilitazione dell’amministrazione Biden, sia la valutazione che accanto alle vittime chi risulta colpito dall’instabilità è l’affarismo cinese, potrebbero produrre un esclusivo effetto di facciata, nulla di più d’una dichiarazioni d’intenti antiterroristica e via. Da parte sua il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane ha annunciato l’avvìo di una propria iniziativa sul territorio di sua competenza contro i separatisti armati. Comunque fra i due confinanti l’Iran risulta finora il meno colpito dai fondamentalisti che supportano le rivendicazioni autonomiste.

mercoledì 13 novembre 2024

Erdoğan-Musk, empatìa sovrana

 


Nella rimappatura mondiale, economica prima che militare e geostrategica, è tutto un fremito fra i nuovi padroni del globo e quelli che ambiscono a diventarlo, personalmente anche fuori da qualsiasi investitura popolare. Basta essere ricchi come gli imperatori dei tempi andati. I magnati, sempre autoritari, che stanno rilanciando il capitalismo delle origini - puro, duro, crudo e crudele - purgato delle edulcorazioni keynesiane che hanno fatto innamorare generazioni di liberal non solo statunitensi e perdere la testa, e soprattutto la via, alla sinistra pur riformista, sono soppiantate da oltre un trentennio. Com’è stato per il fascismo l’Italietta ha fatto da laboratorio. Il berlusconismo degli anni Novanta disegnava un modello guardato con interesse altrove e imitato e ovviamente ingigantito. Perché se non il potere criminale, di cui il Belpaese è comunque un peso massimo, quello finanziario presenta protagonisti ben più corpulenti capitalisticamente parlando dell’omino della Provvidenza che ha inquinato la nostra democrazia nazionale. Il tornaconto personale, privatissimo è trasformato in interesse pubblico, senza quei distinguo, ormai è d’uso definirli ipocriti, che pure politici di levatura internazionale magari chiacchierati, comunque differenziavano. Il clan kennediano, tanto per fare un notissimo esempio, con tutti i suoi legami legali e illegali aveva pesato non poco sui successi del più amato dei discendenti, il John Fitzgerald della Nuova Frontiera, ma la scia delle maldicenze che riguardavano il presidente si riversava più sulla sua brama sessuale e sulla ragion di Stato che sul desiderio di acquistare con la forza del denaro il potere mondiale. Non è più così e non lo sarà, sebbene certi tycoon (pensiamo agli indiani Adani e Ambani tanto per stare in rima e direzionarsi su Paperoni del presente e futuro) preferiscono coprirsi le spalle con premier acchiappaconsensi in base a una recita comunque elettoralmente fruttifera, vale per Modi e Trump per restare su colossi globali, poi a cascata ci sono le corti finanziarie di Putin o Erdoğan. 

 

Proprio fra i purosangue della politica vecchia maniera, che da decenni continuano a galleggiare sopra un mix di consenso incentrato su intuitive capacità, populismo, retorica, finanziamenti del capitalismo cui restituiscono prebende, alleanze e veti incrociati, e i ricconi che scalpitano per impugnare uno scettro come nel mondo medioevale, si creano continui e crescenti ammiccamenti. E’ di queste ore l’approccio fra Elon Musk, nominato Doge (proprio così) per l’efficienza del governo statunitense e il super presidente turco. Il punto d’incontro diventa la tecnologia, che vede il multimiliardario di Pretoria, nazionalizzato statunitense, in prima fila in un pianeta dove con essa accumula stratosferiche ricchezze. SpaceX, Boring Company, Tesla, Hyperloop sono realtà affermate e in via di sviluppo che spaziano, è il caso di dirlo, dal cosmo al sottosuolo, interessandosi di una gamma di trasporti veloci e interplanetari assolutamente futuribili sebbene élitari. Cogliendo al volo l’incarico offerto da Trump al suo geniale pupillo, Erdoğan nell’assise Cop29 di Baku ha dichiarato: "La tecnologia non è un settore in cui si può progredire da soli, sono necessarie partnership. Se si presentano opportunità di collaborazione, siamo aperti a lavorare con Musk". I due s’erano incontrati un anno fa a New York e avevano parlato dell’ipotesi dell’apertura di una fabbrica di Tesla in Anatolia. Ma forse più che alle auto elettriche il pensiero del leader turco va al potenziale bellico, già in buona salute coi droni d’attacco Bayraktar  utilizzati in questi anni su diversi fronti. La Turchia sta già collaborando con l’aerospaziale SpaceX e nel luglio scorso ha lanciato il suo primo satellite di comunicazione, Turksat 6A, da Cape Canaveral. Al di là di simpatie e approcci soggettivi sono questi intrecci fra governanti autocrati e chi su governi, sistemi di potere, affarismo vuol realizzare regni sovrani a costituire l’attuale inquietante realtà. Un sistema di sudditanza definito democratico che di democrazia non ha nulla. Non solo quella partecipativa ormai tramontata ovunque, ma pure la rappresentativa. I governanti chiedono consenso, prospettando ai cittadini un’autocrazia identificativa che si rispecchi nel loro potere e nella loro ricchezza.

lunedì 11 novembre 2024

Erdoğan-Bahçeli, contrasto sui sindaci Dem

 


La recente guerra ai sindaci voluta dal governo di Ankara, che sta indagando su 37 comuni guidati da esponenti del Partito filo kurdo Dem (terzo partito al Meclisi con 57 deputati) per sostituirli con commissari statali, mette sotto pressione la ferrea alleanza fra Erdoğan e Bahçeli su cui l’esecutivo si regge. A ottobre l’anziano ma tuttora inamovibile esponente del Partito nazionalista (Mhp) aveva lanciato l’apertura rivolta al movimento kurdo e all’illustre leader incarcerato Öcalan per riavviare i dialoghi interrottisi un decennio or sono. Al centro di auspicabili colloqui concessioni di autonomia locale ai kurdi, agognate e proposte dallo stesso recluso dell’isola prigione di İmrali, in cambio dell’abbandono della lotta armata, su cui il capo storico del Pkk aveva annuito e che invece è stata sempre disapprovata dalla direzione del movimento arroccata sui monti di Qandil. Per settimane il possibilismo restava nell’aria, con Bahçeli che interveniva perché venisse interrotto l’isolamento totale subìto negli ultimi quattro anni da Öcalan cosicché potesse ricevere la visita d’un nipote, quindi la recente difesa del sindaco di Mardin Ahmet Turk da investire del ruolo di mediatore nel confronto con Öcalan. Il partito Dem, ultima versione di precedenti sigle costrette allo scioglimento poiché accusate di fiancheggiare il gruppo armato kurdo, ha sempre negato e continua a rigettare tale accusa. Che però non gli vale un diverso trattamento soprattutto da parte degli esponenti dell’Akp, lanciato dal 2015 in uno scontro aperto con ogni componente politica kurda e con la stessa cittadinanza dell’est del Paese. Nel corso dei passi attuati da Bahçeli il presidente turco era rimasto silenzioso a osservare, ma a seguito dell’iniziativa in corso contro gli amministratori locali ha dichiarato: "Non possiamo chiudere un occhio sull'organizzazione terroristica che ha istituito meccanismi di estorsione attraverso il potere municipale", un avallo dell’attacco all’investitura popolare ricevuta dai sindaci con le elezioni. Non è solo il responsabile per l’Asia centrale di Human Rights Watch a sostenere che “negare a centinaia di migliaia di cittadini i rappresentanti eletti del governo locale, sostituendoli con funzionari nominati dall’alto, mina il processo democratico e viola il diritto a libere elezioni”, l’alleato di ferro Bahçeli sul tema afferma che un sindaco come Turk, politico navigato utile per l’approccio diplomatico con Öcalan, non deve essere rimosso. Del resto certe imposizioni dall’alto hanno solo inasprito le relazioni, senza far recedere la popolazione dal voto verso i propri rappresentanti etnici, riconfermati e spesso rafforzati a ogni consultazione locale. Nel biennio 2016-17 furono sostituiti gli eletti in 94 comuni. Nel 2019 i fiduciari governativi hanno rimpiazzato gli eletti dell’allora Hdp in 48 municipi su 65. Con l’ultima denominazione il Partito Democratico dei Popoli continua a eleggere suoi esponenti, piaccia o meno al governo centrale.

martedì 5 novembre 2024

Mainstream mediatico e la protesta spogliata

 


I riflettori e le telecamere puntati sull’ovviamente vestitissima Kamala Harris, che spera di diventare prima presidente donna degli Stati Uniti, hanno lasciato cadere la notizia della volontariamente discinta iraniana Ahoo Daryaei. La quale tre giorni or sono era stata filmata nell’Unità di Scienza e Ricerca dell'Università Azad di Teheran mentre si aggirava in reggiseno e slip fra altri studenti maschi e varie studentesse rigorosamente in chador. Il video stesso, ripreso amatorialmente da una persona presente, mostrava prima un approccio interlocutorio verso la giovane da parte d’un uomo e una donna, forse di passaggio o forse appartenenti alla Gašt-e eršâd la nota polizia morale che vigila sull’uso del velo femminile. Poi evidenziava, seppure a distanza, come la ragazza venisse prelevata da un nucleo in borghese, probabilmente di basij. Non si sa ancora se Ahoo sia passata per una centrale di polizia. E mentre su parecchi social il filmato veniva diffuso e osannato come un’estrema protesta, ancor più clamorosa fra le tante che continuano a resistere alla repressione avviata dal 2022 dopo l’uccisione di Mahsa Amini, sempre per una ragione di velo mal indossato, altre voci sostengono che la ragazza sia stata condotta in un centro medico per indagare sul suo stato di salute mentale. Comitati studenteschi di opposizione al governo lanciano l’allarme su tale ipotesi: in altre circostanze più d’un attivista è stato tacciato di follìa o di patologie psichiche. Di più per ora non è dato sapere anche per i noti filtri imposti per “ragioni di sicurezza” dalla Repubblica Islamica iraniana. Ma pur in mancanza d’una chiara versione dei fatti, la ragazza in biancheria intima, non si sa se protestataria o meno, avrebbe avuto il privilegio di aperture di tiggì e prime pagine di giornali, se in questi giorni l’appuntamento elettorale americano non avesse occupato interamente la scena.

lunedì 4 novembre 2024

Harris-Trump, la forma e la sostanza

 


Mentre impazza il count-down mediatico - è bene chiamarlo così all’americana, come ai tempi della conquista lunare prodromo del controllo global-tecno-militare riversato sul Terzo Millennio, altro che “grande balzo per l’umanità” - su chi sarà il 47° presidente statunitense e sui rischi conseguenti d’un nuovo successo del miliardario criminale, nonché della novità rivoluzionaria della prima donna alla Casa Bianca, quell’angolo di mondo arso e riarso che è il Medioriente ha occhi socchiusi e scarsi dubbi. Non solo i sopravvissuti di Gaza, che pure possono domandarsi quanto tempo gli resta per non serrarli definitivamente, bensì gli altri,  attori e comparse, per nulla immuni dalla diffusa cenere. L’elenco delle scelte trumpiane nel quadriennio della sua presidenza (2016-2020) sono note: sulla contrapposizione israelo-palestinese il suo Studio Ovale le studiò tutte per favorire Tel Aviv, a partire da qualificare la città santissima di Gerusalemme quale capitale dello Stato ebraico e insediarvi l’ambasciata Usa, in barba all’occupazione in atto dal 1967, alle molteplici risoluzioni Onu, all’area orientale della città abitata da arabi. Quindi: sovranità israeliana sulle siriane Alture del Golan, occupate anch’esse da quasi un sessantennio; introduzione dei cosiddetti “Accordi di Abramo” con Emirati Arabi, Bahrein, Marocco, punta dell’iceberg d’un patto per normalizzare il ruolo coloniale d’Israele con una fetta del mondo arabo. A tutto danno dei palestinesi sempre più soffocati, braccati, seviziati, assassinati in quei lembi di terra riconosciutagli da altri leader, l’americano Clinton e l’israeliano Rabin, accoglienti e ossequiosi prima che con Arafat con l’ipotesi  d’una patria palestinese. Eppure erano insidiosi quegli Accordi stilati a Oslo, scritti sull’acqua e presto naufragati, non solo perché ignoravano rifugiati e il loro diritto al ritorno, ma risultavano intossicati da colonie e coloni ebraici più pericolosi dello stesso Israel Defence Forces nel soffocare l’esistenza palestinese. 

 

Trump, l’autarchico e sedicente non guerrafondaio, stravede per gli autocrati e per i cuori di pietra alla Netanyahu, perciò una sua rielezione è jattura pura per chi deve misurarsi con la tremenda vendetta che la Knesset avalla dietro il suo duce. L’altro Israele di fatto è impotente e comunque non sa che farsene dei palestinesi se non spingerli fuori dalla terra un tempo voluta e ora scippata a chi non deve avere il diritto di viverci. Agli occhi di questo popolo senza casa che vede annerito ogni futuro, l’altra America, democratica e sorridente come Kamala Harris, appare egualmente infida. E’ lei, è il partito che ha espresso Biden ad aver permesso tredici mesi di carneficina seguìti alla strage di Hamas, chiamando terroristi questi, militari gli apparati di Tsahal. Uno scontro impari che accanto alle vittime prodotte coi due interventi, ridisegna il Medioriente prossimo venturo. Con una Striscia di Gaza rasa al suolo e preda d’un ritorno ebraico, un Libano triturato sotto bombe ad alto potenziale tecnologico e mantenuto sotto tiro, una Cisgiordania immersa nella spirale sgombero-insediamento della diatriba palestinese-colono incentivata dal governo di Tel Aviv e accreditata da Washington quale azione estrema ma necessaria. Questo lungo anno di stragi ha avuto il partenariato dei Democratici d’America, non solo come conseguenza di ciò che tutti i governi degli Stati Uniti hanno sempre fatto dalla nascita dello Stato ebraico, ma uscito Trump dalla Casa Bianca nonno Biden ha dato di più, e la sorridente Kamala l’accompagnava nell’infausta orgia delle spedizioni dei gioielli omicidi di Boeing, General Dynamics, Lockheed Martin. “Affari” sostiene il mondo finanziario che ha il cuore a salvadanaio e nessuna morale. Chissà se gli affabulatori della geopolitica televisiva, che nelle prossime ore ci spiegheranno non tanto le palesi differenze fra l’omaccione ossigenato e la ridanciana lady, quanto le finissime diversità sulla foreign policy dei due, convergeranno su quanto risulta esplicito: il presunto disimpegno americano in Medioriente resta una favola. Israele, la sua quinta colonna, è il perno d’un imperialismo con alleanze miste nel mondo arabo e non solo. Al di là di chi alloggerà nello Studio Ovale.

venerdì 25 ottobre 2024

Turchia kurda, la pace e la guerra

 


A chi hanno affidato il loro messaggio e le loro vite martirizzate i due assalitori di Kahramankazan lanciati contro Tusaş, la maggiore azienda aerospaziale turca? Una scenografia simbolica: kalashnikov contro i sofisticati strumenti da guerra lì progettati e prodotti,  in un impari scontro che ha aggiunto all’iniziale prologo di morte (cinque le vittime dell’attentato) altrettante nella risposta proprio dell’aviazione turca attiva il giorno seguente su quarantasette postazioni kurde dislocate fra Iraq e Siria. Palesata l’apertura a un possibile dialogo, accantonato da molti anni, fra il condannato eccellente e padre del Partito kurdo dei lavoratori Öcalan e l’attuale maggioranza del Meclis nella persona del ‘Lupo grigio’ Bahçeli, il gruppo dirigente di Qandil fa capire di non gradire la mossa. Sebbene tutto sia fermo da oltre un decennio, e in questo tempo tanto sia peggiorato per la numerosa comunità kurda di Turchia, i capi della montagna sembrano togliere la parola al leader piombato nell’isola di İmrali. Pare ripetersi un deja vu, conosciuto fra il 2012 e 2013, quand’erano in corso i famosi colloqui fra ‘Apo’ Öcalan e l’allora boss del Mıt Fidan, fedelissimo di Erdoğan poi dislocato sul fronte diplomatico. Insomma Bahçeli, che fa le veci del presidente turco, giorni fa aveva aperto uno spiraglio parlando di “diritto alla speranza”, che per la legge nazionale si può applicare agli ergastolani, non a chi è considerato un terrorista come Öcalan. Eppure con uno scambio reciproco questa via potrebbe essere intrapresa. A inizio ottobre la distensione s’avvaleva dell’interposizione di alcuni membri del Partito Democratico dei Popoli, la componente kurda presente in Parlamento che vede tuttora detenuto il co-presidente Demirtaş e altri onorevoli. “Pace dignitosa” chiosava Hatimogullari, attuale leader, e si è continuato con la rivisitata ipotesi della chiusura del ciclo armato che ha fatto ridire a Erdoğan:  Ci aspettiamo che ciascuno si renda conto che non c’è posto per il terrorismo e la sua ombra oscura nel futuro della Turchia”. 

 

Forse Öcalan e Demirtaş sono d’accordo, Karayilan, uno dei leader del Pkk armato, no. Infatti alcuni commentatori di lungo corso del conflitto a ‘media intensità’ che in Anatolia presegue da quarant’anni non credono alla possibilità che la volontà del settantacinquenne iniziatore delle rivendicazioni kurde siano ascoltate sulle montagne turco-irachene. Nonostante i recenti bombardamenti, nonostante arresti e retate rivolte anche alla popolazione civile, anzi proprio quest’ultima colpita indiscriminatamente, viene ricordata dall’odierno comunicato ufficiale del Pkk che si attribuisce l’assalto alla Tusaş produttrice di morte. Gli ottimisti sostengono che nonostante i funerali e il lutto i colloqui ci saranno. Troppo alta la posta in gioco, al di là di guerra e pace interne, i tatticismi dei mossieri convergono sui precari equilibri, risicati in fatto di voti, per le elezioni future. L’assalto del Partito repubblicano alla presidenza della Repubblica per ora è stato sventato, però Erdoğan è al capolinea: per ricandidarsi dovrebbe avere il conforto d’un ritocco costituzionale, come quello che nel 2017 trasformò il Paese in repubblica presidenziale. I trentacinque milioni di kurdi di Turchia, il loro partito (Dem) terza forza nazionale, sono un bacino elettorale appetitoso se il blocco di maggioranza relativa riuscirà a barattarne un sostegno. In cambio l’aria di libertà per i kurdi reclusi, capi e gregari. Probabilmente anche alcune garanzie in più riguardo ad amministrazione delle province orientali, mentre sui diritti di autodeterminazione, che erano il pezzo forte delle richieste di ‘Apo’ un quindicennio fa, per ora nulla traspare. Fra la scommessa, totalmente interessata, dei volponi di governo e il possibilismo dei leader reclusi, c’è il dubbio che contrappone eventuali accordi e la mitologia della guerriglia d’altura e urbana degli irriducibili della lotta armata. Di fatto kalashnikov contro jet Kaan.

mercoledì 23 ottobre 2024

Turchia, tornano gli attentatori

 


Nuovo terrore in Turchia. Quattro morti, fra cui gli assalitori, e quattordici feriti è il bilancio d’un attacco compiuto da un commando presso la maggiore azienda aerospaziale di Stato (TUSAŞ) situata a Kahramankazan, una piccola località a una quarantina di chilometri dalla capitale. Nel sito lavorano quindicimila addetti, in sintonìa con la Nato si producono nuovi modelli di caccia e i droni Kizilelma Bayraktar, fiore all’occhiello della tecnologia bellica anatolica. La polizia, e lo stesso Mıt, esaminano i filmati delle telecamere di sicurezza in cui sono impressi i volti scoperti d’un uomo con uno zaino e un fucile d’assalto, coadiuvato da una donna. Giunti in taxi davanti ai cancelli della struttura hanno immediatamente iniziato a sparare, hanno anche fatto esplodere un ordigno e nei video scandagliati dalle forze dell’ordine s’intravede molto fumo. Penetrando all’interno degli uffici hanno preso in ostaggio alcune persone poi liberate dall’intervento di reparti di sicurezza che hanno ucciso la coppia armata. Non c’è stata finora alcuna rivendicazione. Il ministro dell'interno Ali Yerlikaya ha fatto riferimento a “Tre martiri e quattordici feriti, tre dei quali in gravi condizioni”, forse non parlava del commando. Le ipotesi sull’attacco oscillano dall’Isis, ai sedicenti Falconi della Libertà, gruppo vicino o fuoriuscito dal Partito dei Lavoratori Kurdi (Pkk) oppure direttamente a quest’ultimo. Questo partito vive una spaccatura fra un’indomita componente militarista che mal digeriva già più d’un decennio addietro la linea aperturista di Öcalan, padre storico del Pkk e storico internato nel supercarcere di İmralı e chi non voleva e non vuole chiudere il capitolo della lotta armata. Negli ultimi anni la Turchia è stata teatro di molteplici attentati, con le città vetrina di Istanbul e Ankara nel mirino. L’ultimo fuoco c’era stato nel novembre 2022 nella centralissima İstiklal Caddesi, la via del passeggio e dello shopping degli istanbulioti, sei i morti e sospetti vicini ai citati Falconi. La metropoli sul Bosforo era già stata bersagliata: la notte di Capodanno 2017 presso la discoteca Reina nel quartiere di Beṣiktaṣ un uomo scaricava un kalashnikov in una sala zeppa di astanti festosi: trentanove morti. Gli scampati all’agguato sostennero che l’attentatore parlava arabo. Qualche giorno prima ad Ankara l’ambasciatore russo in Turchia, Karlov, veniva freddato da un poliziotto turco che gli faceva da scorta. Questi mentre sparava intonò un inno qaedista. In quell’anno i Falconi della Libertà nel cuore di Ankara avevano prodotto mortali esplosioni costate la vita a trentasette cittadini e agli stessi attentatori kamikaze. Mentre nel luglio 2015 a Suruç sul confine siriano, un’associazione giovanile socialista che stava organizzando una missione di sostegno e ricostruzione per l’assediata enclave kurda di Kobanê registrò un attentato con trentadue giovani vittime. Sospetto sull’Isis, certezze nessuna. Sospetto d’intrecci con le Intelligence parecchi. E comunque non finisce. Mentre Erdoğan e Putin, in passato competitori e da tempo dialoganti, parlavano nel consesso dei Brics gli attentatori si riaffacciano all’uscio. Per la cronaca la Farnesina comunica che i tecnici italiani di Leonardo spa presenti oggi presso la TUSAŞ sono tutti sani e salvi.