martedì 27 dicembre 2022

Kabul, il respiro di Marwa

 

Marwa è andata sola davanti all’ingresso dell’università di Kabul. In realtà una sorella celata in un’auto s’è appostata a distanza e con un cellulare l’ha filmata da dietro, evitando di farsi vedere. Le guardie talebane all’ingresso della struttura inizialmente non hanno dato peso a quella giovane che innalzava un cartello su cui c’era scritto “leggere”. Poi alcuni miliziani si sono avvicinati. Lei è rimasta lì. Non l’hanno percossa, ma l’hanno dapprima dileggiata poi insultata. Questo ha raccontato in seguito la diciottenne all’agenzia Associated Presse. “Mi hanno detto cose davvero brutte, io sono rimasta calma”. Un gesto non isolato, perché nei giorni precedenti alla diffusione della notizia che vietava alle ragazze la frequentazione dei corsi accademici c’erano già state proteste, seppure a piccoli gruppi. Le studentesse erano state disperse, minacciate di arresto, anche dei colleghi maschi che avevano levato la voce per sostenerle erano stati azzittiti. Marwa è tornata sul luogo dell’esclusione volendo dimostrare che pure una singola persona può non chinare il capo, può resistere e non farsi intimidire. “Non voglio essere imprigionata perché ho grandi sogni da realizzare” ha dichiarato al corrispondente di AP che è andato a cercarla, sottolineando comunque che il percorso di studio, che per lei e quelle come lei, rappresenta il viatico dei sogni non può esserle strappato via. Non si arrenderà mai a questo destino. Sa che la giustificazione del ministero dell’Istruzione per il divieto (la mancata osservanza rigorosa del codice di abbigliamento) è una scusa. Come già lo era stata la presunta carenza di stoffa per confezionare le uniformi alle  studentesse che aveva portato alla loro esclusione dagli istituti superiori. E dal marzo scorso l’escalation: divieto di frequentare i parchi, le palestre, i bagni pubblici. La reclusione nelle abitazioni dove restare confinate e destinate solo ai lavori domestici. Marwa non ci sta. Alza il cartello, leggere per lei è come respirare. Marwa non vuole morire soffocata.  

 

domenica 25 dicembre 2022

Emirato afghano, né studio né lavoro per le donne

 

Il buio sull’azzurrissimo cielo afghano arriva con una lettera. Fredda, tranciante, burocratica, simile a quelle degli organismi occidentali che i coranici dicono di voler abbattere. Viene dal ministero dell’Economia dell’Emirato e dice: le donne afghane non possono lavorare presso le Organizzazioni non governative, locali e straniere. Coinvolte almeno centottanta Ong che operano nel Paese. Alla richiesta di chiarimento da parte di alcune, il portavoce del mistero Abdulrahman Habib ha puntualizzato che è così fino a nuovo avviso. Per quanto s’è visto finora con altri divieti, sarà difficile che giunga una nota di cancellazione.  Non è chiaro se saranno comprese anche talune agenzie delle Nazioni Unite che risultano vitali per l’economia non da oggi disastrata della nazione dell’Hindu Kush. Ma al di là della ricaduta collettiva per le famiglie che spesso dipendono da quelle attività e da quegli aiuti - visto che né all’interno né all’estero interessa sviluppare una rete economica autonoma - c’è la condizione di milioni di donne, soprattutto ragazze cui viene proibito un’esplicita azione d’emancipazione segnata dal lavoro. Si tratta d’un raddoppio di una settimana nerissima con cui il governo talebano ha vietato in sequenza l’accesso alle università a migliaia di studentesse e ha poi rilanciato il divieto verso le Ong. Né diritto allo studio né al lavoro per un genere femminile che i turbanti vogliono soggiogato a un universo maschile miseramente ridotto alla frusta per chi si ribella, al terrore dei propri kalashnikov d’ordinanza o di clan,  all’osservanza di una Shari’a creata a dimensione dei mullah che la predicano senza alcun riferimento al Corano se non attraverso una lettura letterale, ristretta, meschinamente patriarcale. Nel Paese la chiusura d’ogni spazio per la componente femminile è galoppata velocemente dalla scorsa primavera. A marzo le scuole superiori erano già state vietate alle studentesse con l’alibi che non erano pronte le divise da distribuire agli istituti. Qualche tempo dopo Sirajuddin Haqqani fece la sua comparsa in pubblico da ministro della Difesa, passando in rassegna truppe che vestivano fiammanti uniforme fatte confezionare per l’occasione. La stoffa che mancava per le ragazze delle superiori era abbondante e vistosa per i militari. Solo un esempio del doppio binario adottato da un regime che al suo esordio, nell’agosto 2021, prometteva d’aver mutato registro rispetto alla gestione del ventennio precedente. Solo promesse, come quella d’una chiusura delle scuole per il citato motivo diventata da temporanea a permanente, che nascondono l’anima oscurantista di sempre: scacciare le donne non solo da ruoli istituzionali e professionali, ma ridurle a succubi dell’uomo. Solo a lui è consentito accedere al potere, nella società, in famiglia, finanche in strada. Per le donne nessuno spazio in Afghanistan.   

sabato 24 dicembre 2022

Kurdi di Francia contro Erdoğan e Macron

 

C’entra l’individualismo razzista o si tratta di un’ennesima strage pilotata contro la comunità kurda parigina? Fra il timore e la frustrazione stamane attivisti kurdi, sostenuti anche da manifestanti della gauche, si sono scontrati con le forze dell’ordine a ridosso del centro culturale Ahmet-Kaya, diventato la tomba per tre membri del Consiglio democratico kurdo di Francia. Fra le vittime una militante che aveva speso molte energie per risalire ai responsabili dell’assassinio delle tre attiviste, sempre d’un centro culturale kurdo, nel gennaio di dieci anni fa. Come allora la diaspora in Francia non ci sta: non crede all’ipotesi della mano xenofoba dell’ex ferroviere assassino (“un pazzo” l’ha definito l’anziano genitore) che avrebbe agito in solitaria. I kurdi pensano a un utilizzo di elementi simili da parte dell’Intelligence turca, nell’indifferenza dei Servizi francesi. Quest’ultimi se non collusi si mostrano certamente svagati. Perciò sin da ieri, ed egualmente in queste ore, la rabbia si riversa in piazza con scontri, barricate, incendi. Un corteo che da République doveva raggiungere Bastille, è stato disperso sotto i fumi dei lacrimogeni delle squadre antisommossa. Mentre il ministro dell’Interno Darmanin, definisce terrorista l’attacco sanguinario, gli attivisti accusano il Paese ospitante di disattenzione e omertà. Indubbiamente la Francia è percorsa da tempo dal vento xenofobo che soffia sull’intero Vecchio Continente, il suo ceto politico si permette di stupirsi dell’accaduto, come fa Marine Le Pen, storica fomentatrice d’odio verso migranti, rifugiati, stranieri. Inquietante è la tendenza a non creare dissapori nella geopolitica internazionale, cosicché – a detta dei dirigenti kurdi – l’Eliseo non ostacolerebbe possibili operazioni sporche dei Servizi di Ankara sul suo territorio. La misteriosa morte di Omer Güney, l’omicida del terzetto kurdo nel 2013, avvenuta in ospedale a seguito di complicanze di una precedente lesione celebrale, cadde una manciata di mesi dal processo che avrebbe dovuto trattare anche coperture e connivenze di cui godeva l'uomo. Certo, l’anno che giunge sarà per la Turchia erdoğaniana una scadenza già difficile, le doppie elezioni della riconferma potrebbero trasformarsi in una disfatta, perciò aggiungere nuove tensioni con la copiosa minoranza kurda non apparirebbe logico. Ma di logico nell’ultimo decennio vissuto pericolosamente dal premier e poi presidente Erdoğan, c’è ben poco.


venerdì 23 dicembre 2022

Parigi, l’incubo anti-kurdo

 

Il massacro, tre vittime e quattro feriti, avvenuto stamane in un caffè e centro culturale kurdo nel cuore di Parigi (rue d’Enghien, X arrondissement) potrebbe non avere solo i risvolti razzisti su cui indaga la polizia. Sebbene il sessantanovenne sparatore-assassino che è stato fermato avesse un precedente inquietante: un anno fa aveva compiuto un attacco, non mortale, in un campo profughi. Brandiva una spada e vomitava odio razziale. C’è chi rammenta un altrettanto sanguinario assalto verificatosi un decennio addietro: il 3 gennaio 2013. Sempre in un circolo culturale kurdo vennero rinvenuti i cadaveri di tre militanti, si disse legate al Partîya Karkerén Kurdîstan (Pkk). Erano quelli della navigata Sakine Cansiz, che frequentava il leader Öcalan, e di due più giovani collaboratrici. L’assassinio venne svelato come un’esecuzione compiuta da un infiltrato che collaborava coi Servizi di Ankara, tal Omar Guney, che nell’ambiente della diaspora kurda francese prestava opera di autista e tuttofare. L’operazione divenne una sorta di pietra tombale ai colloqui ancora in corso fra i vertici del Mıt e Öcalan in persona, aprendo quella frattura diventata insanabile fra lo Stato turco e le formazioni armate kurde che ripresero la lotta armata, non solo nella roccaforte di Qandil. Ma se un decennio fa Erdoğan mutava linea, passando dal dialogo allo scontro aperto con kurdi, opposizione giovanile di Gezi park, ex alleati gülenisti, un pezzo di esercito e magistratura, la conflittualità interna pur presente e sempre elevata non dovrebbe venir rinfocolata da nuove tensioni. L’anno che si apre costituisce un momento di svolta per il leader e l’intera nazione turca, rappresentato dalle elezioni di giugno - politiche e presidenziali - attorno alle quali si muove un doppio sogno. Per Erdoğan l’ennesima consacrazione a presidente, sarebbe la terza ma a seguito della Costituzione varata nel 2017 diventerebbe la seconda. Per l’opposizione la possibilità di scalzare lui e l’egemonia stabilita ormai da un ventennio dall’Adalet ve Kalkınma Partisi (Akp). Tutto ciò nell’anniversario di cent’anni della Turchia moderna, quella kemalista che se non ha completamente mutato pelle, risulta spaccata in due, non solo attorno ai simboli islamici. E’ in questo contesto, con un’opposizione che cerca di battere il politico invecchiato ma tuttora perno della scena interna e internazionale, che rinfiammare il pagliaio della corposa minoranza kurda con una misteriosa mattanza può diventare un azzardo. Qualora questa si rivelasse l’ennesima operazione di Intelligence. Per l’accusa di terrorismo e fiancheggiamento al Pkk alle elezioni mancherà la metà degli esponenti del Halkların Demokratik Partisi (Hdp), messa in galera dalla repressione degli ultimi anni, né probabilmente il gruppo potrà esprimere un proprio candidato alla carica di Capo dello Stato. Però la comunità kurda voterà, e più dell’astensione, un voto indirizzato a elementi anti Erdoğan può risultare una tentazione utile. Come accadde alle amministrative del 2019, quando il partito di maggioranza perse i sindaci delle maggiori città anche per il sostegno kurdo ad alcuni esponenti del Cumhuriyet Halk Partisi (Chp). Il più illustre dei quali,  sindaco di Istanbul, il repubblicano İmamoğlu che potrebbe insidiare Erdoğan nella corsa alla presidenza, è stato di recente condannato dalla magistratura e rischia l’esclusione dalla campagna elettorale. Nella Turchia che arde di suo, nuovi inneschi non possono che allargare l’incendio.  


 

mercoledì 21 dicembre 2022

Elezioni tunisine fra miseria, migrazione, morte

 

A Tunisi si parla molto del primo turno elettorale i cui dati nudi sono assai crudi per l’esecutivo: 9% di votanti, circa un milione su nove di elettori. Eppure il presidente Saïed che queste elezioni ha imposto dopo aver stracciato il precedente Parlamento dice di attendere il 19 gennaio, data del secondo turno, per poter valutare in maniera esaustiva quella legittimazione che lui cerca nell’urna e che la maggioranza del Paese non vuole offrirgli. Intanto un magistrato compiacente a un governo che definire illegittimo non è fantasticheria, ordina l’arresto del vicepresidente del partito Ennahdha, Ali Larayedh, già primo ministro fra il 2013 e 2014. L’accusa nei suoi confronti è terrorismo. Nella fattispecie, secondo un legale del politico islamista, gli si imputa un presunto aiuto offerto all’epoca a combattenti tunisini partiti per la Siria: i foreigh fighters pro Isis. I commenti interni dicono che si tratta di un’azione atta a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dal flop elettorale. Ennahdha s’è spesa più d’ogni altro gruppo d’opposizione per diffondere il boicottaggio, che comunque ottiene un’adesione amplissima sia perché, come quasi ovunque al mondo, c’è una larga frattura fra popolazione e ceto politico che non ne rispetta istanze e bisogni. Sia perché l’operazione attuata dall’uomo forte, sostenuto da tycoon e magnati con l’appoggio dell’esercito, costituisce un colpo contro quel cambiamento cercato per oltre un decennio dai tunisini più che in ogni altra piazza mediorientale. I drammi e le contraddizioni del popolo restano irrisolti. E sono i soliti: nessuna redistribuzione della ricchezza, disoccupazione, mancanza di futuro per le generazioni odierne, inflazione, povertà, addirittura carenza di generi di prima necessità, aggravata dalla crisi geopolitica ucraina con ricadute energetiche e alimentari, che ovviamente colpiscono i più deboli. 

 

Certo, mai come le tragedie che inseguono i migranti della disperazione pronti a fuggire appena se ne presenti  l’occasione, anche d’inverno, col mare che fa paura. Poiché la paura conosciuta nelle rotte della speranza, i ricatti dei trafficanti, le botte, le torture, gli stupri per le donne, le privazioni e umiliazioni cui sono sottoposti pure giovani uomini pieni di vigore possono far perdere la rotta, non solo al barcone già naufrago alla partenza. Mettono a repentaglio la rotta della vita. E allora si ripetono i lutti. Così è stato per Rokia infante di nemmeno tre anni giunta esanime al Poliambulatorio di Lampedusa, dopo il naufragio del battello di latta dov’era finita con la mamma. Ivoriana, come altri fantasmi ammassati per 2.500 dirham tunisini (750 euro), una tariffa stracciata per il più insicuro degli scafi. Lei non ce l’ha fatta perché i soccorritori l’hanno pescata dal gelido mare coi polmoni pieni d’acqua. Proveniva da Sfax, il porto tunisino dove s’imbarcano i fosfati. Ed è finita come Alan, coetaneo kurdo-siriano il cui corpicino esanime prelevato sulla spiaggia turca di Bodrum aveva fatto indignare il mondo. Poi tutto passa e questi sette anni di sciagure sono trascorsi seminando cadaveri di fuggiaschi naufragati nel blu. L’unico riguardo riservato dai tunisini sfruttatori di speranze ai connazionali che tentano il salto sul Mediterraneo, è quello di non infilarli nelle bagnarole della morte come i coloured dalla pelle più nera. Gli suggeriscono di pagare di più per sperare meglio, evitando il transito che costa poco ma riserva rovine quasi certe. Altre barche possono trasportare, per tariffe più onerose, i connazionali che non resistono alle imposture di Saïed e al sedimentato disastro economico del Paese. Mentre quello Stato Islamico che recluta l’insofferenza giovanile alla politica dell’establishment patrio, oggi difficilmente chiede aiuto a Ennahdha. La Jihad gode di più proficui canali.  

lunedì 19 dicembre 2022

Prosegue la sfida talebana allo Stato pakistano

 

Noor Wali Mehsud, il boss dei Tehreek-i Taliban Pakistan, l’aveva chiesto durante i colloqui del 2021 all’ex premier Iram Khan; poi nuovamente fino a giugno scorso all’attuale primo ministro di Islamabad Sharif: liberate i nostri compagni incarcerati e staremo tranquilli. Era il presupposto per giungere a una cessazione degli attentati contro l’esercito e figure istituzionali del Paese. Certo, un ricatto, però… Dopo uno stallo durato l’intera estate, un mese fa giungeva l’annuncio della ripresa delle ostilità, cui seguiva un attacco a un convoglio militare pakistano. Da domenica sera un commando dei TTP i prigionieri se li è andati a prendere direttamente, assaltando il Centro di detenzione di Bannu. Ora, patteggiando la ritirata, sta tenendo in ostaggio alcuni addetti al penitenziario mentre un agente è rimasto ucciso nel conflitto a fuoco svoltosi durante l’assalto. Bannu è una cittadina del Khyber Pakhtunkhwa, oltre il Waziristan settentrionale dove i miliziani sono di casa nonostante le ripetute incursioni e repressioni delle Forze Armate pakistane degli ultimi anni. Proprio a Bannu nel 1947, durante la decolonizzazione indiana e la divisione dei territori in due Stati, uno era appunto il Pakistan, si tenne una Jirga pastun che chiedeva uno stato indipendente appunto per l’etnìa pashtun. Quest’ultima non riconosceva già da decenni il confine imposto dalla cosiddetta ‘linea Durand’ che nel 1893 assegnò alla dinastia Durrani il controllo dell’Afghanistan. Quel confine di natura coloniale resta un irrisolto nelle relazioni fra i due Paesi e il cospicuo gruppo dei pashtun. Le trattative del sequestro sono tuttora in corso, vi partecipano anche alcuni capi tribù della provincia, la richiesta del commando riguarda un passaggio sicuro verso il Waziristan, e secondo alcune fonti anche oltre il confine afghano. Proposta che metterebbe in difficoltà le relazioni ufficiali di Kabul con Islamabad, visto che i vertici del governo afghano cercano di non interferire nelle questioni interne dei vicini. Nella famiglia talebana dell’Emirato è soprattutto il potente gruppo Haqqani a essersi sempre mostrato solidale coi TTP,  una prossimità strategica esiste coi dissidenti dell’Isis Khorasan con cui i taliban ortodossi sono in conflitto. Che la questione sia un caso politico lo si percepisce da come gli esponenti pakistani la stanno trattando. Khan, leader del Tehreek-e Insaf (PTI), partito che guida quella provincia, sottolinea come l’esecutivo nazionale non riesca a contenere il terrorismo, il ministro della Pianificazione di rimando gli risponde: è il PTI  responsabile di quel che accade nell’area che amministra. E mentre l’assistente speciale in quella zona afferma d’aver trattato per ore con pezzi grossi del movimento senza essere riuscito a trovare soluzioni, si teme un possibile assalto dei militari. Un’azione che gli amministratori vorrebbero scongiurare perché potrebbe tradursi in un massacro, vista la rigidità delle posizioni dei fondamentalisti. Sugli sviluppi peserà anche la linea dei vertici delle Forze Armate. Dei due generali recentemente investiti dell’incarico di capo dell’Esercito e di capo di Stato Maggiore e nominati dal presidente Alvi, Shamshad Mirza, è un duro. Anni addietro cacciò i talebani dal territorio del nord Waziristan, provocando stragi anche fra i civili. Se dovesse decidere per l’attacco agli assalitori del centro potrebbe innescare la vendetta talebana e un’ulteriore spirale di attentati, se assumesse posizioni concilianti rischierebbe d’essere tacciato di codardia dagli stessi vertici della lobby militare. Insomma l’interruzione dei colloqui con Mehsud assume i contorni d’un brutto vicolo cieco in cui il litigioso ceto politico pakistano s’è infilato. 

 ________________________________________

Martedì 20 dicembre alle ore 12:30 locali è scattata l'operazione repressiva diretta dal Dipartimento antiterrorismo pakistano. Il ministro della Difesa Khawaja Asif ha dichiarato che il commando dei TTP, che aveva  preso in ostaggio alcuni agenti del centro di detenzione e patteggiava un riparo esterno assieme ai miliziani detenuti, è stato annientato. Non si hanno notizie sui 33 talebani che sarebbero dovuti fuggire, uno di loro si era impossessato dell'arma d'un poliziotto uccidendolo. Nello scontro a fuoco per la ripresa del controllo del complesso da parte del personale penitenziario due appartenenti al Servizio speciale dell'esercito sono rimasti uccisi e una quindicina feriti. I vertici statali hanno, dunque, scelto la via dell'intransigenza. Secondo la linea dei Tehreek-i Taliban è facile prevedere prossimi attentati in varie provincie pakistane. 


 

sabato 17 dicembre 2022

Mondiali: non solo nazionale. Il Marocco e gli affari sovrani

 

Metti i denari del Qatar, gli apparati marocchini, la voglia di fare ‘grana’ per sé e famiglia di alcuni ex e attuali deputati europei, lo scudo di Ong di comodo, i grandi eventi che come “le grandi fortune nascondono sempre grandi crimini”, la voce dal sen fuggita dell’uomo del pallone, mister Infantino, che dice: Enjoy the football mentre pensa: E non rompete, e ancora altro di cui parleremo ed ecco che la globalizzazione, data per defunta, appare in tutta la sua vitalità come magnifico cantuccio per intrighi, intrallazzi, supremazie, meschinità, misfatti. Non che il sovranismo ipernazionale sia lontano da tali vizi, anzi. Eppure questo è il mare in cui si nuota, compreso il bel calcio che chi l’ha praticato - pur sui campetti di periferia - può far sempre sognare. Come accade stavolta a chi guadagna la Coppa e a chi sperava di farlo: la formazione in rosso di Regragui, che ha vellicato l’ardore e l’amore di milioni di marocchini e centinaia di milioni di maghrebini, arabi e musulmani, fossero concittadini ed emigrati. Eppure la stessa passione di calciatori e spettatori, fa da contorno a ulteriori affari, non solo i cinque o sei miliardi di dollari di profitto programmati dalla Fifa per la  kermesse qatariota. In queste righe inseguiamo quel che traspare dalle faccende e dai faccendieri della corona di Mohammed VI, immagine da re buono e altruista, il cui operato da decenni cela anche dell’altro, ne siano coscienti o meno i sudditi su cui lavora una macchina informativa connivente col potere. La Direzione Generale per Studi e Documentazione (DGSD) comparsa nell’inchiesta della magistratura belga col suo dominus Yassine Mansouri, compagno di studi, sodale, amico, occhio e orecchio del re nelle operazioni d’informazione, propaganda, lobbying, corruzione e ciò che potranno evidenziare le indagini, aveva pregressi e ulteriori strumenti, tutti mascherati tramite presunte Agenzie di stampa. Agli addetti ai lavori di qualsiasi versante, manipolativo o di giudizio, certe questioni erano note da oltre un decennio. Come i personaggi coinvolti. 

 

Così Maghreb Arabe Presse (MAP) - agenzia stampa dov’era stato direttore dal 2003 al 2009 Yassine Mansouri seguito dallo 007 a lui legato, Mohammed Khabbachi, coi quali sono stati in contatto alcuni degli indagati - serviva non solo a pilotare notizie ma a cercare sponde geopolitiche. Khabbachi, è stato anche animatore del sito paragovernativo online Barlamane. Da quelle pagine è sorto un conflitto con un altro sito marocchino (le Desk) accusato di calunnia. Le Desk rispondeva usando un’accurata documentazione sul passato di Khabbachi definito, non solo dai rivali di polemica, metà spia, metà propagandista, parecchio a suo agio con l’imbroglio mediatico. Eccone il quadro. Sessantasei anni, laurea in Scienze Economiche presso l’università di Rabat, s’avvicinò al MAP nel 1983 come impiegato amministrativo, restando tale per una decina d’anni. Quindi entrò in redazione. Nel 1992 si spostava a Dakar per raccogliere informazioni su Stati centrafricani, nel 2000 divenne capo servizio del MAP e dopo due anni direttore, rimpiazzando Yassine Mansouri che nel frattempo saliva al vertice della DGSD. Nel 2011 MAP incappava in un rapporto della locale Corte dei Conti che valutava l’agenzia priva di “obiettività e indipendenza” (sic), mescolando l’intento statutario di fornire elementi d’informazione interne ed estere a uso e consumo del potere  con una meticolosa propaganda pro regime. Insomma i servizi dell’agenzia venivano meno al ruolo di reale informazione e apparivano espliciti ‘dossieraggi’. Intanto Khabbachi non c’era più. L’anno precedente l’aveva rimosso il re in persona, apparentemente senza motivo. O forse i motivi c’erano. Secondo i rumors dell’epoca aveva superato la misura: s’accreditava addirittura quale confidente di Palazzo e avrebbe potuto creare problemi nelle relazioni della Monarchia con altri Paesi africani. L’uomo, però, serviva e - racconta sempre le Desk - nel 2010 assunse l’incarico di ‘comunicatore’ per il Ministero dell’Interno. 

 

Per agevolare il suo lavoro Khabbachi usava sempre il canale mediatico, creò la Sahara Media Production, trasformata in Sahara Media Agency. La nuova struttura faceva crescere rapidamente i conti attorno a forniture televisive verso terzi e vantaggi fiscali nella regione del Sahara. Per quale fine? Non solo per monitorare il jihadismo crescente nell’area, dalla Mauritania al Mali, ma per riscontri più sostanziosi. La vicenda, ripresa in questa fase coi trolley italo-grechi colmi di denaro, di ottenere un’immagine benevola del Paese maghrebino nella Ue attorno ai diritti umani – non solo quando si bastonano e torturano i manifestanti del movimento Hirak, ma verso l’autodeterminazione rivendicata dalla popolazione Saharawi – è questione antica come il trentennale conflitto col Fronte Polisario. All’epoca in cui gli 007 di Mohammed erano sguinzagliati in nord Africa cercavano sì accordi con chi lucrava sulle vie di stupefacenti e migrazione clandestina, ma volevano difendere uno degli interessi economici maggiori dello Stato: i fosfati presenti nell’ex Sahara spagnolo, di cui Rabat detiene il 70% della produzione mondiale. Non è un caso che l’Office Cherifien des phosphates, l’azienda leader del settore, abbia ottenuto di recente un ulteriore ampliamento della sua capacità estrattiva. L’OCP è un’impresa storica con sede a Casablanca, ventimila dipendenti, un fatturato di sei miliardi di dollari assolutamente in crescita e risulta una società anonima. I cattivi pensieri l’addebitano alla rete parentale del sovrano, come tanti altri affari celati. Per i quali la dinastia usa dai cugini all’Intelligence e, passando per i prestanome anche i ben designati parlamentari europei. O almeno voleva farlo. Quest’ultimi si difendono, difendendo l’onore del carrozzone politico che in trent’anni di storia, al di là della moneta, non ha creato granché. Se non la possibilità d’inciuciare con chi strizza l’occhio al business fra Stati fratelli o in una famiglia allargata che tutto prova ad acquistare, iniziando dalla credulità degli elettori.    

giovedì 15 dicembre 2022

Marocco e Qatargate

 

Nella particolare partita fra spie che intreccia l’ultima fase dei Mondiali in Qatar, quella sportivamente e agonisticamente più avvincente, l’Intelligence belga riesce a rifilare ai colleghi marocchini alcuni colpi che potrebbero far male più della doppietta calcistica patita dalla nazionale di Regragui coi Blues. Il Direttore Generale per Studi e Documentazione, uno degli apparati dei Servizi segreti di Rabat, è sospettato dalla magistratura di Bruxelles d’aver indirizzato mazzette milionarie a politici Ue. Com’è noto la vicepresidente della Camera europea (Kaili) è stata arrestata assieme a un ex parlamentare italiano (Panzeri) e al suo assistente (Giorgi). Il super 007 marocchino Yassine Mansouri avrebbe agito come sponda dell’emirato qatarino e del suo ministro del Lavoro bin Samikh Al Marri,  nell’occhio del ciclone per la nota mancanza di sicurezza nei cantieri Mondiali (6.700 gli operai morti) e per il super sfruttamento della manodopera straniera. Alcune Ong italiane (Fight Impunity e No peace without justice) e deputati europei (per ora Socialisti&Democratici e forse del Partito Popolare Europeo) dichiaravano, sotto compenso tangentizio, che tutto invece era a norma, e la vetrina qatarina non aveva tralasciato alcuna attenzione per il politicamente corretto. Le posizioni contro il sostegno al movimento LGBTQ erano tutto sommato frizioni locali e note di colore… Ma quale colore assumeranno i vertici statali marocchini, che nel bene hanno sempre marchio, immagine e magnanimità del sovrano “modernista” Mohammed VI, se venissero confermate le manovre corruttive di Mansouri, che col re ha studiato e rientra nel suo cerchio magico occupando il posto che occupa. Figlio d’un professore e predicatore, Yassine ha conseguito le lauree in legge e diritto pubblico, uscendo dal prestigioso College di Rabat frequentato anche da Mohammed VI. La vicinanza e la fiducia dell’attuale sovrano l’hanno portato prima al ministero dell’Informazione, poi a quello dell’Interno, fino all’incarico che ricopre: uno dei due apparati speciali dell’Intelligence di Rabat che interagiscono col trono. 

 

L’altro è il Direttorato Generale della Sicurezza Nazionale dov’è di casa dal 2005 Abdellatif Hammouchi. Tempi lunghissimi d’incarico per questi uomini stimati dal sovrano. Anni addietro Hammouchi è incappato in un intoppo giudiziario: la denuncia di torture subite da un detenuto che venne presa in esame da un giudice francese e bloccò il super agente a Parigi, dove partecipava a un vertice tecnico. Abdellatif ne uscì senza conseguenze, com’era già accaduto per altre accuse di tortura e decesso di detenuti su cui mancavano prove dirette. Per Amnesty International e Human Rights Watch si trattò d’un bell’aiuto all’impunità degli 007 di Rabat sospettati di violenza e violazione di diritti umani. Nonostante polemiche anche a mezzo stampa Hammouchi fu insignito dal re con la decorazione Alaouite Wissam, riconoscimento per gli sforzi nel preservare la “sicurezza nazionale”. La stessa Intelligence parigina gli fu favorevole per la collaborazione ricevuta in occasione della ricerca dei jihadisti franco-marocchini responsabili degli assalti sanguinari del 2015. Eppure Hammouchi non è solo lo spietato cacciatore di fondamentalisti armati, cinque anni fa è stato l’acerrimo repressore di proteste sociali nella provincia di al-Hoseyma. Il super poliziotto del re non perdeva il vizio nell’ordinare arresti e brutalità fisiche sui dimostranti, senza dover render conto dei modi. L’intimità con la monarchia da parte dei due uomini dei Servizi è talmente profonda che quest’estate è venuta a galla un’intercettazione della Sorveglianza del Territorio ai telefoni reali. Imbarazzata la stampa interna sminuiva lo scandaglio, evidenziando come sotto osservazione ci fosse anche il numero dell’ex consorte, Salma Bennani, altezza reale separata dal sovrano. Si faceva intuire che non fidandosi della donna, si vigilava sulla corona e sul Paese. Ma sul Qatargate sarebbe utile sapere quanto marocchini non certo comuni come mister Mansouri e l’ambasciatore in Polonia Abdelrahim Atmoun, agissero in proprio o di concerto con la dinastia alawide che tanto sa e decide. Visto che fare oggi un favore ai Mondiali degli Al-Thani, alla lunga diventa più conveniente che vincerli sul campo. 
 


mercoledì 14 dicembre 2022

Marocco, quel che resta del sogno

 

Sicuramente l’impresa. Mai la madre Africa era salita così in alto nello sport storico del colonialismo. Certamente il coinvolgimento. Della Umma islamica e di quella società araba sempre solidale a parole, non sempre nei fatti. Basta chiedere ai palestinesi. Invece a Doha tutti a tifare rosso, e sebbene svanisce la magia della finale, fino a sabato è ancora accessibile l’ipotesi del podio. Se non sarà terzo posto, non sarà mai più terzo mondo. Nel calcio globalizzato sempre più uno vale uno, la nazionale maghrebina è cresciuta moltissimo e non ha timori reverenziali verso chicchessia. Il merito - dicono gli esperti - sta nell’Accademia del calcio di Salé, voluta dal sovrano modernizzatore come tante cose create in un decennio in quella che pare una dépendence della capitale, e che invece la Storia indica rivale di Rabat, nata da famiglie di moriscos spagnoli nel Seicento. Un movimento inverso da quello dell’VIII secolo che originò l’Andalus e il Califfato ommayde. L’immenso cantiere che per oltre un decennio ha plasmato l’estuario del Bou Regreg, il fiume che divide Rabat da Salé, ha avuto al centro quell’opera pubblica vanto di uno dei vari progetti del re: le linee del tram veloce, che salgono rispettivamente fino alla città universitaria della capitale e al quartiere Océan di Rabat lungo la Medina. All’inaugurazione del 2011 si seppe che la spesa dell’infrastruttura ammontava a un miliardo di euro. Ben spesi per la cittadinanza sotto i migliori auspici di Allah. E non importa se nel tragitto che fa salire i vagoni verso Rabat è stato espropriato il terreno dell’antico cimitero, ora diviso in due tronconi. Il complesso sportivo del miracolo del football, denominato come il monarca, è in un’area verde a otto chilometri dall’Atlantico. Finito, recinzioni comprese, per 13 milioni di euro è costato molto meno di tante magnificenze per il turismo iper stellato tirato su da holding interne e pure da altri fratelli di capitali, come l’ivoriana Addoha. Lì i giocatori sudano e faticano per far grande il Marocco, chi alloggia nelle lussuose ville e residenze della “Spiaggia delle Nazioni” non pensa a faticare neppure quando colpisce palline da golf sui manti erbosi con vista sulle Corniche e l’Oceano. La Salé reinventata per sognare è un gioiello come la nazionale che fa gioire.  

 

Il re modernizzatore e sognatore ha voluto tutto questo per offrire un’immagine splendida della nazione. Gli riesce bene evidenziare quanta solidarietà è presente nelle fondazioni che portano il nome suo e dei predecessori. Sulle orme della “Mohammed V” indirizzata a combattere povertà e offrire assistenza ai bisognosi sui temi di educazione scolastica, formazione e impiego, sostegno alla disabilità e alla salute, la “Mohammed VI” punta a migliorare le condizioni di vita delle famiglie e promuovere le professioni. Vanta trasparenza nella gestione dei servizi, controlli finanziari, accesso alle informazioni e nel Comitato Direttivo esisbisce ottime figure professionali, docenti e sindacalisti. Tutto attrattivo e democratico, nelle interviste del presidente Youssef El Bakkali si ricorda come la Fondazione “non ha scopo di lucro e rivolge le sue attenzioni, fra le altre, al settore sanitario prendendosi cura di un milione e mezzo di persone”. Ha partecipato alla recente Cop27 di Sharm El Sheikh con tanto di programma per la protezione dell’ambiente, e un progetto di decarbonizzazione energetica proprio nell’area di Rabat-Salé-Kenitra. Eppure accanto alla santificazione dell’operato sovrano se minimamente s’indaga su chi investe sull’energia rinnovabile, veicoli elettrici, oltre sull’ossessiva immobiliare c’è Marita Group, holding nella quale Moulay Youssef Alaoui, cugino di Mohammed VI e suo braccio destro in affari, è presidente onorario. Cosicché la dinastia con una mano offre assistenza, con l’altra incamera capitali investendo su una bellezza e comodità di cui non s’avvantaggia neppure il cittadino medio, figurarsi il miserabile delle bidonville tuttora in essere ai margini delle grandi città. Dove le nuove case non mancano, chilometro dopo chilometro lungo tutta la costa atlantica. Spesso sono abitazioni vuote e invendute e le immobiliari neppure si sfiancano per piazzarle. Hanno già intascato denaro proveniente da fidi bancari e hanno già guadagnato sulle costruzioni. Accade anche da noi, ma non è un buon viatico.

domenica 11 dicembre 2022

Mondiali e riscatto marocchino

 

Sarà pure una forzatura cercare il riscatto d’un popolo, che fu conquistatore prima d’essere ridotto a colonia novecentesca, ma il Marocco dalla sfavillante divisa rossa, che incrocia sul suo vigoroso cammino calcistico qatariota, la Francia, acquista un sapore ultra sportivo. Lo evidenziano non solo la naturale esultanza ancora sul terreno di gioco dei protagonisti dell’impresa di eliminare il Portogallo, dall’En-Nesyri che ruba aria e palla al portiere lusitano al Boufal danzante con la mamma in kaftano, e tutte le feste di casa. Ma ancor più forte lo grida l’enorme comunità migrante insediata in Europa. Le seconde e terze generazioni diventate un milione e mezzo in Francia, settecentomila in Spagna, mezzo milione in Italia. E via andare dove ti porta il lavoro. Anche quello calcistico, che definire lavoro è un lussuoso eufemismo persino per chi arriva in alto come i calciatori di questa nazionale maghrebina entrata nella storia d’uno sport considerato europeocentrico, pur quando strabilia grazie alle formazioni latinoamericane. I datori di lavoro di metà dei “rossi” hanno le griffe del Siviglia, Paris Saint-Germain, Standard Liegi, Ajax, Bayern Monaco, Fiorentina, le squadre del football miliardario con ingaggi certamente più floridi del Wydad Casablanca. Offrono, a chi è bravo e fortunato, la gloria degli stadi e dei conti bancari. E si nutrono di qualità atletiche e tecniche della generazione che sa trattare il pallone come e più dei padroni del pallone. La sfida ora in programma per la gloria che il coach del miracolo, Walid Regragui, dice si possa raggiungere sollevando addirittura Coppa dorata, è quasi un derby. Sicuramente lo è per lui nativo di Corbeil-Essonnes, che lancia la carica del manipolo di giocatori franco-ispano-belgio-italico-marocchini che hanno respirato più smog europeo che brezza dei ribat

 

Nella disputa, del colore oltre che del pallone, i “blues“ rispondono con l’integrazione dei Mbappé e dei Pogba, origini camerunensi e guineane, ma una vita parigina, al più torinese per il centrocampista. L’idea post-coloniale che dà la nazionale francese è la multietnìa dello sport, cui non necessariamente segue un’idea altrettanto unitaria e comunitaria. Tale è il sentore di banlieue periodicamente incendiarie e di quella distanza sociale vissuta tuttora dai giovani che non godono del beneficio milionario del pallone. Nel calcio che unisce e in quello che divide di queste giornate d’ardore agonistico si può godere del funanbolismo gestuale, dell’azione fulminante, della rivalsa sul passato coloniale che portava in guerra trisavoli e nonni, all’estero padri e fratelli, e giustamente festeggiare per ulteriori successi. Perché i calciatori africani possono puntare alla medaglia d’oro come da tempo fanno i propri colleghi dell’atletica. Chiunque vincerà non dovrebbe dimenticare africani e asiatici crepati sotto il sole dei preparativi mondiali (6.700 è l’orripilante conteggio del britannico Guardian), né gli scandali tangentizi di politici (Socialisti europei) che vantavano il buon governo dell’emiro al-Thani nientemeno che nei diritti dei lavoratori stranieri. Si può, anzi si deve, tenere a mente quel ‘colonialismo di ritorno’ che non rende libero il Marocco del sovrano Muhammad VI. “Modernizzatore” come viene ricordato per aperture riformiste sul versante religioso, di diritto di famiglia e di genere. Ma quella pulizia politica promessa sin dall’insediamento nel 1999 s’è basata più su un contenimento del ruolo assillante di polizia ed esercito che di effettiva trasparenza. Al di l’ha di cooptare un po’ tutti i partiti (conservatori, islamisti, socialdemocratici) nei governi che si sono succeduti da un ventennio, il re del Marocco ha sempre pensato esclusivamente ad arricchirsi. Come papà Hasan II del resto.

 

Due miliardi di dollari veniva conteggiato il suo patrimonio nel 2019, sua la holdin Al Mada, ex Omnium Nord-Africain creata negli anni Trenta da BNP Paribas e rivenduta alla famiglia reale. Come favore? Nient’affatto. E’ grazie ai rimbalzi finanziari che favoriscono sovrano, parenti e tycoon locali che multinazionali come la francese Veolia continuano a sfruttare l’antico protettorato. Così l’holding reale sotto la bandiera rossofuoco incamera valuta pregiata attraverso servizi bancari e assicurativi, edilizia ed equipaggiamento cantieristico, metallurgia, miniere, alimentari, turismo, telecomunicazioni. Che la rendono una piccola Veolia, perché alcuni degli affari citati rientrano fra gli interessi della società transalpina, di per sé un gigante nella gestione di acqua (trattamento e distribuzione), rifiuti (raccolta, riciclaggio, smaltimento), energia (produzione e servizi accessori), trasporti (ferrovie ordinarie e veloci). E’ utile precisare che il “libero” Marocco gestisce i suddetti servizi tramite la blue Veolia. La quale offre lavoro ai sudditi del re esclusivamente nei ruoli manuali. Così i giovani ingegneri di casa devono cercar fortuna nelle vecchie nazioni coloniali, perché se la vita in Marocco è meno nera di tanta altra Africa, i ghetti di Casablanca, dove il credo jihadista cerca reclutamento, non sono affatto scomparsi. E non sono  scomparse la subordinazione sociale e nazionale. Le Salwa Idriss, l’emancipata consorte dell’attuale premier, imprenditrice lei (di belletti, cosmetici e merce lussuosa recita il curriculum d’una lanciatissima carriera), affarista lui diventato primo ministro grazie al ruolo di ceo dell’Akwa Group (gas, telecomunicazioni, turismo) danno un volto falsato del Paese. E soprattutto d’un popolo che ha ricevuto poco dal sistema e può sognare soltanto un posto al sole nel pallone.  

venerdì 9 dicembre 2022

Iran, il trionfo della morte

 

Se il potere della Repubblica islamica iraniana s’oscura a tal punto da decretare il trionfo della morte come condizione necessaria per la propria esistenza, quel potere potrebbe aver intonato il suo canto funebre. Un canto che, purtroppo, rischia di tracciare una via di sangue più lunga e copiosa delle vittime di tre mesi di repressione, anche per l’uso della violenza di Stato tramite pena di morte. Quella che ha eliminato Mohsen Shekari, reo di aver pugnalato alle spalle un basij, senza però ucciderlo. Il concetto applicato riguarda non l’effetto ma il presupposto, la ‘lesa maestà’, se la stessa condanna capitale sfiora Fahimeh Karimi, accusata d’aver sferrato un calcio (sic) a un agente. Egualmente rischiano la forca giovani, anche minorenni, mobilitati settimana dopo settimana, a urlare e pure a incendiare. Qualcuno a uccidere. Dei duecento o quattrocento martiri nei tumulti, le forze dell’odine lamentano trenta decessi fra poliziotti e paramilitari, quelli che con moto, caschi integrali, manganelli, taser e armi proprie hanno arrestato, pestato, ammazzato manifestanti. Punendoli, come affermano testimonianze raccolte da Human Rights Watch, con fucili ad aria compressa per privarli della vista e creargli menomazioni fisiche. Lo scontro di strada, impari, fra chi impugna le armi negli apparati del regime, e chi s’arrangia come può, non ha conosciuto finora le conseguenze estreme. Quella guerra civile, palese e latente, che i mesi successivi alla conquista del potere della rivolta anti-Shah avviarono e accrebbero. Da lì è nata la generazione adepta del khomeinismo e delle sue derive ideologico-teologiche, cementate da terribili conflittualità interne, guerre esterne, stabilizzazione nell’instabilità internazionale che si è tirata addosso chi ha voluto e sostenuto questa rivoluzione antiamericana e antimperialista. 

 


Da quegli iraniani che hanno fatto della militanza un corpo, i Guardiani della Rivoluzione, capace di vivere senza timore delle conseguenze del proprio corpo, né di gettare sangue come nel rito dell’Ashura, scaturisce non solo un modello, secondo i punti di vista, di coerenza o fanatismo, ma una realtà radicata nel presente politico, parzialmente teologico e molto più di potere economico, personale e d’élite. Fior d’intellettuali sostengono che è in corso una lotta esistenziale fra i conservatori della tradizione dell’ultimo quarantennio del Paese che fu un impero esso stesso, e la nuova gioventù che fa dell’arte, dell’espressività, dei diritti di genere e non solo, la ragione di vita. Chi è di casa in Iran e non lo legge esclusivamente con l’occhio dissidente esterno, racconta anche il fascino per un mercato non tanto dei bazari, ma di quella stessa mercanzia, tecnologica e non, che l’Occidente nega coi suoi embarghi. Fascino non certo peccaminoso, perché così fan tutti al mondo. Però questa nazione è mantenuta ai margini del mondo per volere degli ayatollah e dei loro nemici. A farne le spese una maggioranza di persone vessata finanziariamente, i giovani più dei padri, le ragazze il doppio in quanto giovani e come donne, ben poco amate da qualunque potere, non solo talebano. Se, come afferma un’arrestata: “non potranno ucciderci tutte” e se addirittura Badri Hosseini Khamenei, si dice “vicina a tutte le madri che piangono i crimini commessi dal regime”, e lontana, lontanissima dall’autorità del fratello che da trent’anni decreta quel che è giusto e consono fare secondo la legge islamica, il futuro è delle piazze ribelli. Ma potranno i basij scegliere di baciare le proprie donne, normalmente, in pubblico? Potranno i pasdaran rinunciare al potere che incarnano come e più della Guida Suprema? Se tale svolta di riconversione e avvicinamento fra i due volti dell’Iran, che poi ne ha assai di più, non avverrà presto, la strada dello scontro civile e incivile prenderà  piede. Con quello che si vede altrove può diventare lungo e sanguinosissimo, in attesa del trapasso umano di Khamenei, della fuga dei vertici del regime (a Caracas?), d’un futuro che se dovesse somigliare al passato potrebbe trovare volti altrettanto insanguinati dei nostalgici di dinastie e della Savak.

giovedì 8 dicembre 2022

Bharatiya indiano, mani su città e campagna

E’ come se avesse votato l’Italia intera, sebbene il Gujarat non sia uno Stato ciclope fra quelli federati indiani. Dei suoi sessantuno milioni di abitanti si è recato alle urne - dal 1° al 5 dicembre - il 66% dell’elettorato, contro il 71% della tornata 2017. Ma questo che geograficamente è il più occidentale territorio indiano affacciato sul Mar Arabico, a ridosso del confine pakistano e non lontano dalla città simbolo dell’investimento della ‘via della seta marina’ - la Karachi adottata dalle compagnie navali cinesi come proprio hub portuale contro Mumbai, Mormugao e ogni velleità del gigante indiano - resta pur sempre un simbolo pregiato. Non solo per curiosità di sopravvivenza animale, come i suoi leoni fuori dall’Africa, ma per storia, luoghi di culto, legame col Novecento che ha segnato la nascita dell’India indipendente, visto che il Mahatma Gandhi operò nella regione fra il 1917 e il 1930. Così il gruppo di potere che sta caratterizzando l’India attuale col governativo Bharatiya Janata Party ha puntato molto su quest’elezione che sta vincendo sui concorrenti Indian National Congress e Aam Aadmi Party. I risultati, ancora parziali, conferiscono al primo 79 seggi, 9 al secondo 2 al terzo. Le proiezioni dicono che il partito hindu può raggiungere i 150 seggi, il Congress 51, l’Aadmi 13. Così il partito di Modi, che già guidava il Gujarat col premier Bhupendrabhai Patel, ribadisce un ampio controllo dei ventotto Stati federali (ne ha in mano sedici), quelli popolosissimi governati in prima persona (Uttar Pradesh, Maharashtra, Madhya Pradesh) oppure condizionati da fanatici alleati sostenitori dell’hindutva.  Su tali orientamenti razzisti i leader arancioni non solo s’adagiano ma da tempo sono diventati infuocati divulgatori con ogni mezzo, dal proclama oratorio, al sermone religioso, al jingle musicale, al programma televisivo. Nella campagna elettorale in Gujarat il partito del Congresso ha puntato su questioni sociali, sulle condizioni di Dalit e Adivasi, cioè gli oppressi e gli autoctoni, mentre i candidati dell’AAP, pur cercando di sollevare questioni irrisolte su salute e lavoro, hanno deciso di sfidare i colleghi del BJP sui temi del nazionalismo da opporre ai nemici storici pakistani e a quelli economici cinesi. I politici del Bharatiya hanno raccolto il richiamo portandolo sul terreno più congeniale in un territorio all’89% abitato da hindu: la religione. L’utilizzo che la formazione guidata da Modi fa del credo hindu, non ha rivali perché va a cercare rivali da combattere in qualsiasi entità collettiva (gruppo, partito, associazione) e anche singoli cittadini nei propri ruoli sociali, professionali, culturali. Per loro l’unico modello accettabile in India è l’induismo. Una tattica che omologa e massifica, e paga politicamente. L’indiano adulto s’offre fiducioso a tali raccomandazioni paterne, egualmente il giovane desideroso di menar le mani, trovare un capro espiatorio (musulmani, cristiani, poveri, stranieri, diversi d’ogni genere) e sfogare frustrazioni di carattere strutturale (disoccupazione, emarginazione, povertà di ritorno) è pronto a spargere sangue. Dopo la mobilitazione si prega Shiva e ci si purifica.