martedì 29 aprile 2025

Modello Gaza per il Kashmir

 


Bisognerà capire se l’isteria che sta montando attorno all’attentato di Pahalgam nel Kashmir indiano, che di sangue ne ha sparso e di tensione pure, potrà rimanere circoscritta senza ulteriori picchi o se si è davanti a un’escalation su cui l’opinione pubblica e certi estremismi organizzati, istituzionali e non, già preparano un livello di violenza ulteriore e superiore. E’ il mondo indiano, colpito e scosso, che lancia pericolosi segnali. A cominciare da quelli attuati da reparti dell’esercito di Delhi che nella zona  dell’attentato hanno aperto il fuoco e demolito abitazioni dove ci sarebbero presunti terroristi islamici o famiglie fiancheggiatrici. Prove scarse o inesistenti, ma vendetta innescata. Come quella che denunciano kashmiri musulmani espulsi in queste ore da case che proprietari di fede hindu non vogliono più affittargli. O quelli pestati per via che accompagnano esibizioni di pura intolleranza, sempre a sfondo confessionale, organizzate da gruppi politici e paramilitari indiani. Shev Sena, fra i sostenitori dell’hindutva assieme al Rashtriya Swayamsevak Sangh, le inscenano in varie località bruciando bandiere pakistane e aggredendo musulmani. Il governo di Islamabad nega ogni copertura agli attentatori fondamentalisti (Lashkar-e-Tayyiba o altri) e comunque non è disposto a subire accuse infondate e ricatti di Delhi, come quello sul blocco delle acque del bacino dell’Indo (minaccia peraltro la cui attuazione è tutta da verificare). Frattanto anche i propri orgogliosi, puntigliosi e intriganti militari si pongono in stato d’allerta puntando armi sul chilometrico confine interno fra le aree kashmire reciprocamente controllate. Mentre la stampa d’opposizione indiana lancia un’ipotesi che sui social tracima e dilaga con ogni sorta d’aggiunta. 

 

Non è, non può essere una similitudine, ma si propone un sospetto: come per l’attacco del 7 ottobre da parte di Hamas, Israel Defence Forces s’è fatto cogliere volutamente “impreparato” anche nella vallata di Pahalgam i numerosissimi paramilitari indiani, ovunque presenti e vigilanti, sembrano aver voltato la testa altrove. Per creare il precedente dell’aggressione sanguinaria? Non ci sono certezze, ma ipotesi tante, sostiene la stampa anti Modi. Oppure il governo di Delhi, che da circa un lustro ribadisce di controllare ogni angolo dell’area attorno a Srinagar  proprio per sostenere turismo e affari a vantaggio di molti ma non dei kashmiri islamici, sta bluffando sulla sicurezza, e mobilita un’infinità di divise non in funzione antiterroristica bensì per l’ordine pubblico interno. La congettura gira su alcune testate, sui social, per ora nessun partito indiano la riprende per inchiodare Modi e il suo staff, a cominciare dal ministro dell’Interno Shah. Invece il riferimento alla vicenda di Gaza balza nella mente dei militanti più estremisti dell’hindutva che invocano un “metodo Israele” anche per il Kashmir, inteso come pratica della terra bruciata e di annientamento della presenza islamica nella regione. Certo, si tratta dello sfogo più fascista e sciovinista che la rete raccoglie e rilancia, ma è il ventre immenso di quella politica che ha trovato sponda nel partito di governo, Bharatiya Janata Party, e vuole omologare la società indiana con ogni mezzo, lecito o meno. E’ il prosieguo di quanto l’entourage di Modi coi suoi predicatori arancioni sta diffondendo da anni. Il caso più noto e infuocato riguarda il premier dell’Uttar Pradesh Yogi Adityanath, che come altri monaci siedono in Parlamento e vogliono radere al suolo qualsiasi convivenza verso minoranze non così minute come i duecentocinquanta milioni d’islamici e i sessanta milioni di cristiani indiani.

lunedì 28 aprile 2025

Kashmir, tensioni e tentazioni

 


Mentre sotterra il papa della pace, il mondo della guerra è già pronto a rinfocolare incendi. In questi giorni India e Pakistan rilanciano antichi contrasti capaci di rinfiammarsi sull’onda del fondamentalismo istituzionale. I due nient’affatto benevoli vicini, da decenni un contro l’altro armati come prolungamento orientale della trascorsa Guerra Fredda, restano con arsenali ricolmi di testate nucleari, centosettanta a testa sostenevano statistiche certamente da riaggiornare, in peggio. In base a passati conflitti, l’ultimo lontano più di mezzo secolo (1971), si dice che anche nei momenti di crisi come l’attuale i due vicini mimino lo scontro armato senza volerlo rilanciare. Sarà. E’ anche vero che le reciproche guide politiche - l’induista Modi a Delhi, l’islamico Sharif a Islamabad - all’apparenza compassati e malleabili con vari partner internazionali per commercio e cooperazione, inseguono ben altri disegni interni e regionali. Che in questa fase hanno conosciuto in alcuni territori rissosamente condivisi, qual è il Kashmir, il perfetto terreno dell’urto indiretto. I sanguinosi avvenimenti della scorsa settimana ne sono una riprova. L’assalto stragista su visitatori inermi vuol infliggere alla piattaforma turistica indiana un colpo che può fungere da freno, dopo la ripresa del settore uscito dagli stop forzati della pandemia. Nel Kashmir, cosiddetto svizzero per vallate lussureggianti e vette imbiancate, non ci sono soltanto bellezze naturali. C’è una cospicua fetta di abitanti islamici che subisce i contraccolpi della cancellazione dell’autonomia amministrativa decisa dal governo centrale di Delhi e una conseguente discriminazione nell’occupazione quotidiana schiacciata ed emarginata dall’affarismo turistico promosso e protetto dalla politica del Bharatiya Janata Party. Esaltatore dell’India induista contrapposta ai musulmani interni e d’oltre confine. 

 


Eccolo, dunque, il nocciolo del problema in un contesto che non è più la conservazione dell’identità indipendente che i padri delle rispettive patrie, il pakistano Jinnah e l’indiano Nehru, andavano predicando nell’immediato Secondo Dopoguerra. E’ qualcosa di peggiore, ricomparso nell’epoca del fallimento del laicismo politico e nel recupero d’un confessionalismo introdotto in maniera più o meno smaccata nelle Istituzioni. Il Pakistan l’aveva fatto nel decennio di dittatura del generale Zia-ul-Haq (1978-1988), favorendo l’islam più fanatico di talune madrase deobandi, nella provincia Khyber Pakhtunkhawa resta famosa la Darul Uloom Haqqania, tuttora attivissima, nella quale si sono formati capi talebani come il mullah Omar e l’attuale clan Haqqani denominato appunto da tale scuola. L’India di Narendra Modi lo sta facendo da circa un ventennio agganciandosi all’hindutva teorizzata agli inizi del Novecento dall’ideologo razzista Savarkar. Due orientamenti che strumentalizzano le fedi islamica e induista conducendole a interpretazioni fanatiche ed esclusiviste. Il richiamo citato agli arsenali bellici dei due Stati, che nascevano quando nel mondo bipolare della “pace armata” ciascuno cercava, e facilmente trovava, alleanze per il tornaconto di tutti aveva dato l’assenso e la fornitura atomica a Delhi da parte sovietica, a Islamabad da parte statunitense. Purtroppo quell’arsenale è rimasto e si è ampliato, mentre i due Paesi asiatici hanno conosciuto esplosioni demografiche e mercantili che li rendono protagonisti non solo in ambito regionale. Al di là di minacce-contro lanciate da premier megalomani (Modi) o politicamente instabili (Shahbaz Sharif), i due leader stanno usando a scopo interno i contrasti attuali. Cosicché Delhi ricorre al ricatto di bloccare il flusso delle acque dell’Indo per incrinare la produzione agricola pakistana assolutamente dipendente da quell’irrigazione; i militari di Islamabad, non da oggi i veri padroni di chi siede al governo, mirano a rafforzare la propria influenza utilizzando l’armatismo jihadista come quello dei probabili esecutori dell’attentato a Pahalgam, i miliziani di Lashkar-e-Tayyiba. Autonomi ma fino a un certo punto, perché forniture e coperture dell’Intelligence di Stato fanno sempre comodo, utili quando assaltano obiettivi indiani oppure destabilizzano il quadro politico interno, si chiami Sharif, Bhutto o Khan.

sabato 26 aprile 2025

Governo siriano, duri, puri e aggregati

 


Velleitario, presuntuoso, realista Ahmad al-Sharaa - già Abu Muhammad al-Jolani, leader del gruppo salafita Jabhat al-Nusra e poi di quello islamista Tahrir al-Sham - viene variamente etichettato da osservatori e analisti in base al “lavoro istituzionale” con cui punta a offrire alla Siria post Asad un nuovo governo. Il percorso è tutto in salita per i cento e uno problemi, le spaccature e divisioni interne ai gruppi etnico-religiosi presenti fra la popolazione scampata a tredici anni di conflitto e stragi, e le mire che potenze attigue e potenze mondiali continuano a mantenere nei confronti del territorio siriano. I passi politici annunciati da al-Sharaa parlano di: unità nazionale e convivenza civile, ricostruzione statale ed economica, e già bastano per un percorso che potrebbe durare anni. Il primo obiettivo è incappato, ad appena tre mesi dalla liberazione dal clan Asad, in un grosso intoppo. Una ribellione messa in atto nell’area abitata dagli alawiti fedeli all’ex regime - Tartus e dintorni - da gruppi armati nostalgici di Bashar. E’ finita nel sangue. Di tanti cittadini. L’attuale governo ha dichiarato duecentotrentasette vittime, l’Osservatorio siriano dei diritti umani è salito fino a duemila. La realtà è che il Paese è parzialmente controllato e non pacificato. E se un’altra comunità, quella drusa, si è anch’essa risentita col governo, usando armi da fuoco ma senza grandi spargimenti di sangue, alcune famiglie druse collocate nelle alture del Golan, dove Israele ha ulteriormente ampliato la pluri cinquantennale occupazione, si mostrano disponibili all’annessione. Tel Aviv ha lanciato l’amo pure alla comunità kurda, così da minare ulteriormente la precaria stabilità che Damasco prova a cementare, ma è rimasta spiazzata dall’avvicinamento, parziale e magari temporaneo però concreto, fra al-Sharaa e il leader delle milizie del Rojava Mazloum Abdi. L’accordo fra i due non entra nel merito del futuro di quei territori, prevede il mantenimento delle milizie delle Forze Democratiche Siriane all’interno di quelle governative, incentrate sulle truppe di Tahrir al-Sham. Durerà? E cosa dirà Washington per anni procacciatore di armi per Sfd? Nel percorso necessariamente in divenire al-Sharaa sembra tenere la barra dritta. Gli embarghi che avevano portato fame, perlomeno nei territori occidentali controllati dai ribelli jihadisti, potrebbero attenuarsi. 

 

Da parte dell’Unione Europea c’è disponibilità di revoca delle sanzioni sul fronte energetico e delle attività finanziarie se il Paese camminerà verso una democratizzazione che vuol dire elezioni libere in breve tempo, mentre Mosca che dalla fuga di Asad ha ritirato i ‘consulenti militari’ e sospeso le forniture di cereali potrebbe riproporle assieme a forniture energetiche se le basi aeree e navali fra Latakia e Tartus continueranno a ospitare le istallazioni russe. Il pragmatismo dell’ex jihadista Jolani potrebbe renderlo possibile. Ma la popolazione interna ha bisogno di case, ospedali, scuole e strade. Le petromonarchie, che di denari ne hanno a iosa e sono disponibili a prestiti, mostrano un cauto ottimismo sul nuovo corso di Damasco, anche i buoni uffici espressi dalla Turchia di Erdoğan stabilizzano la posizione personale di al-Sharaa. Certo, c’è il rovescio della medaglia lungo le centinaia di chilometri di confine diventata ‘zona cuscinetto di sicurezza’ in funzione anti Rojava e attuata già dal 2019, e come detto fra al-Sharaa e Abdi c’è stato un avvicinamento che non piacerà ad Ankara. Ma il presidente siriano di transizione sembra attuare, finché gli risulterà possibile, una linea di passi misurati e concreti, se questa andrà incontro a nodi dovrà decidere come e in quale modo scioglierli. Per garantire un andamento tranquillo al nuovo esecutivo formato da ventitré membri s’è affidato a un terzetto di fedelissimi cui, come fan tutti i leader in ogni angolo del mondo, ha consegnato i ministeri chiavi. Difesa all’ex responsabile militare di Tahrir al-Sham, Murhaf Abu Qasra; Interni al capo dell’Intelligence del governo di Idlib Anas Khattab; Esteri ad Asad al-Shaybani uno dei fondatori di Hts. I brividi che questi nomi suscitano in molti, poiché sotto gli attuali doppiopetto e cravatta permangono mimetiche un tempo messe al servizio di Qaeda, sono compensati dagli incarichi d’un poker di ministri professorali, ben lontani dal mondo jihadista. Al dicastero dell’Economia c’è Mohammad Nidal al-Shaar, già docente presso l’Università di Aleppo e già ministro economico fra il 2011 e 2012 durante il vecchio regime. Alla Giustizia Mazar Abdul Al Wais, passato dallo studio del Diritto Islamico alle prigioni di Asad poi dal 2017 membro del Consiglio Giudiziario Supremo sino alla definitiva liberazione nazionale. Alle Finanze Mohammad Yusr Barniyeh, economista del Fondo Monetario Arabo dopo trascorsi da tirocinante presso la Federal Reserve Bank newyorkese, infine al ministero del Lavoro e Affari sociali la ricercatrice e attivista Hind Kabawat fondatrice di Tastakel, organismo femminile rivolto alla non violenza per la soluzione del conflitto siriano. Anche in questo caso un perfetto mix di passato tuttora considerato terrorista dall’Occidente e non solo, e aggregazioni pluraliste con cui la nuova Siria prova a volare in un Medioriente sempre squassato e insidioso.

mercoledì 23 aprile 2025

Kashmir, strage in valle

 


Assalto mortale nel divertimentificio voluto da Narendra Modi in Kashmir, regione contesa fra India e Pakistan. Secondo testimonianze rilasciate dai superstiti a polizia e media, un commando di tre persone è disceso da un’altura attaccando un nutrito gruppo di turisti che attraversava una vallata erbosa. “Io stavo facendo uno spuntino assieme a mio marito, è sopraggiunto un uomo e gli ha sparato a bruciapelo” è una delle dichiarazioni raccolte dalle forze antiterrorismo accorse sul posto per quello che il primo ministro dello Stato federale ha definito “il peggiore attentato contro i civili nella zona, un abominio degno d’ogni disprezzo”. Sul terreno sono rimaste ventotto vittime, molti sono turisti indiani, si parla anche un israeliano e un italiano. Finora la Farnesina non ha confermato questa presenza. Il ministro dell’Interno di New Delhi Shah s’è precipitato a Srinagar, capoluogo della travagliata regione, e lo stesso Modi in viaggio in Arabia Saudita è rientrato nella capitale. Le agenzie turistiche propongono da tempo visite sotto le catene montuose di quella che viene definita la ‘Svizzera indiana’, peccato che l’area sia tutt’altro che un’oasi tranquilla. Per le rivendicazioni amministrative del confinante Pakistan e per le incursioni armate di gruppi oltranzisti riuniti nell’autoproclamato 'Fronte della Resistenza' che si scaglia contro la presunta sostituzione etnica incentivata da Delhi, tramite uno pseudo turismo. Questo ha di recente raggiunto punte di tre milioni e mezzo di visitatori annui. Gli oppositori sostengono che una fetta di costoro resta stanziale nei luoghi; nell’ultimo biennio gli amministratori hanno rilasciato 83.742 certificati di domicilio a finti turisti. La situazione interna è precipitata dall’agosto 2019, quando il premier Modi ha revocato alcuni articoli di legge che decretavano l’autonomia di questo Stato, con conseguente blocco delle comunicazioni e arresti di migliaia di kashmiri che protestavano contro l’indebita ingerenza dell’esecutivo fautore dell’attuale governance gradita al partito di maggioranza, Bhratiya Janata Party

 

Anche organizzazioni come Amnesty International si sono interessate alle forzature che destabilizzano il Kashmir dall’interno con contrapposizioni fra la cittadinanza divisa su base politica e confessionale, contraddittoria realtà registrata peraltro in diversi Stati federali indiani e incentivata dalla linea razzista dell’hindutva adottata dal partito di maggioranza. Nel Kashmir, definito "la zona più militarizzata del mondo" per la presenza eccessiva di forze paramilitari indiane, continuano a concentrarsi pure le mire rivendicative del governo pakistano che fa leva su un doppio binario ufficiale e ufficioso. Quest’ultimo è incentrato sul gioco inquietante della sua Intelligence,  artefice da decenni di doppiogiochismi d’ogni sorta. Uno dei gruppi armati aderenti alla resistenza kashmira è l’Esercito del bene (Lashkar-e-Tayyiba) noto per operazioni sanguinosissime compiute anche contro cittadini pakistani e musulmani, nonostante il proprio credo islamico. Formato prevalentemente da nativi del Jammu e Kashmir, praticanti un sunnismo ultraortodosso, sin dagli anni Ottanta il suo scopo è controllare e condizionare l’andamento politico-amministrativo in quell’area anche a dispetto del governo di Islamabad, figurarsi di quello di Delhi. LeT ha ricevuto attenzioni, finanziamenti e “assistenza tecnica” dell’Inter-Service Intelligence che estende la sua lunga mano di potere su qualsiasi entità possa risultarle utile. Intanto, almeno per ora, il flusso turistico verso il Kashmir subirà un prevedibile rallentamento, mentre le manovre di ripopolamento e contrasto al medesimo difficilmente scemeranno. Angosciosamente fra i colori del ‘tour svizzero’ a ridosso dell’Himalaya, non sta mancando il rosso sangue.

martedì 22 aprile 2025

La macchia di papa Francesco

 


Avremmo dovuto vederci ancora, ma purtroppo non è stato possibile” dice la novantaquattrenne scrittrice e poetessa e giornalista ungherese Edith Bruck che da tempo ha fatto dell’Italia il luogo dove vivere e la lingua, non solo letteraria, con cui parlare. Il personaggio del mancato reincontro è papa Francesco e l’intervistatrice, che su La Repubblica ne raccoglie pensieri e lacrime per la scomparsa avvenuta nel Lunedì pasquale, l’interroga sul filo dell’abbraccio di quattro anni or sono definito dalla Bruck di “zucchero filato”.  Sicuramente non solo come metafora del candido abito talare del suo ospite. I ricordi di quei dialoghi si rincorrono vivissimi e ribadiscono un papa quasi laico, poco propenso a imporre preghiere, che la Bruck bambina angosciata nel lager di Auschwitz, quindi adulta e scampata allo sterminio nazista ma non al perpetuo dolore della Shoah, non praticava e non attua. Di quel colloquio privato rimane alla scrittrice lo stupore della delicatezza con cui Francesco non imponesse l’idea di Dio (“Dio è una ricerca continua, va cercato e non sappiamo dov’è”) questo lei rammenta d’aver sentito. E ancora rievoca la richiesta di perdono papale per il millennio di persecuzioni e conversioni forzate imposte dalla Chiesa cattolica agli ebrei, e dell’antisemitismo che ne consegue tuttora. La giornalista l’incalza: Ancor oggi? “Francesco no, la Chiesa sì. Anche se io penso, e sono stata l’unica a dirlo, che abbia sbagliato quando ha parlato di un genocidio a Gaza”. “Bisogna capire che il genocidio è un’altra cosa: significa mettersi a tavolino medici, scienziati, e dire: con i capelli riempiamo le fodere, col grasso facciamo il sapone. Paragonare qualsiasi tragedia alla Shoah significa appiattire, diminuire, banalizzare una storia che non ha eguali”. Ecco. Anche per le menti più lucide dell’ebraismo, l’unico genocidio è quello subìto dalla sua gente. Millenni di Storia che raccontano altri terribili Olocausti non sono contemplabili né paragonabili al proprio. L’unico. Il solo che si erge e primeggia sulle sofferenze di chiunque altro. Figurarsi se un popolo che l’ha subìto sulla viva carne possa meditare sulle attuali nefandezze d’un governo che lo rappresenta. Impossibile, è un’eresia. E’ quell’antisemitismo che anche Edith Bruck richiama per non voler vedere l’ennesimo genocidio, stavolta perpetrato a Gaza. Per la scrittrice papa Francesco può riposare in pace, ma non ha fatto abbastanza per l’antisemitismo.

sabato 19 aprile 2025

Nucleare iraniano: viaggio turistico a Roma

 


E’ passata per Roma, conseguenza dei buoni uffici creati dallo scambio d’inizio anno fra Mohammad Abedini e Cecilia Sala rispettivamente arrestati a Milano e Teheran, la seconda tappa dei colloqui sul nucleare che un Trump pacificatore ha sdoganato con un precedente incontro in Oman. E’ il nuovo approccio sulla questione del presidente-tycoon che nel 2018 aveva bloccato il Joint Comprehensive Plan of Action sottoscritto nel 2015 dai presidenti Obama e Rohani. Non contento il Trump aggressore a inizio 2020 faceva assassinare Qassem Soleimani, puntando a umiliare l’apparato iraniano della forza che non potè ribattere se non con minacce formali. Altri tempi. In questa fase il super Donald che vuol far cessare la guerra in Ucraina, ma non quella di Gaza, “convince” Netanyahu a non bombardare i luoghi dove sorgono le centrali nucleari iraniane, soprattutto non concedendo all’alleato i mexi ordigni di profondità che andrebbero a stanare i laboratori di arricchimento dell’uranio che nei pur conosciuti siti stazionano sottoterra. Insomma per Washington non è il momento delle bombe sul suolo iraniano, si preferiscono i tavoli di trattativa. Questa è ripartita dal citato JCPA con l’aggiunta che il tempo e i cinque anni di rottura di colloqui e accordi hanno prodotto nel pur problematizzato Paese mediorientale un accrescimento delle quantità di uranio che, secondo l’Agenzia internazionale preposta, attualmente s’aggira sui 300 chilogrammi. Un quantitativo capace di rendere vicino di mesi il traguardo per l’arma atomica. Ne hanno discusso a Roma l’inviato speciale statunitense Witkoff e il ministro degli Esteri di Teheran Aragchi stazionando, però, in stanze separate nella sede dell’ambasciata dell’Oman nella zona della Camilluccia. Dal non lontano quartier generale della Farnesina il ministro Tajani s’è prestato a un’accoglienza istituzionale, mentre il ministro dell’Oman Albusaidi faceva la spola fra le stanze nell’ambasciata così da mettere a confronto le posizioni dei due. Stranezze diplomatiche capaci di evidenziare l’oggettiva difficoltà d’intendimento. Infatti la missione imposta da Trump al suo uomo in faccia alla pacificazione consiste nel chiedere agli iraniani di cessare ogni arricchimento, anche quello per uso civile. Di contro la Guida Suprema Khamenei fa dire al proprio ministro che di smantellamento delle centrifughe non se ne parla e non si scende al di sotto di quanto patteggiato dieci anni or sono. A meno che gli Stati Uniti non predispongano un cospicuo ritiro delle sanzioni applicate, partendo da quelle sulla vendita del petrolio. Per ora un braccino di ferro che necessiterà sicuramente di ulteriori avvicinamenti (per il terzo round sabato prossimo si torna in Oman) anche perché una realistica trattativa supererà sicuramente i due mesi con cui Trump afferma di dover decidere il futuro. Intanto l’alleato israeliano le bombe può proseguire a sganciarle sugli inermi civili palestinesi, gli iraniani possono attendere.  

giovedì 17 aprile 2025

Hezbollah realismo politico e rischi del disarmo

 


Non soltanto la riorganizzazione della Striscia di Gaza - intesa come ecatombe, cenerizzazione, snaturamento, svuotamento e deportazione della sua gente più o meno sopravvissuta - nei piani dell’inestirpabile alleanza israelo-statunitense c’è altro. I malefìci di Tel Aviv e Washington proseguono sul Libano, e dopo l’avvìo distruttivo degli oltre 1600 attacchi dal cielo e da terra di Israel Defence Forces con un migliaio morti e l’azzeramento del vertice politico-militare del Partito di Dio, l’azione diplomatica cerca sponda su figure istituzionali libanesi come il neo presidente Aoun. Lui è Joseph, niente a che vedere con l’omonimo e ormai ultranovantenne Michel che ha guidato il Paese dei cedri dal 2016 al 2022, se non nel fatto di vestire la divisa col grado di generale. Due militari dunque, entrambe maroniti come vuole la distribuzione delle cariche su base confessionale, ma mentre Michel nasceva da umile famiglia nel quartiere simbolo della comunità sciita, quell’Haret Hreik pluribombardato nel settembre scorso dai caccia israeliani, e forse per questo e soprattutto per malleabilità politica aperto e inclusivo verso Hezbollah, l’attuale presidente pur avendo radici in un altro sud a maggioranza sciita che guarda verso Israele, ha visione e coperture politiche differenti. La sua elezione, nel gennaio di quest’anno, ha avuto il sostegno della tradizione maronita, dalle Forze Libanesi al Partito Kataeb legate ai cupi trascorsi della guerra civile interna, spesso al servizio proprio di Israele. Comunque anche i drusi di Jumblatt gli hanno offerto sponda e voti. Così, piegati militarmente dai ripetuti assalti di Tsahal, i resti di Hezbollah hanno dovuto subire l’attuale quadro istituzionale fortemente voluto dai piani predisposti da Stati Uniti, Francia e Arabia Saudita, tutto col gradimento estremo nella Knesset. Ora nel dibattito internazionale in corso c’è all’ordine del giorno un antico pallino della destra libanese: la smobilitazione delle milizie di Hezbollah. Che avevano avuto ragione d’esistere e rafforzarsi un ventennio or sono a partire dalla difesa del suolo patrio dagli assalti d’Israele, vista l’inconsistenza e indeterminazione di quell’esercito in cui l’attuale presidente vanta un tratto della propria carriera. E che erano diventate la spina nel fianco settentrionale dello Stato sionista per la pressione sui villaggi di confine a suon di lanci missilistici. Hezbollah, sostenuto dal partito dei Pasdaran iraniani, è la motivazione chiave con cui il governo Netanyahu ha ampliato il fronte ed è tornato a colpire e invadere il Libano.

 

Non solo tartassando la rete dei militanti sciiti, feriti e uccisi con attentati spettacolari, pensiamo all’esplosione contemporanea di beeper e walkie talkie nelle loro mani, ma infiltrandola tecnologicamente, umiliandola organizzativamente, danneggiandola militarmente fino a renderla quasi impotente. L’impatto della sua passata forza, evidenziato nel conflitto del 2006 e messo a disposizione della difesa nazionale, è svanito in poche settimane mentre finivano triturati dalle esplosioni i maggiori esponenti, compreso “l’inattaccabile” Nasrallah. Uno smacco pesantissimo che dovrebbe essere letto con occhio preoccupato dalla società libanese visto che Israele  prosegue la pressione su quel territorio e la memoria della popolazione non va solo a quanto accadde nel 1978 e 1982, ma a quanto Israele mostra in Cisgiordania e sulle alture del Golan. L’agenzia Reuters ha rivelato che un alto funzionario di Hezbollah si mostra disponibile a trattare con Aoun la questione delle armi solo se Israele si ritira completamente  e interrompe gli attacchi sul Paese. L’Idf è tuttora posizionato in cinque punti strategici vicino al confine meridionale libanese e si sarebbe dovuto ritirare già da due mesi, ma anche le milizie sciite dovevano deporre le armi e questo non è accaduto. Fra smentite e discorsi a mezza bocca chi è vicino al Partito di Dio fa sapere che sarebbe disponibile a un dialogo nazionale e allo sviluppo d’una strategia di difesa, non al disarmo. Dal momento dell’insediamento Aoun s’è impegnato a garantire che lo Stato libanese diventi l'unico garante bellico: "La decisione di limitare il possesso di armi allo Stato è stata presa. Sarà attuata col dialogo, non con la forza”. Fra le ipotesi in circolazione c’è quella di un’integrazione nell’esercito di Beirut dei combattenti di Hezbollah. Bisognerà vedere cosa pensa Teheran, sebbene un’ipotesi favorevole al disarmo esiste e viaggia attorno ai colloqui sul nucleare ripresi fra la delegazione statunitense e iraniana in Oman, e che sabato avrà come ulteriore sede l’Italia. Fra gli analisti c’è chi pensa che conservatori e riformisti nel Paese degli ayatollah assillato dalla morsa economica dell’embargo convergano tutti sull’opportunità riapertasi coi dialoghi, che proprio la prima amministrazione Trump aveva troncato. I negoziatori parleranno delle percentuali d’arricchimento dell’uranio ma pure degli assetti geopolitici mediorientali. E per il Libano la situazione è sicuramente più malleabile rispetto a Gaza.