Cammina, respira piano,
in silenzio nel buio pesto. Il valico del Moncenisio, fra le Alpi Cozie e Graie
è a oltre duemila metri. Si sale con pendenze che possono oscillare al 10%. A
chi conosce le cime dell’Hindukush, alte il più del doppio di questi monti, il
passaggio può sembrare uno scherzo. Non lo è comunque, perché freddo, neve,
abbigliamento insufficiente, buio pesto, concitazione, paura d’essere braccati
e bloccati dalla polizia di confine si sommano in uno spazio di tempo che vorrebbe
sfuggire al tempo. Un gruppo dei migranti afghani ha affrontato l’ascesa in tal
modo, su mulattiere rocciose, sperando d’infilarsi di soppiatto in territorio
francese. Venivano dalla valle sottostante, presso la Valsusa, sfollati nei
giorni scorsi da un edificio occupato da un gruppo anarchico che offriva
ospitalità a individui e famiglie. Nuclei d’una migrazione trasformata negli
ultimi anni, che vede partire anche giovani coppie con prole, obbligati a
fuggire per sopravvivere. Scampare alle bombe dal cielo e ai camion-bomba per
via, ordigni che devastano i corpi, nonostante si continui a sparlare di pace,
una pace che se mai arriverà non offrirà un futuro in una nazione devastata e
che la geopolitica vuol tenere prigioniera al proprio volere, impedendone
un’emancipazione economica e legislativa. Gli afghani inseguono il sogno d’un
domani, ormai da quattro generazioni fuggono dalla terra che amano. Fuggono
dalle truppe Nato che noi continuiamo a regalargli, fuggono dai taliban e da
fondamentalisti che lì hanno messo radici da decenni e da quelli nuovi, l’Isil
del Khorasan che li massacra per la propria vetrina di potere. Di notte il
gruppetto afghano che arrancava sulle rocce, inseguendo un reale desiderio di
pace, s’è visto scoperto dal fiuto di cani addestrati per cacciare anche i bambini,
cani che se ne sapessero le sofferenze smetterebbero di cacciare. I loro
padroni-doganieri, in questo caso francesi, si son dati da fare per bloccare il
gruppo scoperto, per non fargli varcare il confine. Respingendoli a valle. La
tensione e la paura su una bimba undicenne hanno fatto il resto. Un colpo al
cuore, uno alla mente ch’è volata a tre-quattro anni indietro, quando rimase
traumatizzata dagli scoppi attorno casa che facevano crollare case, che
infilavano nell’anima l’angoscia della fine di sé, dei genitori, di quel poco
di caro che aveva in una condizione d’insicurezza assoluta. La piccola terrorizzata
dal passato che non passa - che potrebbe essere attenuato solo da un repentino
cambio di vita, fuori dai nascondigli dove bisogna sfuggire ai controlli di
altre divise, di nuove armi spianate, una vita sperata per lei e per se stessi
da giovani genitori – non ha parlato più. La madre disperata l’ha affidata a
cure sanitarie d’un centro nella recuperata valle ch’è un po’ prigione, un po’
rifugio. Trauma su trauma, alla bambina afghana dobbiamo tanto, quello che ogni
confine le toglie, a cominciare da quelli violati del suo Paese, dicendo che lì
portiamo pace.
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