martedì 18 dicembre 2018

Egitto, lo sguardo oltre la gabbia


Gli occhi che si cercano, le mani mosse in lontananza non sono un gioco. Comunicano spesso disperazione, tristezza e angoscia per essere lì, segregati, ingiustamente accusati, dopo mesi di detenzione e in tanti casi di tortura. E’ un video, girato in un’aula egiziana di tribunale e pubblicato sul sito della Bbc in lingua araba, documenti che probabilmente non vedremo più perché in quei  luoghi, dove già da tempo pur in presenza di pubblico che poi altro non sono che familiari dei detenuti, la stampa non è ammessa. Allora ci si mettono i più giovani, indomiti masticatori di tecnologia, a filmare con ogni mezzo e divulgare sui social media. La breve registrazione è finita su Facebook, ma non si sa quanto potrà restarci. Intanto fa proseliti, e divulga quel clima che purtroppo gli odierni cittadini d’Egitto ben conoscono. Immaginiamo una figlia che allunga la mano e gesticola, scrivendo sulla trasparente lavagna dell’aria forse lettere per indicare una parola oppure numeri. Lei proietta idealmente l’arto verso l’uomo rinchiuso in gabbia che gli risponde. Non mancano i sorrisi in questa comunicazione tipica dello scambio fra detenuti e parenti. Non è bene bagnare questi attimi  con le lacrime, che magari dentro l’orbita premono, però è giusto non mostrale in un momento che è, comunque, d'incontro. Ti vedo, dunque sei vivo, non t'hanno ucciso, non hanno piegato il tuo corpo né il sentimento. In genere sono ragazze e giovani donne a tenere alto lo spirito sul lato opposto, fra i rinchiusi della gabbia. Siedono accanto a soldatini dalla vista sperduta, costretti in questo caso non a un ruolo sanguinario e assassino ma al meno ingrato compito di vigilare sul pubblico. Ciò che non riescono a trasferire espressioni profondissime e occhi appassionati, lo dice la morbida gestualità di dita piegate a cuore, come fanno le fidanzatine innamorate. E l’altra metà, se è un ragazzo, stravede, e sorride, sorride finché può farlo se le membra non dolgono per i tanti colpi ricevuti in celle da duemetriecinquanta per due, dove ci si sta dentro in cinque. Dove si dorme a turno, distendendosi su un pavimento bagnato e indossando gli stessi panni ormai puzzolenti da mesi. E’ una visione forzata, ma rappresenta un’epifanìa, una sequenza di movimenti dolci dentro quei cubi a rete fitta che lasciano a malapena passare la luce, così che i corpi, alcuni emaciati dai digiuni, muovano anch’essi mani e braccia, tanto per rispondere o dire: sì, sono vivo, lo sono ancora. E riuscire almeno a salutare prima che, perentoria, una voce annunci con un grido l’entrata della Corte. Quella che può decidere la pena di morte. Oppure la sepoltura nelle “Scorpion” già esistenti e da costruire. 
Video:  http://www.bbc.com/arabic/media-46526067


venerdì 14 dicembre 2018

Afghanistan, il caos elettorale abbraccia il caos politico


Sempre, e come sempre, in alto mare la conta dei voti dopo le elezioni afghane. Tranne alcune province, dove peraltro i risultati sono confortanti per alcune figure impegnate a difendere i diritti delle donne come la senatrice Belquis Roshan rieletta a Farah, molte presentano ingorghi e blocchi allo scrutinio. Addirittura in quella di Kabul incombe la proposta, avanzata da un’agenzia politica, di annullare per irregolarità un milione di voti. La Commissione Elettorale Indipendente ha fatto sapere che sorvolerà sulla richiesta che avrebbe dovuto portare a un ritorno alle urne già da due settimane. Al contrario fra qualche giorno la IEC dovrebbe certificare la bontà di seggi e voti nella capitale. Del resto le lamentele avanzate da quest’agenzia risultavano vaghe, non era descritta nei dettagli nessuna fra le accuse di frode, e il presidente della IEC ha tacciato l’iniziativa come disgregante rispetto al ‘volere popolare’. Peraltro la stessa commissione aveva già riscontrato ritardi sul voto parlamentare in dodici province.
Questi ritardi appaiono una minaccia per le elezioni presidenziali previste per il prossimo aprile. E rimandare la consultazione di primavera provocherebbe un gran danno al governo Ghani tuttora impegnato sul doppio terreno di scontro e trattativa coi taliban. Se ci fosse ancora chi nell’ipertrasformismo della geopolitica si stupisse di quello che sembra un doppio gioco, ma non lo è da ambo le parti, può venir tranquillizzato da quanto appura l’ennesima inchiesta del prolifico network di ricercatori afghani che apre un’ulteriore finestra sulle relazioni fra due fronti opposti  che risultano, invece, tolleranti e collaboranti. Tranne ammazzare periodicamente un po’ di civili, la cui sorte è ripetutamente ignorata dagli uni e dagli altri. Se si va indietro nel tempo il comportamento talebano dagli anni dell’occupazione statunitense (2001) e poi Nato (2003) va plasmandosi alle varie situazioni. All’epoca della riorganizzazione sotto il mullah Omar (2003-05) il movimento si proponeva come entità di raccolta e organizzazione dell’insorgenza contro i nuovi occupanti.
Inoltre, con una presenza sul territorio, i turbanti riescono a usare il vizio della corruzione amministrativa come punto di forza a sostegno del proprio programma antigovernativo e di legame con le comunità locali. Dal 2006 viene elaborato una sorta di codice di condotta che discetta su parecchie questioni. La precedente lotta indiscriminata alla scuola si trasforma in disamina della scuola stessa che viene combattuta solo se si distacca dai princìpi islamici, affermati ovviamente secondo un’interpretazione di parte. Dal 2009 i talebani si rapportano al ministero dell’Educazione per elaborare un certo andamento dell’istruzione. All’epoca nel mirino fondamentalista entrano le Organizzazioni non Governative, i cui contatti con la popolazione devono essere autorizzati dalla leadership della Shura. Dal 2014, quando s’è consolidata una presenza stabile del cosiddetto Isis afghano (di fatto talib dissidenti), la cooperazione fra strutture governative e talebani è risultata frequente ed evidente. E non parliamo di altri “servizi” che s’integrano e si sostituiscono. Ecco un aggiornamento fornito dai ricercatori.
Negli ultimi mesi a Ghazni gli studenti islamici hanno raccolto pubblicamente le tasse, a Kunduz inviano bollette elettriche ai clienti e riscuotono gabelle dai trasportatori che passano per Zabul. Nell’Helmand finanziano moschee, a Logar decidono assunzioni o licenziamenti di insegnanti basandosi sui loro curricula. Stiamo parlando di province della nazione afghana, non dei territori delle ben note Fata, governate in tutto e per tutto dai clan talebani.  Questo spiega chiaramente gli assalti armati che mettono in scacco quei capoluoghi di provincia dove i soldati di Kabul si sentono totalmente estranei. E’ bene ricordare che città come Kandahar, sulla carta sotto il controllo degli uomini Ghani, in realtà non lo sono affatto. E non è che il business presente sul territorio resti fuori da un simile contropotere. Nel 2016 quattro compagnìe di telefoni cellulari (due sono statunitensi, una è saudita), che distribuiscono le comunicazioni a venti milioni di afghani sui trenta registrati ufficialmente, hanno pagato una “tassa” per proseguire i propri affari. La minaccia era il danneggiamento delle antenne di ripetizione.
Quest’anno un documento governativo ammetteva che nel territorio dell’Uruzgan l’interesse talebano si focalizzava su salute e sicurezza,  quindi chi pagava loro il tributo poteva accedere a quei servizi. Se si va a una lettura dei numeri forniti dal rapporto annuale del Sigar (Special Inspector General Afghanistan Reconstruction’s) dietro l’affermazione che il 78% delle province afghane è sotto il controllo governativo c’è  da notare che il 66% di quel territorio vede una presenza talebana a vari livelli. Così seppure nella graduatoria delle definizioni si confrontano le aree a pieno controllo dell’una e dell’altra componente, la governativa supera quella talebana, ma la percentuale più alta di territorio risulta quella contesa. Osservando la scheda allegata, nel pur ampio settore verde - scuro quello a controllo governativo, chiaro a influenza governativa - un’ampia fetta di popolazione paga, a vario titolo, un tributo ai talebani che, comunque, in quelle aree riescono a riscuoterlo. Ciò che gli analisti definiscono una ‘presenza ombra’ costituisce uno degli aspetti più inquietanti dell’Afghanistan della sbandierata normalizzazione attraverso i ‘colloqui di pace’.

mercoledì 12 dicembre 2018

Storie dell’Egitto taciuto: Ahmer Sahi


La vicenda di Ahmer è una delle tante storie ignote della gente d’Egitto vessata dal regime di Al Sisi. Storie sconosciute perché è impossibile cercarle in una nazione che il regime costringe a vivere in stato d’assedio, con l’informazione interna tacitata e quella esterna impossibilitata a lavorare, come dimostra, tanto per citarne uno, il caso di Mahamoud Hussein, giornalista di Al Jazeera detenuto a oggi da 722 giorni. Lo impedisce con minacce e arresti, comprensivi di torture e conseguenze ancor più gravi. Nell’orizzonte disegnato dai militari che governano col consenso del terrore, il monito è stato dettato dal 25 gennaio 2016, quando Giulio Regeni sparì nel nulla alla fermata Dokki della metropolitana cairota. Chi non vuol fare quella fine deve evitare di ficcare il naso nelle questioni nazionali, e qualsiasi impegno in tal senso viene considerato un’ingerenza spionistica da estirpare con leggi speciali. Quelle che probabilmente salveranno i cinque o venti indagati dalla procura di Roma da  responsabilità dirette nell’assassinio dello studioso friulano. Prima che Regeni finisse rapito, seviziato, ucciso dai collaboratori di Sisi e Ghaffar, molti attivisti politici, dei diritti e giornalisti avevano vissuto situazioni simili ad Ahmer Sahi che nel 2014 era appena maggiorenne.

Una mattina venne bloccato dalla National Security con la semplice accusa d’essere un simpatizzante del movimento ‘6 Aprile’. Questo, che prende il nome dal giorno del 2008 in cui ci fu il grande sciopero industriale di al Kubra, aveva guidato la rivolta anti Mubarak di piazza Tahrir, restando attivo anche durante l’anno di presidenza Morsi e nei mesi seguenti la sua caduta. Ma dopo aver attaccato la Fratellanza Musulmana con l’eccidio della moschea Rabaa dell’agosto 2013, l’apparato militare e politico di sostegno a Sisi, iniziava a colpire i gruppi laici fra cui gli stessi alleati post nasseriani e liberali. Nel mirino coercitivo finivano anche i giovani ribelli della Primavera 2011, di cui il gruppo ‘6 Aprile’ era una delle realtà più attive, che pure aveva partecipato all’ubriacatura anti-islamica della raccolta di firme per chiedere la rimozione di Morsi nel maggio-giugno 2013. I fermi e gli arresti, giustificati da motivi di “sicurezza nazionale”  diventarono legali nella primavera 2014 con un pronunciamento della Corte Suprema del Cairo che parlava di “diffamazione delle autorità interne e pericolo di spionaggio a favore di potenze straniere”.

Ecco, dunque, che le accuse rivolte a elementi simili ad Ahmer si fanno gravissime. Così il ragazzo finisce in una di quelle galere dove i poliziotti oltre ai colpi proibiti, alla ‘posizione del pollo’ inflitta al detenuto, riempivano la cella d’acqua dopo aver collocato fili con corrente elettrica attiva. Centocinquanta giorni di quest’inferno, dal 30 settembre 2014 al 29 gennaio dell’anno successivo. Quindi un barlume: un mattino Ahmer sentì stridor di ferri e chiavi, nel giro di un’ora la sua cella s’apriva, l’ufficio detenzione gli aveva fatto firmare delle carte e un sole, pur invernale, risplendeva sulla sua testa. Sembrava un regalo, a quattro anni dalla rivolta che voleva cambiare l’Egitto e non c’era riuscita. Però la liberazione di Ahmer durò un soffio. Non s’accorse che continuava a essere pedinato e dopo qualche giorno venne nuovamente fermato. Gli spiegarono che doveva pagare diecimila euro per una liberazione definitiva. Grazie al giro di amici e aiuti familiari il giovane trovò l’ingente cifra. Eppure l’angoscia l’assillava, pensò alla fuga in Turchia, nazione che all’epoca rilasciava facilmente i visti. Pagò nuovamente, pur sapendo che se il visto non gli fosse arrivato avrebbe perso il denaro.

Passavano le settimane, poi i mesi. Alla fine è stato così: nessuna autorizzazione a causa di un accordo fra i governi dei due Paesi che non concedevano reciprocamente permessi d’ingresso a ex detenuti politici. Ahmer dalle pene della prigionìa è passato a quelle della depressione. Doveva obbligatoriamente restare in un luogo che sempre più l’angosciava, perché nonostante la giovane età vedeva che la sua nazione era addirittura peggiorata rispetto ai suoi ricordi infantili e di adolescente. L’Egitto diventava di per sé una galera, un posto dove o sei omologato e servile (atteggiamento che, comunque, non esclude possibili vessazioni e persecuzioni) oppure l’esistenza diventa un inferno, e questo a prescindere dalla condizione socio-economica personale più o meno disagiata. Se nessun posto al mondo è un paradiso, certo la situazione egiziana precipitava sempre più. Lo stesso assassinio Regeni, faceva meditare gli oppositori interni che, conosciuti e schedati, potevano in qualsiasi momento subìre una fine altrettanto atroce. Un buco nero sempre aperto per tanti, troppi egiziani.  

giovedì 6 dicembre 2018

Al Sisi, tutto famiglia, potere e terrore


Il passo con cui, in perfetta solitudine, il procuratore di Roma Pignatone e il vice Colaiocco indicano cinque ufficiali della Sicurezza nazionale e dell’Investigazione giudiziaria egiziana e li iscrivono sul registro degli indagati, rappresenta un momento importante nel percorso di giustizia per l’omicidio di Giulio Regeni. Percorso in salita, perché gli inquirenti dovrebbero ricevere il conforto dalla politica nazionale che finora non c’è stato. Si potrebbe formulare una richiesta di estradizione che difficilmente verrà raccolta sull’altra sponda del Mediterraneo visto ciò che hanno mostrato i vertici del sedicente Paese amico. I giudici del Cairo non solo non hanno collaborato coi colleghi italiani, ma ossequiosi con la politica interna hanno praticato un boicottaggio sistematico d’ogni pratica inquirente. I cinque uomini indagati, pur divisi da una scala gerarchica, sono comunque semplici esecutori. Il generale Sabir Tareq risulterebbe il supervisore dell’operazione Regeni, Magdi Sharif Abdlaal, il coordinatore. Osan Helmy e Ather Kamal, avrebbero ingaggiato l’ambulante-spia Abdallah che lo studioso intervistava in qualità di rappresentante sindacale della categoria. Mahmoud Najem, è un volgare scherano di Helmy. Bastano costoro? Certo che no.

Questi sono l’anello basso e intermedio del sistema repressivo che il presidente-generale al Sisi ha tessuto fra amici e parenti, nonostante ciò che aveva dichiarato pubblicamente in più occasioni su famiglia e nepotismo. Secondo quanto si vocifera insistentemente fra l’opposizione al regime, quella carcerata e quella esule, proprio uno dei suoi rampolli è al  corrente di certe operazioni extragiudiziarie semplicemente perché le direttive partono dall’ufficio che presiede. E’ il maggiore dei figli di papà che ha fatto carriera - e che carriera - nella struttura dove il genitore s’era formato prima di diventare, peraltro sotto la presidenza dell’islamico Morsi, ministro della Difesa. Si tratta di una delle Intelligence un tempo definita State Security Investigations Service, con oltre centomila dipendenti, e dopo la rivolta di Tahrir trasformata in National Security Agency con un numero doppio di agenti e collaboratori. Beh lì, tanto per far capire le intenzioni claniste negate a voce ma ribadite da uno spirito di doppiezza, papà Sisi ha infilato il primogenito Mahmoud, salito velocemente ai vertici dell’apparato e ottima garanzia per suo padre che, come ogni dittatore mostra tanti amici, ma teme quelli che amerebbero il suo posto. 

Che gli interessi di famiglia si dovessero sviluppare negli apparati della forza, perno della lobby militare egiziana, lo conferma il percorso del secondogenito Mustapha, piazzato nell’organismo delle Informazioni generali, quello tristemente noto col termine mukhabarat. La struttura, diretta negli ultimi anni della presidenza Mubarak da Umar Suleiman, un boia dalla faccia triste, si caratterizzava per le pratiche di sequestro, tortura, sparizioni di oppositori e semplici cittadini. Questi finivano nelle grinfie di quegli agenti che fanno ampio uso di delatori o provocatori prezzolati come Abdullah, il rappresentante sindacale degli ambulanti che ha venduto ai mukhabarat il giovane studioso di Funicello. Anche Mustapha ha compiuto una carriera rapida e brillante, non è al vertice ma riveste comunque la carica colonnello della macabra struttura. Mentre l’unica figlia Aya è moglie del figlio d’un generale amico di Sisi, Khaked Fouda, il terzo rampollo del presidente, Hassan, in predicato per la professione diplomatica è, per ora, solo marito della figlia di Mahmoud Hegazy, capo di Stato maggiore del famigerato Consiglio Supremo delle Forze Armate, la struttura che durante le fiammate di Tahrir ha gestito, insanguinando le strade con centinaia di morti, la fase della caduta di Mubarak fino alle elezioni del giugno 2012. Anche il vecchio raìs, oggi plurinovantenne e scampato a condanne a morte ed ergastoli, aveva collocato qua e là i figlioli Alā e Gamāl, ma non negli apparati di esercito e polizia.

Il primogenito è un imprenditore, un tempo favoritissimo dal padre e dai sodali diventati suoi ministri come Shafiq. Quest’ultimo nella rivolta del 2011 fu accusato di accaparramento di beni pubblici tramite le cariche ricoperte in qualità di generale dell’aeronautica. Con lui Alā gestiva una serie di traffici corrotti e ruberie a danno dell’erario nazionale. Il più giovane Gamāl, invece, s’era speso nella sfera pubblica e nelle intenzioni paterne, avrebbe dovuto subentrargli alla presidenza, a coronamento di quell’eredità del potere che il clanismo mediorientale ha istituzionalizzato. Anche Sisi, da militare bugiardo che fa il contrario di ciò che afferma, ha pensato al futuro dei virgulti di casa e al proprio presente. E poiché d’intrighi s’è macchiato, e li ha suggellati col sangue d’una parte della cittadinanza, ha piazzato i cresciuti pargoli nelle strutture che contano per la propria sicurezza più che per quella nazionale. Come premettevamo il generale teme di finire spodestato, magari da un golpe bianco o armato che sia, ordito da qualche collega. Fedeli finora gli son stati Sidqi Subhi, ex ministro della Difesa ora in pensione, il generale Abbas Kamel, custode di tanti suoi segreti, Faraj Shehat, direttore dei Servizi militari, Mahmoud Shaarawi, ex direttore della National Security, ora passata ad Hamid Abdallah, Mohammed Farid Tihami, responsabile apparato delle Informazioni generali, dove lavora Mustapha. E il ministro Magdi Abdel Ghaffar sodale in tanti affari, compreso il caso Regeni. E qui che i pm italiani troverebbero le motivazioni degli omicidi politici che funestano passato e presente d’Egitto.  

mercoledì 5 dicembre 2018

Leyla, affamare il corpo per nutrire gli ideali


E’ uno sciopero della fame che lei stessa ha definito irreversibile e definitivo sin dal momento dell’annuncio, circa un mese fa. La deputata kurda Leyla Güven, rieletta nella provincia di Hakkari lo scorso 24 giugno, nonostante si trovasse già in galera dove l’aveva condotta a fine gennaio 2018 un’operazione repressiva indiscriminata del regime erdoğaniano, è decisa a portare la sua protesta sino alle estreme conseguenze se il governo turco non risponderà a precise richieste. Il rifiuto del cibo è rivolto a riaccendere la luce sul caso del detenuto sepolto vivo: Abdullah Öcalan, leader del Partito dei lavoratori kurdi con cui l’allora premier, e ora presidente turco, colloquiava per interposta persona cercando un percorso di pacificazione. Sembrano passati decenni dalla rottura di quelle trattative, invece son solo cinque anni durante i quali tutto è stato accantonato ed è caduto nel dimenticatoio del più bieco realismo politico. Anni intensi e duri di scontro e repressione verso la comunità kurda e l’opposizione interna, schiacciate entrambe come altri nemici del grande capo, i gülenisti. Tante le vicende accadute nel cuore anatolico e nelle terre di confine, verso la Siria e l’Iraq, dove i kurdi sono presenti, creativi e combattivi con le proprie proposte politiche odiate dalle varie sigle jihadiste insediate in loco e dalle milizie fedeli ad Asad. E mentre i militanti del Rojava si son visti attaccati da molteplici nemici, chi vive in Turchia subisce il soffocamento d’ogni libertà, anche quella di rappresentanza come accade ai deputati eletti nel Meclis. La clamorosa rimostranza della Güven punta a denunciare anche il protrarsi di questo clima che soffoca ogni diversità d’opinione nel Paese riconducendo tutto a un presunto pericolo terrorista. Da oggi il suo esempio è ripreso da attivisti e democratici che in sostegno di questa lotta entrano in sciopero della fame in varie città.

lunedì 3 dicembre 2018

Egitto: la protervia del regime impunito


Definire regime, e regime losco, l’attuale cricca di militari, poliziotti, giudici, mukhabarat e baltagheyah (per chi non lo sapesse gli ultimi due nomi stanno per agenti dell’Intelligence e picchiatori di strada prezzolati) che governa l’Egitto è l’evidente conseguenza dell’intrigo che manifesta l’apparato statale d’una nazione pur gloriosa. In realtà la lobby delle stellette ha dettato la recente storia di quel Paese dai primi anni Cinquanta, ma pur fra la poca luce e le tante ombre non era scesa così in basso come nella gestione instaurata da un uomo dal sorriso mite e dalle trame sporchissime: Abdel Fattah al Sisi. La sua persona, i suoi ministri (principalmente l’intoccabile dell’Interno Ghaffar, quello degli Esteri Shoukry, della Difesa Zaki e prima di lui il fedelissimo Sobhi, della Giustizia Hossam) risultano garantiti contro ogni azione di giustizia, interna ed esterna, per comportamenti criminali compiuti nell’esercizio di funzioni repressive più che politiche. Tutto ciò è assolutamente legale, ratificato per legge dalla scorsa estate, quando venne fatto votare all’addomesticato Parlamento una proposta sottoscritta quasi all’unanimità (solo otto i voti contrari) che rendeva imperseguibili costoro e i propri servitori responsabili delle stragi e del terrore seminati dopo il golpe bianco del 1° luglio 2013.
Quel terrore sigillato dall’eccidio della moschea di Rabaa e ramificatosi con tutte le persecuzioni dell’attivismo politico, dell’informazione giornalistica, della difesa dei diritti sino alla persecuzione perfino di chi fotografa, filma o semplicemente parla bollandolo come “spia”.  Oltre quarantamila egiziani sono sepolti nelle galere vecchie e di nuova realizzazione, fra loro nomi noti e semplici cittadini, della cui sorte i parenti non sanno nulla. In questo clima da “colonna infame” giudici e boia possono rendersi protagonisti d’ogni angheria che conservano ruolo e forcaiolo scopo finale sia quando condannano, sia nelle situazioni in cui la sorte di chi finisce nel loro mirino è segnata da esecuzioni extragiudiziarie, come nel sanguinoso caso di Giulio Regeni. La protervia di questo regime gli fa rispondere ai pubblici ministeri italiani, che la scorsa settimana additavano sette agenti della National Security del Cairo come sospettati del rapimento dello studioso, che “nel regime egiziano non esiste un registro dei sospettati” e pedinare una persona, com’essi facevano con Regeni, “rientra nel proprio lavoro”. La supponenza del ‘sistema al Sisi’ alimentata dalla vile subordinazione dei governi italiani, per nulla fermi nel contestare politicamente l’assassinio del nostro connazionale, potrebbe produrre a breve una diretta difesa dell’omicidio di Stato, per ragioni di sicurezza nazionale. Ai carnefici del mondo non manca mai la faccia.

domenica 2 dicembre 2018

Muhammed, faccia di spia


L’accusano d’essere una spia, venuto coi suoi 19 anni a raccogliere informazioni dopo essere partito dalla Libia. Muhammed Fathi Abulkasem, di cui la famiglia denuncia la scomparsa dopo l’atterraggio all’aeroporto di Alessandria d’Egitto, è un giovane studente residente coi parenti a Manchester. L’allarme è stato lanciato dal cugino di Muhammed, informato dei particolari poi diffusi tramite l’Associated Press. Il giovane, durante l’atterraggio, aveva filmato dall’oblò dell’aereo col proprio telefono cellulare un elicottero militare. Non si sa se qualcuno l’abbia notato denunciando il fatto agli agenti o se la perquisizione e il seguente scandaglio siano stati casuali. Di fatto il ragazzo è stato accusato di spionaggio, seppure quelle immagini mostravano ciò che qualsiasi passeggero del volo di linea aveva potuto osservare. La famiglia Abulkasem si domanda dove sia stato condotto il figlio nelle mani della polizia ormai da una decina di giorni. I timori riguardano casi come quello di Giulio Regeni, oppure alle prigioni speciali dove gli arrestati spariscono nel nulla. Ultimamente si vocifera dell’apertura d’un nuovo luogo di detenzione, stavolta all’esterno della capitale, totalmente sotterraneo. Ormai fotografare o filmare è diventato estremamente pericoloso in terra d’Egitto, visto che si può venire incastrati e accusati di spionaggio. Tale accusa è certa se nell’inquadratura finiscono persone, mezzi, luoghi concernenti forze armate e forze dell’ordine.

giovedì 29 novembre 2018

Omicidio Regeni, la lezione della Procura di Roma


Di fronte al collaborazionismo della Farnesina nella gestione Alfano (e governo Gentiloni), al silenzio omertoso di palazzo Chigi abitato da Renzi, Gentiloni e ora da Conte sui mille e passa giorni di bugie e depistaggi che pesano come macigni sull’omicidio di Giulio Regeni l’unica a muoversi è la Procura di Roma di Pignatone e Colaiocco. I due magistrati hanno iscritto nel registro degli indagati cinque mukhabarat del regime di Al Sisi che, nel mese di gennaio 2016, pedinavano il ricercatore friulano per poi rapirlo, torturarlo, assassinarlo. Si tratta d’un atto dovuto in base alle prove raccolte dai carabinieri del Ros, pur fra ostacoli viscidi come il limo del Nilo che sia la politica, sia la magistratura egiziane hanno frapposto in trentatre lunghi mesi di reiterata reticenza. Lo spazio dell’iniziativa è insignificante da un punto di vista legale, poiché la nostra magistratura non ha giurisdizione sul crimine avvenuto nel Paese arabo, ha però indirettamente un valore se vogliamo politico. Non secondo lo schema della ‘magistratura che fa politica’ sostenuto da chi odia l’operato dei giudici perché ha reati da nascondere.
Ha una ricaduta sul piano nazionale, che ha visto governi e ministri di svariate tendenze (Pd, Ncc, e ora figure tecniche sponsorizzate dai Cinque Stelle) fare passi di sostanziale ipocrisia oppure non fare nulla per mettere politicamente alle corde uno  Stato che fa dell’assassinio e della repressione indiscriminata la sua ragion d’essere. Ha, e può avere, un risvolto anche internazionale se altre componenti della vita pubblica italiana legata a interessi economici - come le aziende di Confindustria - in accordo coi ministeri preposti, intraprendessero la via della protesta civile, che migliaia di attivisti dei diritti praticano dalla scomparsa di Regeni, chiedendo verità e giustizia sul caso. Possono farlo tramite il disimpegno economico in terra d’Egitto e nelle prospicienti coste mediterranee dove l’Ente Nazionale Idrocarburi, tanto per citare la nostra azienda più nota e prestigiosa, lavora per il miliardario affare del gas del giacimento Zohr. Tutto ciò avrebbe certamente un’eco mondiale. Secondo taluni meschini commentatori sarebbe un autogol.
Beh, la nazione delle mille ‘partite del cuore’ se solo volesse potrebbe permetterselo, poiché rinunciare a commesse in risposta a un delitto commesso diventa la più alta delle risposte morali. Questi segnali sono, e possono essere, utili per far dibattere sullo scenario internazionale sull’anomalia del governo liberticida egiziano, come dovrebbe accadere per il regime saudita che ha smembrato con la sega per ossa il corpo di Jamal Khashoggi. Di fronte a simile cannibalismo geopolitico, i leader del G20 che da domani a Buenos Aires pensano e discutono solo di monete e affari hanno essi stessi sulla coscienza la condizione delle vittime già cadute in quella spirale omicida e, non mutando l’orizzonte, delle prossime che ci finiranno. Poiché Il Cairo, come Riyadh, celano i misfatti dei molti Regeni e Khashoggi liquidati con cinismo seriale. Rompere il cerchio di tale repressione delle idee, che rappresenta il motivo portante di quegli strazi, è compito della politica, dei partiti, dei governi, che invece sempre più risultano inerti e in altri casi complici o addirittura solidali coi mandanti.

martedì 27 novembre 2018

I sussurri di bin Salman, le grida di qualche piazza


Sussurra bin Salman, ai dignitari che finora l’hanno ospitato nel Bahrein, ad Abu Dhabi e Il Cairo. Gli Stati della reazione con cui il principe in odore di omicidi stringe sempre più buone relazioni non tanto commerciali, ma geopolitiche. Quelle che l’amministrazione della Casa Bianca ha ratificato nel Medio Oriente che si contrappone alla mezzaluna sciita. Con lo sceicco Khalifa bin Zayed e il generale Sisi la sintonia repressiva è assoluta, anche quando prende la via totalmente extralegale di sparizioni sanguinarie. Mbs non s’è scrollato di dosso l’odore del sangue del giornalista nemico Jamal Khashoggi, sul cui omicidio e sulla cui sparizione del cadavere ha responsabilità dirette, ma già cerca di riproporsi al mondo come se niente fosse accaduto. L’attuale tour in alcuni Paesi arabi del Golfo e del Mediterraneo dovrebbe portarlo a fine mese anche al G20 in programma in Argentina, coi grandi della terra che s’occupano di dominio economico e strategico-militare. Bin Salman è pronto a fare la sua parte, a ogni costo.
Dopo gli abbracci ricevuti fra monarchi e presidenti dittatori l’arrivo a Tunisi in programma per il pomeriggio di oggi può produrre qualche pensiero alla popolarità del sovrano in pectore, visto che già l’immagine è in caduta libera per tutti gli intrighi legati al crimine relativo all’opinionista del Washington Post smembrato e liquefatto nell’acido. Giovani tunisini già da ieri hanno protestato per le vie della capitale contestando l’arrivo di un ospite da loro totalmente indesiderato. Non è di questo parere il vecchio presidente Essebsi, propenso alle aperture che la comunità internazionale continua a riservare al discusso saudita, che gli proporrà fra l’altro esercitazioni militari congiunte. Attivisti dei diritti sottolineano la scia repressiva di cui si rende protagonista la maggiore petromonarchia del Golfo sia nella propria società, sia con ingerenze in nazioni confinanti come lo Yemen, dove porta  guerra e favorisce la persecuzione dell’etnìa Houthi prendendola per fame.
L’infamia di bloccare gli aiuti umanitari verso questa popolazione è praticata da oltre un anno. Da parte loro attivisti politici tunisini non dimenticano i favori che i Saud hanno riservato all’autocrate Ben Ali, riparato nel Golfo con tutto il clan familiare e trascinadosi i capitali sottratti alla nazione. Sono passati otto anni e il dittatore di Tunisi, responsabile del massacro di centinaia di manifestanti in quei cortei che nel dicembre 2010 diedero avvìo alle primavere arabe, non è stato estradato. Aiutato e coperto da un regime che fa del sopruso, della coercizione, dell’intrigo, dell’assassinio di Stato un progetto per il presente e il futuro, seppure mascherato con presunte modernizzazioni. I tunisini s’indignano, vedremo se l’eco giungerà in Argentina e rimbomberà altrove. Un’attivista afferma che bin Salman dovrebbe essere inseguito, ovunque si rechi, dal disgusto e dalla rabbia dei cittadini del mondo. Non è il solo, ma è bene non tralasciare e soffocare con le grida i suoi sussurri.

martedì 20 novembre 2018

Demirtaş, galera a vita


Sordo a ogni appello di libertà il presidente turco Erdoğan ha respinto l’appello della Corte europea dei diritti umani gli aveva rivolto in merito al caso Demirtaş. Il co-presidente del Partito democratico dei popoli (Hdp) venne arrestato due anni or sono a seguito dell’estensione a ogni opposizione politica della legge marziale adottata dopo il tentato colpo di stato del 15 luglio 2016. Il bersaglio primo era stata l’organizzazione gülenista diffusa in molte strutture dell’apparato statale: esercito, polizia, magistratura, istruzione, burocrazia alta e bassa. Ma accanto alle decine di migliaia di persone arrestate ed epurate dai pubblici incarichi il governo dell’Akp e il presidente in persona hanno cercato una vendetta diffusa, rivolta anche a parlamentari dell’opposizione com’è Demirtaş. A lui si attribuiscono rapporti col Partito kurdo dei lavoratori, messo al bando in Turchia e considerato organizzazione terrorista anche da Stati Uniti e Unione Europea. Per questo motivo il leader dell’Hdp è minacciato d’una pena di 142 anni di detenzione. I vertici dello Stato turco snobbano l’invito della Corte di Strasburgo, sostenendo di non sentirsi  affatto condizionati da quegli orientamenti che considerano le accuse rivolte a Demirtaş un’ingiustificata interferenza con la libertà di espressione e di opinione. Così le porte delle galere turche, che rinchiudono giornalisti, intellettuali, oltreché oppositori politici, serrano anche la libera circolazione e il ritorno all’attività politica del quarantacinquenne capo della formazione che fra il 2013 e il 2015 aveva compiuto un’avanzata diventando il terzo partito turco. Una posizione conservata al cospetto dell’elettorato da Demirtaş in persona che, pur carcerato, ha riportato l’8,5% dei consensi in occasione delle blindatissime consultazioni del giugno 2017 con cui Erdoğan ha avvìato il presidenzialismo più autoritario della storia nazionale.   

giovedì 15 novembre 2018

Sisi, le macchie d’un sistema che bisogna raccontare


Il presidente golpista egiziano al Sisi era due giorni fa a Palermo al vertice sulla Libia organizzato dal governo italiano. Sosteneva la posizione d’un militarista come lui, il generale Haftar, boss delle milizie cui s’affida la Francia per riportare ‘ordine’ nel Paese del dopo Gheddafi che nel 2011 ha contribuito a scompaginare. Un’assise che aveva ben altro a cui pensare, discutendo di macro geopolitica rispetto agli scempi che, comunque, proprio questa geopolitica provoca nelle singole comunità e realtà nazionali. E’ ovvio che nessun premier, nessun rappresentante istituzionale sia uscito dal tema, riferendosi anche a questioni che coinvolgono la vita quotidiana nei Paesi che si dice di voler aiutare. Lo potrebbe fare la libera stampa, quella odiata dai politici di ieri e di oggi. Ma al di là della levata di scudi contro gli sguaiati epiteti rivolti a quel che resta, in ogni caso, una corporazione fior fior di colleghi non hanno preso la palla al balzo per ricordare - magari con un servizio, un articolo, il semplice richiamo d’una colonna - la macchia insanguinata che il generale egiziano porta con sé, qualsiasi abito indossi.

La macchia dell’omicidio Regeni, perpetrato dai suoi collaboratori, e coperto con miserabili depistaggi dai vertici del Cairo, depistaggi e omertà che tuttora seguono il loro corso in opposizione al desiderio di libertà e giustizia richiesta dai genitori del ricercatore e da migliaia di attivisti in Italia e all’estero. Avrebbero potuto - i colleghi e le loro preziose testate che occorre difendere dagli assalti di chi ama il bavaglio - raccontare storie come quella delle ultime trentuno vittime, speriamo solo incarcerate (sic), che il ‘sistema Sisi’ ha prodotto nel grande Paese arabo. La vicenda risale solo a due settimane fa ed è stata evidenziata dalle Ong, che sempre con maggiore difficoltà denunciano la repressione diffusa in Egitto, perché da tempo anch’esse sono colpite da questa repressione. Nella notte del 1° novembre scorso la sessantenne Hoda Abdelmonem, legale presso la Suprema Corte Egiziana di Cassazione, ha subìto nella propria abitazione del Cairo l’irruzione di venti agenti della National Security Agency. E’ stata portata via senza mandato d’arresto, nonostante le rimostranze della figlia maggiore, ed è rinchiusa in una delle prigioni che “ristabiliscono l’ordine” in quel Paese.

L’avvocato veniva fermata, assieme a una trentina di persone, per aver offerto copertura legale ai familiari di individui, che egualmente erano state fermati, sequestrati e di cui non si sa più nulla. L’accusa è: attentato alla sicurezza della nazione e, nei casi più gravi, terrorismo. Prima di lei, prima del rapimento e dell’assassinio di Regeni, sono stati effettuati migliaia di sequestri illeciti, è il sistema che al Sisi ha ereditato da Hosni Mubarak, altro militare che ha usato la carica di presidente per difendere la lobby e schiacciare la popolazione che gli si opponeva. La figlia di Abdelmonem che ha assistito al sequestro, oltre a manifestare preoccupazione per la madre malata e bisognosa di cure per il rischio di trombosi, ha riferito ad amici che gli agenti cercavano in casa documenti relativi alle procedure, proprio di sparizione di persone, trattate dall’avvocato. Dopo aver perseguitato per anni l’opposizione interna, sia islamica (la Fratellanza Musulmana, ma non i gruppi salafiti) sia laica, l’attacco del regime è stato rivolto all’informazione, e ora all’attivismo dei diritti (anche dei gruppi caritatevoli) e ai legali che lo sostengono. Quando sono coinvolti soggetti noti come Abdelmonem questi sequestri riescono, in qualche modo, a venire a galla. In tanti altri casi no. Ma il silenzio risulta sempre complice.

mercoledì 14 novembre 2018

Talebani di lotta e di governo: nuovi orizzonti


Aver mantenuto per due anni segreta la scomparsa del mullah Omar, deceduto per tubercolosi a Karachi nel 2013, aveva un senso per i taliban. Provava a quietare gli animi. Alle differenze fra la componente afghana e quella pakistana dei turbanti si sommavano ulteriori spaccature e diversificazioni che sarebbero venute a galla nella successione e nei tentativi di raccordo fra i vari gruppi. Dopo l’annuncio della dipartita dell’uomo-simbolo, la Shura impiegò mesi prima d’indicare in Akhtar Mansour la nuova guida. E subito avvenne la frattura con Mohammad Rasoul staccatosi dalla maggioranza talebana, che comunque perdeva quasi immediatamente il nuovo capo, ucciso in un’imboscata dai droni statunitensi che dall’alto ne seguivano l’auto in viaggio fra Afghanistan e Pakistan. Si parlò di un’operazione gestita dalla Cia, con l’aiuto in quel caso dell’Isi pakistana, che evidentemente non gradiva la leadership prescelta dalla maggioranza degli studenti coranici armati.
Rasoul formò un organismo denominato Emirato Islamico dell’Alto Consiglio dell’Afghanistan, considerato da vari osservatori una pedina iraniana in terra afghana. Il fatto che in alcune circostanze il gruppo avrebbe simpatizzato con azioni estere dell’Isis prospetterebbe un diverso orientamento, sebbene Rasoul abbia più volte affermato che per il Daesh in territorio afghano non ci sia alcuno spazio. Ultimamente il portavoce di Rasoul, il mullah Abdul Niazi ha attaccato il dialogo aperto a Mosca fra l’Alto Consiglio di Pace Afghano e i talebani che dopo Mansour sono guidati da Akhundzada. Questi, pur considerato un mullah molto conservatore, è giunto a spedire propri rappresentanti sia in Qatar sia nella piazza di colloqui. Mansour nella sua breve vita da leader non si mostrava disposto a dialoghi, e forse anche per questo è stato liquidato.
Akhundzada sembra riprendere il doppiogiochismo del più illustre Omar, infatti i talib hanno proseguito azioni militari pur nei mesi in cui le trattative con vari attori erano (e sono) aperte. Loro risultano pur sempre più tattici dei tatticismi studiati da chi li vuole usare. Fra i grandi la Cina fa parte delle potenze consultate attorno a presente e futuro dell’Afghanistan, e per gli affari in corso (sfruttamento di giacimenti di rame e terre rare offerto per i prossimi 25 anni) s’affida al modello statunitense con tanto di governo fantoccio che patteggia una soluzione politica coi taliban purché il business prosegua. Bisogna capire quale sarà il ruolo di Mosca. La politica estera russa dell’ultimo quadriennio in Medio Oriente è risultata al tempo stesso pragmatica, cinica e vantaggiosa (per sé).
Putin ha ridato spazio alla grandezza, un tempo sovietica, seppure nel cuore dell’Asia quel passato riverberi la sua immagine peggiore, basata su invasione e scacco subìto da quella che era vista, in patria e non solo, come un’Armata invincibile. Sebbene tanti volti e pensieri, ormai passati al mondo dei più che diedero vita alla resistenza mujaheddin, divenuti poi signori della guerra e in certi casi talebani, si tramandino sentimenti anti russi, alla stregua degli attuali sentimenti anti americani, potremmo scoprire aperture del Cremlino ai fondamentalisti. Ricambiate da quest’ultimi. Nella frammentazione della galassia dei turbanti, nel doppiogiochismo della geopolitica, nella tattica dei veti e nelle dinamiche mai morte di amici e nemici fra le parti, l’orizzonte afghano potrà proporre versioni aggiornate di talebani di governo e di combattimento, a favore di potenze mondiali e regionali. E’ già successo, può continuare. Gli unici per cui tutti costoro non combattono mai sono i cittadini afghani.  

lunedì 12 novembre 2018

Taliban e governo assediano gli afghani


Sfidano le bombe che comunque scoppiano contro di loro, e stamane a Kabul hanno fatto sei vittime. Alcune centinaia di abitanti della zona ovest della capitale hanno marciato nel buio della notte per raggiungere l’area del Palazzo presidenziale e riversare il disprezzo sull’ambiguità di Ghani e del governo verso i talebani. I vari tavoli dei “colloqui di pace”, aperti negli ultimi tempi anche a Mosca con talune componenti del fondamentalismo politico, trova nei vertici di Kabul tanto sensibili alla pseudo democratizzazione del Paese dei giocatori subdoli che difendono certa geopolitica, i propri interessi, non il popolo afghano. Alla protesta partecipano i familiari di quegli abitanti di Ghazni e del distretto di Uruzgan lasciati in balìa della nuova occupazione del territorio lanciata dagli studenti coranici in armi. Da mercoledì scorso centri come Jaghori sono invasi dai miliziani che non trovano ostacoli di fronte a un esercito letteralmente liquefatto. Gli abitanti che hanno potuto sono fuggiti, chi non ce l’ha fatta è barricato in casa, ma non è detto che non subirà coercizioni. Gli elicotteri promessi da Kabul contro i turbanti per un’offensiva dal cielo, non sono mai decollati.
Anche le linee telefoniche – pur trattandosi di telefonia mobile – devono aver ricevuto un’azione offensiva dei taliban perché alcuni partecipanti alla marcia, nella quale si esponevano cartelli come “Ghani e Abdullah svegliatevi”, sostenevano di non poter raggiungere i parenti per voce. Fra costoro ci saranno, magari, impiegati dell’amministrazione statale che nella posizione ricoperta, riservano ancora speranze in una diarchia capace di agire esclusivamente alla conservazione del proprio rango. Alla disillusione la popolazione afghana, e non solo quella che versa nella povertà assoluta, è giunta da tempo. E’ la mancanza di alternative valide alla comparsata quasi ventennale della  costruzione della democrazia a rendere possibile la sopravvivenza d’un tale ceto politico. La propensione a servilismo e corruzione li trasformano nelle pedine di chi tesse la regìa di tale sfacelo: governi americani e Nato. La travagliata nazione è sospesa nel vuoto di futuro creato dai suoi avvoltoi anche quando parlano di presente. La divulgazione dei risultati elettorali, tanto per tornare su un tema trattato nelle ultime settimane, è tuttora bloccata. Quel che funziona sono solo intimazione e morte, e le bombe di stanotte possono essere solo talebano-governative.