mercoledì 2 aprile 2025

Afghanistan, tanto fondamentalismo scarsa sanità

 


Senza dottori, senza personale sanitario, strutture e spesso senza cure. Accade nell’Emirato Islamico dell’Afghanistan dove la popolazione subisce i doppi effetti della presa di potere talebano dall’estate 2021 e dell’embargo internazionale al regime. Anno dopo anno i vertici del potere interno hanno limitato e poi impedito il lavoro femminile negli ospedali e nei centri sanitati che sono drasticamente diminuiti per il graduale taglio di fondi operato dai Paesi occidentali che applicano sanzioni al governo fondamentalista. Di fatto le province afghane negli ultimi quattro anni registrano un dimezzamento di quest’impianti, passati da tremila a millecinquecento.  Con l’arrivo di Trump alla Casa Bianca gli aiuti statunitensi all’estero, non solo verso l’Afghanistan, sono stati bloccati e la popolazione dell’Emirato ha perso altre 206 unità sanitarie. Tali restrizioni, unite al considerevole numero di medici che aveva abbandonato il Paese già con la salita al potere dei taliban, costringe le madri a spostamenti su distanze sempre maggiori per curare e sottoporre a profilassi varie, come l’antipolio, neonati e figli minori. Viaggi resi difficoltosi non solo dalle carenze di vie e mezzi di trasporto, ma dalle imposizioni sostenute dal Gotha dei turbanti stretto attorno alla Guida Suprema Akhundzada. Suo l’obbligo della presenza del mahram (un parente maschio) durante spostamenti significativi delle donne, fattore non sempre di facile soluzione che va a discapito della finalità del movimento e blocca volutamente  il mondo  femminile in casa e nei luoghi d’origine. I rigidi princìpi della Shari’a con cui i ‘duri e puri’ del movimento talebano  negano da tempo l’occupazione femminile in uffici, scuole, centri sanitari oltre a inibire un diritto - limitato ma parzialmente fruibile coi governi sostenuti dall’occupazione Nato - crea oggettive carenze nelle attività di assistenza indispensabili alle figure più deboli: malati, bambini, anziani. Nell’ultimo studio proposto dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari (l’organismo che la linea trumpiana perseguita e vuole smantellare)  proprio le donne afghane in generale, dunque non solo le anziane, risultano le più penalizzate. I dati del 2023 calcolavano che su 15 milioni di donne residenti solo 4 milioni hanno potuto ricevere assistenza. Così il genere femminile lamenta un calo dell’aspettativa di vita, costellata peraltro di malattie. Statistiche sempre del 2023 stilate dall’Organizzazione mondiale per la sanità mostrano per le donne un calo medio di due anni, da 63,2 a 61. Le carenze sanitarie si potrebbero essere abbattute sullo stesso Akhundzada, sempre schivo nell’apparire pubblicamente, ma da troppo tempo in disparte. Un’infezione al Covid 19 nel periodo più acuto della pandemia lo dava malato e si è avanzata l’ipotesi d’un suo decesso tenuto comunque celato per non destabilizzare il gruppo di comando stretto attorno a due altri duri: i ministri dell’Interno Sirajuddin Haqqani e quello della Difesa Mohammad Yaqoob. Ciascuno ha alle spalle clan potentissimi, gli Haqqani vicini alle madrase deobandi pakistane, mentre Yaqoob, figlio maggiore del defunto mullah Omar, imparentato al ceppo pashtun dei Ghilji gruppo di potere radicatissimo nelle province di Kandahar e Zabol. Al di là della storia che li fa temibili guerrieri, la dinastia Hotak dei Ghilji è di strada e di casa a Quetta, la città pakistana dove si riunisce la più importante Shura talebana. E’ lì che prese avvìo il movimento degli studenti-combattenti svezzati da Omar. Sunniti di scuola hanafita, sono fra gli islamici più dogmatici e intransigenti e, al di là delle diatribe interne con cui s’è detto che Omar non morì per infezione ma per una fronda organizzata da Mansoor, a sua volta ucciso da un drone statunitense, chi prende in mano la guida talebana assume posizioni oltranziste per tradizione. S’era ipotizzata una direzione più morbida con Abdul Baradar, detenuto per otto anni in Pakistan e liberato su richiesta statunitense proprio durante il primo mandato di Trump, ma dopo un incarico da vice primo ministro, il suo astro nel nuovo Emirato s’è offuscato. Comandano i fondamentalisti.

giovedì 27 marzo 2025

La tristezza di Pamuk

 


Nessuno può prevedere che cosa ci riserva il futuro ha scritto oggi sul Corsera Orham Pamuk, premio Nobel della letteratura innamorato della Istanbul romantica nel suo capolavoro più noto, infarcito di vicende personali e immagini della città, non ancora metropoli. Amante della propria infanzia e d’un mix di vestigia imperiali in disarmo e di quartieri poveri, poverissimi negli anni Sessanta. Gli anni dei golpe militari che travolgevano tutti, anche i kemalisti del Partito Repubblicano che coi difensori del laicismo in divisa provavano a star sottobraccio, per essere comunque travolti, come ogni partito, da chi diceva di porsi al di sopra delle parti: le Forze Armate. Proprio nell’anno in cui Pamuk nasceva, il 1952, la nazione anatolica era ammessa nella Nato. Era l’epoca dell’Alleanza Atlantica para golpista e manovrata dalla Cia che creava il sistema Stay-behind, dalle parti nostre, fra Taviani, Andreotti e Cossiga, denominata Gladio. Quella Turchia piaceva ai disegni trumaniani e al generale Eisenhover, l’impatto d’un esercito sorto dal furore dei “Giovani turchi” poteva servire per contenere la possibile contaminazione comunista sulle sponde del Mar Nero. Ma l’animo di Pamuk vola alto, è estremamente sensibile, guarda altro, guarda oltre e in uno dei passaggi delle mirabili pagine di Istanbul insegna che hüzün, che in lingua turca sta per ‘tristezza’, viene dritta da due versetti del Corano, dunque è d’origine araba. Ma ha anche un sinonimo, menzionato in altri versetti, che diventa ‘afflizione’. Fra i due: “Il sentimento di tristezza può derivare da d’un eccessivo attaccamento al mondo, ai beni, ai piaceri materiali”, “l’origine mistica dell’afflizione si dimensiona sul senso di perdita e di dolore. Un vero mistico non pensa alle questioni mondane come le ricchezze, i beni, ad affliggerlo può essere la sua incapacità di avvicinarsi ad Allah”. Accostare a questi concetti il feroce scontro fra l’uomo che ha incentrato sull’Islam il suo progetto politico e l’avversario politicamente laico ma di profondissima fede musulmana,  finito in galera per accuse di corruzione e peculato, è quantomeno straniante. Staccati entrambi da qualsivoglia misticismo islamico. 

 

L’ex sindaco İmamoğlu e il presidente Erdoğan, suo persecutore sebbene celato dietro le toghe dei magistrati, paiono ben lontani dallo spirito triste della metropoli turca e della cultura islamica che la pervade. Presi, com’è ovvio per due politici di primo piano, da ragioni amministrative e di potere, le stesse che stravolgono il volto di tante città in Europa, in Asia e nel mondo con trasformazioni legate più allo sviluppo che al progresso, e di conseguenza all’affarismo. Nei ricordi dell’Orham bambino c’erano ancora i velieri attraccati a Karaköy, ma è difficile dire se con le odierne settantatré primavere preferisce i trascorsi scorci del Bosforo all’attuale Marmaray, ponte subacqueo fra i continenti su cui s’affollano sedici milioni di cittadini. Nella gestione amministrativa della metropoli, prima coi sindaci dell’Akp, Erdoğan compreso, poi del Chp, si possono trovare intrecci e imbrogli speculativi, quelli con cui la procura ha spedito il leader repubblicano nella galera di Silivri, però a chi della città del ricordo nulla sa, appare un pretesto. E appare esserlo anche allo scrittore del sentimento che l’afferma a gran voce: “Tutto questo è inaccettabile e profondamente insopportabile, ed è il motivo che spinge un numero sempre maggiore di persone a partecipare alle recenti proteste”. Nel luogo che trasuda Storia trasformata in argentea vetrina per turisti, megalopoli per abitanti, crocevia per affaristi legali legati alla politica d’ogni colore e per i traffici illegali capaci di mimetizzarsi fra l’approccio distratto o complice di chi gestisce il potere, è in gioco l’ultima parvenza di democrazia. A questo scoglio s’aggrappano i protestatari di Saraçhane, i militanti del maggiore partito d’opposizione e i ventenni che non hanno conosciuto la Istanbul delle legnose  yalı, né i carri armati che decretavano il coprifuoco quando Kemal inseguiva il disperso amore per la bella Füsun. Chissà quanti liceali di piazza passano oggi al Museo dell’Innocenza, e se la tristezza per la libertà messa a repentaglio dal potere trova spazio per emozione e sentimento.

martedì 25 marzo 2025

L’Oscar incrementa odio

 


Non gli è servito vincere l’Oscar per il miglior documentario della scorsa stagione. Anzi. L’odio di chi si nutre di violenza e la teorizza come finalità esistenziale l’ha messo ancor più nel mirino. Così il palestinese Hamdan Ballal - che col collega e attivista Basel Adra, gli israeliani Yuval Abraham, giornalista, e Rachel Szor, sceneggiatrice  -   avevano assemblato in video le grame giornate degli abitanti di villaggi cisgiordani attorno ad Hebron è,  finito linciato a sangue. Autori i coloni del crimine e dell’illegalità istituzionalizzate dai governi di Israele, i fanatici sanguinari che assaltano, picchiano, pugnalano, sparano, ammazzano, distruggono sotto lo sguardo compiaciuto dei militari di Israel Defences Force. Ballal ha ritrovato sulla sua pelle lacerata e grondante sangue quegli squarci profondi che No other land documenta, una testimonianza fra le mille della resistenza inimmaginabile per qualsiasi famiglia al mondo. Non soddisfatti per l’assalto dei coloni al villaggio di Susiya nell’area di Masafer Yatta i soldati dell’Idf hanno portato via Ballal che, a detta d’un gruppo di attivisti statunitensi impegnati in un progetto di supporto agli abitanti del villaggio, perdeva sangue. Le ultime notizie sul suo conto lo danno arrestato. Proprio così. L’aggressione subìta diventa l’ennesima sequenza della trafila devastatrice e persecutoria rivolta dallo Stato di Israele ai nuclei di questi villaggi. Persone povere che provano a vivere di pastorizia e piccoli commerci, nel filmato incentrato sulla vita di Basel fra la sua gente il padre gestisce una pompa di carburante. A costoro vengono distrutte case e servizi igienici, demolite stalle per animali e miseri locali adibiti a scuola. L’asfissiante quotidianità, fra notti trascorse all’addiaccio dopo le ciniche devastazioni e albe che preannunciano precarietà, ha il fine d’intossicargli anche quella vita grama, sfrattarli dalla loro terra a favore di ulteriori insediamenti coloniali. Quest’anno l'agenzia Ocha delle Nazioni Unite, ha documentato in neppure novanta giorni oltre duecento attacchi dei coloni israeliani contro i palestinesi. In questi assalti si può finire paralizzati, come accade a un parente di Basel colpito da un proiettile di Tsahal, o bruciati vivi come un bambino a Duma nel 2015 nei roghi appiccati dagli oltranzisti ebrei. E’ l’altra faccia della soluzione finale che Israele, e i suoi alleati, prospettano per i palestinesi, dalla Cisgiordania a Gaza: evacuazione forzata o indotta, per far marciare nella terra di chi non ha un’ulteriore terra la propria colonia dell’occupazione e dell’odio.   

lunedì 24 marzo 2025

Arresti a mille

 


Sarebbero criminali già incarcerati per furto, droga, violenza fisica e sessuale, diversi dei fermati in queste ore a Istanbul. L’afferma una nota del ministro dell’Interno Ali Yerlikaya che tiene a puntualizzare gli arresti dopo cinque giorni di proteste e scontri attorno ai giardini di Saraçhane: sono 1.133. Il ministro infioretta l’informativa con numeri e dettagli: 123 poliziotti feriti negli incidenti che hanno visto lancio di pietre e molotov, razzi e corpo a corpo coi reparti antisommossa. Poco si sa dei manifestanti feriti che, come in ogni scontro, evitano gli ospedali per non vedersi spediti in prigione, ma ripetute testimonianze hanno aggiunto a quanto le immagini televisive mostravano - uso copioso di gas lacrimogeni, cannoni ad acqua, spray urticanti - l’esplosione dei pericolosissimi proiettili di gomma e di granate stordenti. Eppure la piazza non molla. Anche stasera mobilitazione fitta nelle strade di Fatih prossime all’edificio del Comune diventato il simbolo della resistenza del Chp, cui ha preso a offrire sostegno un crescente numero di universitari di vari atenei cittadini, decisi a mobilitarsi contro il sistema erdoğaniano strangolatore di libertà individuale e collettiva. Sono, dunque, loro l’anima candida e ideale che controbatte notizie e insinuazioni governative sulla “feccia” di strada che, come i criminali menzionati da Yerlikaya, metterebbero a soqquadro la metropoli insidiando la sicurezza nazionale. Dopo l’iniziale silenzio e l’arringa ai suoi sostenitori in un hotel Erdoğan ha tuonato a favore di telecamere, venerdì sostenendo la magistratura che ”autonomamente fa il suo mestiere”, oggi politicizzando i rilievi contro l’opposizione: "i responsabili per i nostri agenti feriti negli attacchi di questi giorni, per le nostre moschee e locali con finestre rotte, per la proprietà pubblica danneggiata sono il leader del Chp Özgür Özel e coloro che alimentano l'anarchia di strada". Frattanto İmamoğlu,  da ieri detenuto nel carcere di Silivri, ringrazia tramite i suoi legali chiunque stia contribuendo alla protesta solidale, dagli attivisti repubblicani ai senza partito: “Non c’è in ballo solo la mia libertà ma quella dell’intera Turchia”. I quindici milioni di consensi (tanti ne ha dichiarati il Chp) alla sua candidatura presentata alla primarie per le elezioni del 2028 sono diventati un plebiscito a favore d’un cittadino al di sopra di ogni sospetto, sostiene chi lo vota; l’esatto contrario della posizione del presidente che, difendendo l’operato dei giudici, afferma come nessuno sia intoccabile e al di sopra della legge. Da qui la necessità dell’inchiesta, valutata invece dall’opposizione come una manovra per impedire a İmamoğlu di proseguire un percorso politico diventato sempre più ambizioso. La piazza continua a ribollire, l’instabilità può diventare sistemica.

domenica 23 marzo 2025

İmamoğlu fra prigione e investitura

 


İmamoğlu va in galera, questo ha deciso il Tribunale di Istanbul, ma non per fiancheggiamento al terrorismo del Pkk, l’accusa più pericolosa perché l’avrebbe fatto immediatamente decadere dalla carica di  sindaco della metropoli. Restano le imputazioni per corruzione e frode,  reati penali con una ricaduta politica visto che l’imputato ha rigettato ogni accusa, definendole infondate e pure immorali, affermando di non aspettarsi nulla di buono da una magistratura pilotata. Da chi lo sanno tutti, specie le decine di migliaia (il Partito Repubblicano ha parlato di mezzo milione) di cittadini in strada solidali col sindaco e infuriati col manovratore. Lui è l’anima della Turchia islamista e tuttora presidente Erdoğan, e vista la piega presa dalla contesa ha alzato la voce difendendo magistrati contestati e poliziotti attaccati dalla piazza tinta di rosso dalle bandiere del Chp. Che poi è il vessillo turco. Una piazza lievitata in queste ore prima e dopo il pronunciamento dei giudici; strabordante oltre i giardini di Saraçhane, dov’è il Municipio reso fortino della resistenza dai sodali di İmamoğlu. E l’immane schieramento di polizia in tenuta antisommossa, che finora ha ‘idratato’ e ‘gasato’ i sostenitori-contestatori cerca di contenere anche possibili scontri con l’elettorato pro Akp che nel quartiere storico di Fatih è di casa. Se i numeri della protesta sono reali non è solo la militanza kemalista a mobilitarsi. Ci sono gli studenti, che già nei giorni passati si autoconvocavano a difesa d’ogni libertà, d’espressione e d’azione, compresse e spesso schiacciate da almeno un decennio, sebbene su bersagli diversi: la gioventù ribelle di Gezi Park, giornalisti, gülenisti, golpisti, kurdi. Un anno via l’altro il Sultano ha cementato il “suo popolo” tramite lo scontro con “attentatori” alla sicurezza della Paese, scippando il simbolo di nazione di cui proprio i kemalisti del Chp si facevano depositari. Islam nazionalista e populista è la ricetta servita fino alle ultime presidenziali vinte contro un candidato di questo partito.

 


Ma non era İmamoğlu, che a detta dei sondaggisti straccerebbe un ormai logoro Erdoğan vittima della supponenza con cui ha fatto il vuoto intorno a sé, privando lo stesso Akp di uomini utili alla conservazione del potere, e impedendo la crescita di nuove leve. Tantoché per le imponderabili presidenziali del 2028 pone fra le soluzioni possibili l’ennesimo ritocco costituzionale che gli allungherebbe il mandato.  Preoccupati dalla piega illiberale sino all’inverosimile che sta caratterizzando la vita politica interna, i turchi della generazione erdoğaniana, quelli nati sotto i suoi governi ma nei quali non si riconoscono e che non vogliono invecchiare sotto di lui, si mobilitano fuori dalle sigle di partito. In questo possono somigliare ai contestatori di Gezi Park, all’epoca nient’affatto ben voluti da tutti i gruppi del Meclisi, fatta eccezione per il Partito della Pace e Democrazia allora con la sigla Bdp, diventata Hdp e ora Dem. I kurdi legalitari che siedono in parlamento, se non vengono arrestati con l’accusa di fiancheggiamento del Pkk. Furono i loro militanti a parteggiare per i çapulcu (saccheggiatori) come Erdoğan definiva i difensori del parco Gezi, creando dissapori nello stesso Akp nel quale l’ex vice Şener si scagliò contro la linea dura voluta dall’allora premier, seguito dal presidente del Partito della Giustizia Gül. Anche quando le pallottole di gomma e i lacrimogeni mietevano vittime (a fine protesta si contarono undici morti e oltre ottomila fra feriti e intossicati) i kemalisti di professione parlamentare  speravano che il governo cadesse, ma non sporcavano le mani con le barricate. Stavolta sarà diverso? Intanto l’apparato del Chp, per rafforzare il sostegno al sindaco incarcerato, ha disposto la sua unica candidatura alle primarie indette per oggi che s’annunciano partecipatissime. Una gran quantità di istanbulioti si sta recando nei centri disposti dal Partito Repubblicano per deporre la scheda nell’urna. La resa dei conti  fra İmamoğlu ed Erdoğan è iniziata.

venerdì 21 marzo 2025

Saraçhane e Gezi Park due Istanbul lontane

 


Se i giardini Saraçhane, nello storico quartiere di Fatih, diventeranno una nuova Gezi Park, a distanza di dodici anni dalla rivolta che ha creato una frattura fra un pezzo della città-simbolo e Recep Tayyip Erdoğan suo cittadino più illustre e sindaco e premier e presidente, si vedrà. Anche quella protesta partì in sordina, incendiandosi lungo un percorso temporale di settimane e finendo nel sangue d’una lacerante repressione. Da allora iniziava ad acuirsi il divario fra un Islam politico reinventato proprio dal suo figlio di Kasimpaşa e il kemalismo che l’aveva persino soffocato. Anche allora magistrati, su imbeccata di militari e  politici, decidevano cosa si poteva dire e fare quando Erdoğan paragonò moschee e caserme, minareti e baionette, fedeli e soldati – riprendendo peraltro versi del poeta Gökalp – finì in galera, ma non per molto. Il Novecento stava per chiudere il suo ciclo e l’uomo nuovo della Turchia che, con quella condanna, avrebbe potuto abbandonare la politica ritrovò a breve tutte le opportunità, moltiplicandole per mille. Potrebbe, dunque, ben sperare l’attuale sindaco Ekrem  İmamoğlu incarcerato mercoledì con accuse più materiali d’un reato ideologico, sebbene i suoi difensori e i fratelli del partito repubblicano erede del kemalismo storico, parlino di persecuzione ideale contro un avversario reale. L’unico,  sostengono, in grado di mettere in ginocchio l’attuale presidente e il suo sistema alle elezioni del 2028. Che, però, sono lontane abbastanza per far sì che i fatti interni al Paese: la svalutazione pazzesca della lira, la girandola di ministri economici in disaccordo con l’eterodossa “cura” voluta dal presidente in persona, i ripetuti tagli dei tassi d’interesse da parte della Banca Centrale e un carovita angosciante,  risultino meno spiazzanti rispetto al ruolo internazionale giocato dalla Turchia erdoğaniana sullo scacchiere regionale e globale.

L’elezione che avrebbe dovuto scalzare Erdoğan dal potere nel maggio 2023, in fondo gli ha fatto trovare consensi più grazie al suo pragmatismo nazionale e internazionale che a seguito dell’inadeguatezza dell’alternativa, l’allora leader del Chp Kılıçdaroğlu. Ma era il programmino repubblicano a difettare sebbene ci sia chi pensa che col rampante e determinato İmamoğlu sarebbe stata un’altra storia. I suoi sostenitori che in queste ore nel recinto di Saraçhane, ma pure ad Ankara, Izmir e nell’originario distretto della Trebisonda urlano invettive su polizia, giudici e governo in carica, imprimono sui cartelli la speranza nel conducador. Lo definiscono Cesare, lo vogliono opporre al Sultano, quasi servisse un uomo forte contro l’uomo degli strappi e della forza. In questo la piazza Saraçhane dista da quella di Gezi Park non solo per collocazione urbana nella metropoli sul Bosforo. E’ l’elemento ideale che le distingue. Per il sindaco indagato c’è un sostegno di partito, magari anche studentesco, e forse milioni di istanbulioti arriveranno. A Gezi c’era la gioventù ribelle e senza partito. Anarchici e bohémien, mamme ambientaliste e inquilini di d’una Galata sempre più snaturata dall’affarismo, comunisti non ancora arrestati e i giovani turchi del Terzo Millennio molto diversi da chi sotto quel nome dette avvìo al nazionalismo razzista. Peraltro nelle enclavi cittadine dove l’islamismo non è di moda, da quelle che amoreggiano fra Karaköy e Üsküdar, l’entusiasmo per İmamoğlu non è scontato. Gli alternativi lo valutano come un’altra faccia del sistema, targato con sigla politica differente, ma non certo un innovatore in fatto di morale, diritti, visione del mondo. Lo scontro ufficiale ha ruotato attorno alle dichiarazioni del capo del Chp Özel: "İmamoğlu ama il suo Paese e la sua gente; non è un ladro o un terrorista", cui il ministro della Giustizia Tunç risponde: "Chi occupa posizioni di responsabilità deve mostrare maggiore attenzione nelle dichiarazioni". 

 

Per ora, secondo la legge vigente, la certezza è che entro quattro giorni (dunque domani) i fermati dovranno essere rilasciati o incriminati. Su İmamoğlu pesano sette imputazioni. La corruzione starebbe alla base delle tangenti richieste a mezzo dell’attività di Medya A.Ş. che così si descrive sul suo sito ufficiale “Filiale della municipalità metropolitana di Istanbul fondata nel 2011, siamo tra i pionieri del settore dell'editoria digitale con i nostri canali pubblicitari e promozionali interni ed esterni dislocati in ogni angolo della città… Siamo un'agenzia di comunicazione digitale a 360°. Raggiungiamo milioni di cittadini sulle strade, nelle piazze e sui mezzi pubblici, stabilendo una comunicazione ininterrotta con gli abitanti nelle fermate degli autobus, rastrelliere fisse, mega-luci e i nostri schermi digitali dislocati in tutta la città. In IBB TV, nelle aree di nostra proprietà, come gli schermi esterni, o nei media che utilizziamo come strumenti di trasmissione, come i social media e Modyo TV. Produciamo contenuti in diversi formati sugli investimenti cittadini dell'IMM, sulle attività culturali e artistiche, sugli sviluppi tecnologici e sulle attività sportive, e trasmettiamo in diretta le riunioni del Consiglio e le gare d'appalto dell'IMM tramite IMM TV”. Insomma un colosso, addentato dal molosso giudiziario che gli attribuisce nel percorso di assegnazione di gare d’appalto la richiesta di tangenti alle varie imprese. Il sindaco sarebbe in combutta con tutto quest’apparato. Altre accuse, ovviamente da provare, comprendono la coercizione di uomini d'affari a versare contributi finanziari illegali, il coinvolgimento in transazioni fraudolente tramite persone autorizzate a riciclare fondi ottenuti illegalmente e l'utilizzo delle cosiddette "riserve segrete di denaro contante" gestiti da intermediari per facilitare i trasferimenti e le riscossioni di denaro.

 

Un'altra imputazione riguarda la manipolazione sistematica delle offerte comunali relative agli spazi pubblicitari esterni. I procuratori sostengono che le società affiliate hanno istituito società di copertura per fingere transazioni commerciali con filiali municipali, gonfiando i valori contrattuali per giustificare guadagni illeciti sempre attraverso tangenti. E ancora: frode su vasta scala che coinvolgeva progetti municipali inventati e inesistenti destinati unicamente a nascondere l'appropriazione indebita di fondi pubblici. I magistrati affermano che i dati personali appartenenti ai residenti di Istanbul sono stati acquisiti illegalmente e sfruttati per garantire la continuità operativa della rete criminale. Almeno in questa serie di accuse ce n’è per confermare la detenzione. Ci s’aggiunge anche il presunto coinvolgimento nel favorire l'organizzazione terroristica Pkk. La procura dice che il sindaco, consapevolmente e volontariamente, ha partecipato a un "consenso urbano", una collaborazione elettorale strategica tra il Chp e il partito pro kurdo Dem, attuato nelle amministrative dello scorso anno. E poi che simpatizzanti e affiliati dell'organizzazione terroristica siano stati collocati all’interno dei municipi. Da domani gli scenari possibili per l’imputato più illustre potrebbero risultare: 1) assoluzione o rilascio in attesa del processo. İmamoğlu potrebbe riprendere le sue funzioni di sindaco senza interferenze immediate. 2) Sebbene liberato, il Ministero dell'Interno potrebbe rimuoverlo dall'incarico, citando un'indagine in corso sul terrorismo e sostituirlo con un fiduciario governativo. 2) Se arrestato per accuse di terrorismo, il Ministero dell'Interno assegnerebbe un fiduciario per sostituirlo. 3) Quest’imputazione lo farebbe decadere  anche se venisse inizialmente liberato. 4) Se fosse formalmente arrestato per aver guidato un'organizzazione criminale con accuse di corruzione, il comunale si riunirebbe per eleggere un nuovo sindaco, senza una persona nominata dal governo.

mercoledì 19 marzo 2025

Turchia, caccia al guastatore

 


Con tono dimesso, qualche osservatore l’ha definito compassato, il sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu postava stamani un messaggio vocale sui social. Diceva che si stava recando in un distretto di polizia perché raggiunto da un mandato di cattura. Il commissariato si trova a Fatih, quartiere storico della metropoli e anche agglomerato dove maggiore è la presenza dell’elettorato dell’Akp il partito del presidente Erdoğan. Il Convitato di pietra di quest’arresto, operato da una magistratura particolarmente ossequiosa col potere vigente poiché da circa un decennio ha subìto il repulisti con cui l’uomo della Turchia islamista ha purgato l’apparato statale dopo il tentato golpe del 2016. Il fermo  del candidato repubblicano per le future elezioni presidenziali ha di per sé sapore di colpo di mano, almeno così sostiene l’opposizione all’attuale governo incardinato sull’alleanza fra Akp e i nazionalisti del Mhp. Infatti da stamane sono vietate per quattro giorni manifestazioni di protesta sull’accaduto o di semplice sostegno al sindaco, gli stessi collegamenti Internet hanno iniziato a disconnettersi. Le accuse rivolte alla nuova leva del Chp, figura di primo piano dopo l’uscita di scena del segretario accentratore Kılıçdaroğlu, sconfitto alle presidenziali del 2023, sono due: aver tessuto una rete corruttiva sugli appalti che la prima città turca stabilisce per i servizi rivolti a oltre sedici milioni di cittadini e, questione ben più cocente, avere rapporti col gruppo del Pkk, considerato terrorista dal governo di Ankara e pure da Washington e Bruxelles. İmamoğlu non è il solo a ricevere la prima accusa, che riguarderebbe anche la sua precedente funzione direttiva a Beylikdüzü, periferia ovest di Istanbul.  L’accompagnano circa un centinaio fra amministratori e funzionari locali delle varie e popolose aree in cui è divisa la metropoli fra i due rami europei e quello asiatico, un territorio sterminato che nel ventennio di governo dell’Akp ha conosciuto un macroscopico incremento edilizio e un’implementazione di opere pubbliche e private.

 


Su queste dal 2019 è subentrata, almeno in parte, la direzione del pupillo repubblicano, dopo oltre due decenni di guida islamista che nel 1994 aveva visto lo stesso Erdoğan partire da quell’incarico. Più che vendetta a posteriori, İmamoğlu, già nel 2022 condannato a due anni di reclusione per aver insultato i componenti del Supremo Consiglio Elettorale, si trova ostacolato a mezzo giuridico dal proseguimento lineare della carriera politica, visto che rappresenta un pericolo per l’attuale asse del potere turco. Gli analisti lo darebbero vincitore alle presidenziali del 2028, interdette al presidente uscente per somma di mandati. E non vedendo all’orizzonte dell’attuale ceto di governo un candidato di peso e, ancor più, per il delirio di onnipotente presenza che lo caratterizza, Erdoğan pensa a un ennesimo ritocco costituzionale, diciamo “alla russa”. Naturalmente rivolto a sé stesso. In quest’intreccio rientra il corteggiamento del partito filo kurdo Dem, contattato nello scambio dei colloqui di riavvicinamento alla comunità kurda attraverso il leader-prigioniero Abdullah Ocalan. I bistrattati, dal sistema turco, deputati kurdi, compresi quelli tuttora incarcerati per presunto fiancheggiamento al Partito Kurdo dei Lavoratori, se l’accordo di “normalizzazione“ passasse, producendo il disarmo delle fila dei militanti del Pkk e il riconoscimento dell’autonomia amministrativa dei territori del sud est anatolico, potrebbe prevedere anche quei voti alla riforma costituzionale necessari a un proseguimento della presidenza Erdoğan fino alla soglia ottuagenaria. Niente di straordinario in un mondo dove la classe dirigente invecchia sulle proprie cadreghe trasformate in troni. Sempre che non si venga disturbati da qualche İmamoğlu guastatore.