lunedì 24 luglio 2023

Egittto, i dannati del benefattore al-Sisi

 


Sono nomi noti, alcuni notissimi ai membri della National Security Agency ancor più che agli attivisti dei diritti che provano a difenderli, quelli dei perseguitati egiziani tuttora rinchiusi nelle patrie galere. Ma ci sono anche sconosciuti, detenuti o deportati in luoghi reconditi da cui non possono comunicare né condizione giuridica né stato di salute. Oltre ad Alaa Abdel Fattah - che resta in cella, mentre il suo avvocato Mohamed al-Baqer s’è visto graziato dal presidente al-Sisi insieme a Patrick Zaki, e Ahmed Douma, represso da tre presidenti: Mubarak nel 2009, Morsi nel 2012, Sisi dal 2013 – ci sono altri Ahmed, Orabi e Gika. Anche loro sarebbero felici di festeggiare con familiari e amici la fine d’un incubo, come ha fatto il ricercatore di Mansoura prima di volare in Italia per l’abbraccio collettivo con l’Università Alma Mater e la città di Bologna. Eppure Gika, arrestato in più occasioni è torturato anche sessualmente, è sparito da una quarantina di giorni. Orabi è detenuto ormai da nove mesi. Anche lui ha subìto torture, una frattura a un braccio, la cui scarsità di cure potrebbe lasciargli il segno come gli accadde nel 2011 durante la rivolta prima contro Mubarak, quindi contro il Consiglio Superiore delle Forze Armate del feldmaresciallo Tantawi. Già all’epoca “l’Esercito del popolo” sparava nel mucchio uccidendo e menomando. Orabi perse un occhio a conferma della buona mira dei cecchini che il regime piazzava nei punti caldi della capitale, quando cortei, presidi, sit-in avevano ancora luogo, ovviamente a tutto rischio di chi partecipava. Negli anni seguenti tutto questo è scomparso. Diventato presidente il generale al-Sisi ha curato di persona la via del controllo sociale e politico, imponendo l’impraticabilità della piazza, dove un raduno di più di tre persone è bollato come atto di sovversione; l’incontro anche in luoghi chiusi è un’anticamera di terrorismo; la libera informazione viene marchiata di attentato alla sicurezza nazionale; l’espressione di pensiero in pubblico, oppure via web o social egualmente considerato un crimine contro la nazione. 

 

E’ il clima che lo stesso Patrick Zaki ha personalmente conosciuto nel suo triennale calvario dentro e fuori le prigioni di Stato. E’ il motivo per cui nella sua prima uscita internazionale a Bologna s’è presentato senza mezze misure come attivista dei diritti, una scelta voluta davanti a un presente forzato dall’accordo di vertice italo-egiziano. Il ringraziamento all’Esecutivo Meloni, autore del favorevole passo diplomatico, l’ha compiuto espressamente rifiutando, però, la cooptazione rituale con volo ufficiale-abbracci-foto ricordo proposte dal governo italiano. Probabilmente perché il sospetto di tanti riguardo al baratto compiuto: liberazione in cambio di affari e pietra tombale sull’omicidio Regeni, frulla anche nella testa dell’attivista Zaki. Non prestarsi a vicinanze politiche, né in Egitto né in Italia o altrove, gli consentirà d’indirizzare la sua coscienza e il suo cuore verso la causa, in buona parte comune, con chi sta lottando - dentro e fuori i confini nazionali, dentro e fuori le obbrobriose galere - contro una dittatura spietata, mascherata di buonismo ipocrita. Le prime mosse di quello che attualmente è un giovane uomo baciato dalla “fortuna” della diplomazia geopolitica, guardano ai fratelli prigionieri che non hanno alle spalle un garante di peso. Sostenuti solo dall’affetto parentale, dalla solidarietà di amici e compagni di sventurata lotta, da nuclei comunque circoscritti di libera informazione e di quell’altra tipologia perseguitata che sono gli attivisti dei diritti. Zaki sceglie da che parte stare, e la cosa fa onore alla propria passione e alla propria intelligenza. Se ai governi democratici e partecipativi d’Occidente e Oriente interessa tenere alta la bandiera d’una Giustizia con la maiuscola, dovranno lodare Patrick e coadiuvarne l’attività presente e futura. Affinché chi soffre dell’altra faccia della bontà di al-Sisi, quella che scivola nella malvagità e nel crimine, possa finalmente essere liberato.  


 


 

giovedì 20 luglio 2023

Sisi grazia il ‘colpevole’ Zaki

 


Mentre Patrick Zaki, familiari, amici e la società civile a suo sostegno gioiscono per una concessione di grazia che taglia l’incubo d’una condanna ad altri quattordici mesi di galera, in aggiunta a quelli già scontati, la sua posizione per la Corte Suprema egiziana resta quella d’un condannato. Il futuro di Patrick sarà fuori dalle terribili prigioni che ha conosciuto, ma probabilmente fuori dal suo Paese che marchia dissidenti e dubbiosi impedendo loro di raccontare quel che si vive e si vede da anni. Oppure resterà ostaggio della sua libertà a Mansoura, silenziato dalla benevolenza d’un presidente che gli ha restituito il sorriso e la vita. La vicenda e gli sviluppi favorevoli al ricercatore e anche a Mohamed al-Baqer, avvocato del noto dissidente Alaa Abdel Fattah, diventano la conseguenza di quei rapporti diplomatici fra la presidenza egiziana e il nostro Paese che da anni attraversano momenti di crisi acuta senza sciogliere nodi scorsoi. Innanzitutto sul delitto di Giulio Regeni, la macchia purulenta che il regime egiziano non vuole sanare consegnando alla giustizia italiana i responsabili del sequestro dello studioso di Funiciello, assassinato da quei “servitori dello Sato” dopo giorni di torture. Dal gennaio 2016, dopo aver inscenato vergognosi depistaggi, le massime autorità locali, con presidente e ministri dell’Interno e degli Esteri in testa, hanno evitato di attivare la giustizia interna, di collaborare coi magistrati della procura di Roma che indaga sul crimine, fino a boicottare la convocazione degli imputati considerati irraggiungibili per “domicilio sconosciuto” agli stessi apparati ai quali appartengono. Un’ignominiosa farsa che gli esecutivi italiani passati hanno subìto e in buona parte accettato evitando gesti perentori come la chiusura della propria ambasciata, perché secondo taluni decaloghi diplomatici non è bene giungere a rotture.

 


Di fatto il realismo politico guardava alla concretezza dei nostri affari che hanno sulla sponda meridionale del Mediterraneo una sacca d’interessi nei giacimenti metaniferi Zohr, cui Eni offre la tecnologia per il pompaggio, e commesse d’armi sempre ad alta tecnologia, frutto dell’eccellenza di aziende di punta del “Mady in Italy” come Leonardo e Finmeccanica, che vendono fregate e sistemi di puntamento elettronici agli amici del Cairo. Un intreccio non di soli interessi economici. Perché il governo forte dell’uomo forte che ha salvato la nazione dal pericolo della Fratellanza Musulmana, uccidendone e arrestandone un’infinità di attivisti, si propone nel duplice ruolo di supervisore della sicurezza e grand commis dell’area mediorientale travagliata da decenni di vicende geopolitiche che sono tuttora una miccia sempre accesa. Sisi è uno dei raìs, legittimato da quel che accade dentro e fuori il suo Paese, cui guardano gli ex guardiani europei da decenni votati al colonialismo di ritorno. Un sistema che ha continuato a opprimere la gente comune, impedire una vera emancipazione economica autoctona, stabilire relazioni orizzontali e paritarie fra cittadini e diritti conclamati. L’intera fascia nord-africana vive fra situazioni congelate come quelle di Marocco e Algeria, con monarchie élitarie e una falsa democrazia a tutto svantaggio di lavoratori e ceti sfruttati da capitali esteri, nazioni destabilizzate come la Tunisia, implose come la Libia, oppresse qual è l’Egitto. Tutte tendenzialmente povere nonostante varie risorse, caparbiamente bloccate dalla mancata redistribuzione di talune ricchezze. Ovunque i supervisori politici locali devono favorire lo sfruttamento di manodopera per le furbizie degli investitori stranieri e garantire con la propria disponibilità il controllo securitario per l’angoscia che affligge la Fortezza Europa: la migrazione. 

 

Nei colloqui col presidente Sisi, che l’attuale premier italiana Meloni rivendica risolutivi per la grazia a Zaki, ci sarà sicuramente la non ufficializzata acquiescenza su quel che al generale egiziano preme di più: chiudere definitivamente le richieste di verità sull’omicidio Regeni. Un’istanza cui il Cairo tiene al pari se non più degli arrivi di derrate alimentari e armi. Quest’ultime servono a tenere sotto controllo la popolazione, la prima a tranquillizzare gli apparati dei mukhabarat puntello del regime. Per Sisi toccare i suoi scherani vuol dire immolare se stesso. Ma la richiesta d’oblìo su Regeni, che probabilmente è alla base della trattativa, è irricevibile per ogni sincero democratico e dovrebbe esserlo anche per l’attuale governo se vuole davvero mantenere quella linea irreprensibile su diritti e giustizia che rivendica. Eppure il dado è tratto. Se non sapremo dalla viva esternazione della nostra premier i risvolti che portano Zaki in Italia per festeggiamenti che lui merita, quanto seguirà nei giorni e nei mesi farà comprendere l’entità dell’accordo, giocato più da Sisi che dai politici nostrani. Lui ha sentenziato che Patrick è colpevole però beneficia della bontà presidenziale. Gli interlocutori romani che hanno abbracciato la causa del ricercatore ora devono abbracciare i desideri del benefattore cairota. L’abbraccio è mortifero. Non vorremmo constatare che le nostre Istituzioni chineranno il capo dimenticando lo strazio di Giulio Regeni.  Non vorremmo che le medesime, pronte a sostenere i diritti violati in tante parti del mondo, tralasciassero le vicende di quel ‘Paese amico’ che fino a ieri ha perseguitato Zaki per aver solidarizzato con un avvocato rinchiuso in gabbia e raccontato la triste sorte dei fratelli copti finiti sotto le grinfie poliziesche. Se la diplomazia ha regole proprie basate pure su scambi e baratti, la morale politica impone quella dignità che svanisce quando ai necessari contatti si sostituiscono contiguità untuose.

martedì 18 luglio 2023

La trappola per Zaki

 


L’infinita trappola per Zaki giunge al capolinea: tre anni di condanna, inappellabile, dopo tre anni e mezzo di persecuzioni. Così lo studente-ricercatore Patrick, egiziano di Mansour col cuore universitario all’Alma Mater di Bologna, già rinchiuso per parecchi mesi nelle patrie galere, dovrà ora scontare la restante pena. La trappola era scattata il 7 febbraio 2020 mentre il mondo s’accorgeva della pandemia di Covid-19. L’attacco virale alla sua libertà avvenne all’aeroporto del Cairo per opera degli zelantissimi Servizi segreti del presidente-generale Al Sisi. I mukhabarat lo sequestrarono, e questo già fece tremare i polsi a familiari e amici perché per un giorno nessuno seppe nulla della sua sorte. Come finiscono i sequestrati nell’Egitto militarizzato è noto al mondo intero, dunque la tensione era a mille. Poi il giovane apparve in un commissariato, l’accusavano di minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento alle proteste illegali, terrorismo, falsa propaganda. Tutto per aver pubblicato sul personale profilo Facebook pensieri a sostegno di chi, come l’avvocato Khaled Ali dal 2018 è impegnato nella difesa dei diritti umani. In quel periodo gli oppositori e i semplici commentatori della spietata repressione di regime, illustri o sconosciuti che fossero, finivano serrati nelle carceri speciali. Ong come Human Rights Watch ne contavano oltre sessantamila, per tacere delle migliaia di scomparsi, cittadini di cui dal luglio 2013 (l’anno del golpe-bianco di Al Sisi e amici), non s’è saputo più nulla. Nel 2020 al ventinovenne Zaki, figlio d’una famiglia borghese di Mansour di religione copta, andò di lusso, si ritrovò in prigione in attesa di processo, sebbene il suo avvocato avesse denunciato torture seguite al fermo. I primi interrogatori polizieschi ventilavano anche presunti legami con Giulio Regeni, cosa che incuteva ampi timori, visto il trattamento criminale riservato al ricercatore friulano.

Presto si comprese che i vertici politici e la magistratura d’Egitto sperimentavano nuovi trattamenti per gli accusati (Patrick non è stato il solo): una sorta di processo infinito, costellato di ‘stop and go’ come in certe gare sportive, con la differenza che il detenuto trascorreva non qualche minuto a bordo pista, ma settimane in fetide e sovraffollate celle di carceri speciali come il famigerati istituto cairota di Tora. Lì è morto per crisi cardiaca non curata l’ex presidente Morsi, lì è ingabbiato il Gotha della Fratellanza Musulmana, arrestato fra il golpe di luglio e la strage d’agosto 2013 nella moschea di Rabaa. Lì è finito pure Zaki fra il 2020 e 2021. Lui e i suoi legali conoscevano le convocazioni a ridosso delle udienze, talvolta neppure un’ora prima, a tal punto che in qualche circostanza l’avvocato non faceva in tempo a raggiungere la Corte perché questa chiudeva la rapidamente la sessione con un rinvio. Di quaranta-cinquanta giorni in quaranta-cinquanta giorni. Così per mesi. Per tre anni. Era ovviamente una tattica per stressare il detenuto, deteriorarne le condizioni fisica e psichica, gli attivisti a suo sostegno facevano notare la situazione, sua e dei compagni di cella: fino a venti presenze in quattro metri quadrati, dormendo a turno su sei materassi sfondati gettati su pavimenti fradici, infestati da blatte, con una latrina che tracimava… Oggettivamente un Inferno. Eppure, per voce di chi segue il disperante contesto carcerario creato dal regime di Al Sisi, che ripercorre superandolo il modello repressivo del raìs Mubarak, questo tipo di detenzione non è delle peggiori. Crea un naturale logorio fatto di disagio per claustrofobia, sovraffollamento, rischio d’infezioni per la promiscuità e la scarsa nutrizione. Tant’è che durante i due anni acuti di Sars-CoV, si sono registrati un’infinità di contagi e tanti decessi di persone infette anche in giovane età.

Ma è esentato dalla visita di certe “squadrette” che, con le buone o le cattive, ti conducono in celle ancor più speciali, dove usano fili elettrici e batterie d’auto vecchie ma buone per sfibrarti ogni parte del corpo, e poi sacchetti di sabbia con cui percuoterti mentre penzoli dal soffitto oppure sei predisposto nella cosiddetta “posizione del pollo”.  E’ la scuola con cui la Cia ha formato i mukhabarat per le altrettanto famigerate Extraordinary expedition, roba che la Strafexpedition del Primo conflitto mondiale, gas e mazze di ferro sul nemico, risulta una pratica dilettantesca. Insomma nella vicenda Zaki, che comunque mese dopo mese assumeva, buon per lui, un discreto impatto mediatico rispetto ai casi di detenzioni misconosciute o dimenticate, i magistrati hanno lavorato più dei carcerieri, posticipando all’infinito la sentenza. Entravano in scena, seppure molto marginalmente, i rapporti politici fra Roma e Il Cairo, perché il ricercatore di Mansour oltre a essere adottato dalla comunità accademica e dall’amministrazione bolognese, diventava per il nostro Paese un caso di coscienza per lenire la sindrome da abbandono mostrata dalle Istituzioni nazionali verso il delitto Regeni. E’ palese come per Giulio solo familiari, amici, attivisti, una minoranza giornalistica e un paio di procuratori della Repubblica abbiano sostenuto le richieste di verità e giustizia davanti al governo egiziano totalmente refrattario a qualsiasi collaborazione. Chi sedeva a Palazzo Chigi dal 2016 e chi ci siede oggi, ha sempre evitato di palesare lo sconcerto su simili vicende, interrompendo i rapporti col grande Paese arabo al fine di salvaguardare meri interessi mercantili. Omertà in cambio di gas. Che è poi l’andamento diffuso nel ceto politico mondiale che blatera di diritti umani secondo interessi parziali e momentanei, creando pesi e misure assolutamente squilibrati, come lo sono le valutazioni su autoritarismi e guerre. E intrappolando, non solo giovani volitivi e coraggiosi come Patrick, ma quel sistema democratico esaltato e reclamato a parole, mentre si sorride e s’abbracciano i carcerieri e satrapi di mezzo mondo. 

pubblicato su Confronti online

lunedì 17 luglio 2023

Memorandum Ue-Tunisia, il quadrilatero delle promesse senza sbocchi

 


Duecentocinquantacinque milioni di euro (150 per il bilancio statale, 105 per il controllo delle frontiere, compito arduo e non gradito) è l’anticipo con cui il terzetto europeista Von der Layen-Rutte-Meloni ha barattato col presidente tunisino Saïed quanto non era riuscito a ottenere a giugno. La solenne firma nel Palazzo di Cartagine viene definita ‘Memorandum Ue-Tunisia’. E’ l’anticipo dell’aiutino del vecchio continente al dirimpettaio dolente, che se non rappresenta proprio uno Stato fallito come la Libia, è quel fantasma che nel primo semestre dell’anno ha prodotto il doppio di migranti clandestini di Tripoli: settantacinquemila. E rappresenta un grosso problema per la Fortezza Europa che non vuole africani, sub-sahariani o maghrebini che siano. Altri settecento milioni di euro arriveranno se davvero Saïed, che migranti e poveri li odia quanto i premier olandese e italiano, non li metterà in mare. Lui a giugno faceva orecchi da mercante: si trovava in sintonìa con gli interlocutori in fatto d’invasione etnica (quella tunisina sarebbe minacciata dai centroafricani), ma non accettava il ruolo di guardiano delle coste. Ora le due tranches monetarie europee dovrebbero convincerlo del contrario. Sebbene il grosso della cifra Ue è legata alla promessa d’introduzione di riforme economiche e sociali, quelle che chiede a mister ‘RoboCop’ anche il Fondo Monetario Internazionale che di denari ne darebbe il doppio (1,9 milioni di dollari) finora bloccati dalla ritrosia del presidente-padrone capace di condizionare il suo governo classista. Fra le due, anzi tre Tunisie esistenti, il ceto politico ora cortigiano di Saïed - come lo fu di Essebsi e di Ben Ali - sta con la lobby degli affari, che i capitali stranieri (in realtà sempre più ridotti) lancia sul fronte turistico di Hammamet e dintorni. L’impresa produttiva manifatturiera è ridotta al lumicino, quella estrattiva sopravvive a solo vantaggio delle multinazionali che pagano dazio ai faccendieri interni in un cortocircuito di vantaggi personali. Resiste l’agricoltura soprattutto dell’ulivo, ma non per redistribuire ricchezza a chi mette scarponi sulla terra e mani sulle fronde. Gli imprenditori agricoli, anche italiani che investono oltre il Canale di Sicilia, lo fanno per risparmiare sulla manodopera. 

 

L’affermano loro stessi senza remore: si sta qui perché conviene tantissimo: braccianti super sfruttati, controlli zero su orario di lavoro, paghe e sulla stessa filiera produttiva che, ad esempio per l’olio tunisino, vuol dire attaccare l’eccellenza italiana dell’extra vergine che si potrebbe definire stellato. Comunque non è il solo e questo lo decide il Parlamento di Bruxelles, non il Palazzo di Cartagine. Allora si potrebbe domandare alla madrina del “made in Italy”  Giorgia Meloni se simili pensierini gli frullano per la testa quando aderisce ai partenariati con un governo-pirata. Probabilmente risponderà d’essere in ballo per altro. Che è il lucchetto con cui si vogliono chiudere le rotte da Sfax e dintorni verso Lampedusa, la Von der Layen è lì per onor di firma e Rutte per solidarietà respingente con l’omologa romana. Il Memorandum di lor signori pensa ben poco alla seconda Tunisia, quella che rischierà la fame se non si rinnova l’accordo sulla distribuzione del grano ucraino e russo scaduto oggi. Proprio come un anno fa e la faccenda s’estende a tutto il Nord-africa e Medioriente. Un gran numero di tunisini, impoveriti già da tempo, temono la totale disoccupazione, e arrangiarsi coi turisti, in ogni modo anche fuori dai circuiti legali e morali, non potrà  essere una soluzione generalizzata. Come non lo è sfruttare la disperazione dei migranti o organizzarne la tratta. La terza Tunisia poi sta nell’inferno. Negli stazionamenti, ora all’aria aperto, negli angiporti, fra fronde e sterpi, in attesa del salto di quello che non è più “il gioco” bensì il “il giogo” e il cappio con cui si ritrovano stritolati e affogati. Questa terza Tunisia, impropria perché fatta da fratelli non tunisini, neri e perciò disconosciuti come uomini dal razzismo del locale presidente, non riceverà nulla dei milioni o miliardi promessi. Il triangolo Bruxelles-L’Aja-Roma, divenuto un quadrilatero con Tunisi, mira a condividere sulle due sponde del Mediterraneo, quello ricco e quello povero fino al profondo nord dell’Europa, solo il desiderio di potere, per lanciare sulla pelle dei cittadini un sistema classista e di esclusione dei più deboli. Le maschere possono essere varie: dall’immancabile business delle rinnovabili, alle promesse di piani Erasmus per gli studenti locali. Basta crederci. 
 


martedì 11 luglio 2023

Erdoğan: apertura sulla Nato e rilancio per la Ue

 


E’ negli odierni passi internazionali, preparati nei successivi cinquanta giorni da una conferma presidenziale nient’affatto scontata, che Recep Tayyip Erdoğan mostra alla nazione turca prima che al mondo la bontà della scelta elettorale. Cosa avrebbe fatto al suo posto il candidato Kemal Kılıçdaroğlu? Non solo niente di più riguardo a Nato e Alleanza Atlantica, ma molto meno sul fronte decisionista perché il suo peso, non ponderale bensì politico, sarebbe stato quasi inesistente. Kılıçdaroğlu chi? avrebbe chiesto più d’un capo di Stato riunito oggi a Vilnius, e non per spocchia o mancanza di rispetto. Messo così il confronto a posteriori fra i due pretendenti alla 14^ presidenza della Turchia moderna sembra impari e fin troppo scontato, fra l’altro indicherebbe la via obbligata a uno status quo, impossibilitato a cambiamenti. Però nella testa dei turchi fedeli a quanto finora visto e al più dubbiosi sul presente e futuro riguardo a inflazione ed economia, dev’essere prevalso il realismo politico che fa del Paese ponte fra Oriente e Occidente un elemento indispensabile per una geopolitica ingarbugliata ma interconnessa. Chi vorrà sostituire Erdoğan alla guida, oltre a risultare strutturato per varie soluzioni politiche, dovrà conquistarsi un pari appeal globale per capacità e furbizie diplomatiche e relazionali. Non è affatto il panegirico del Sultano. E’ una visuale aperta sul ruolo che talune nazioni e chi le guida possono avere nel mondo, non contro il mondo. In tal senso Erdoğan è un autocrate che riesce a parlare al suoi e ad altri popoli, anche a quelli che non lo amano. Come gli svedesi aperti, finora all’accoglienza di migranti e rifugiati, ed esposti alle ire del leader turco per la loro bontà verso gli attivisti kurdi, e per questo puniti col diniego all’adesione di Stoccolma alla Nato. La Turchia, tuttora membro fondamentale dell’Alleanza bellica nel Mediterraneo e non solo, poneva il veto, che è previsto dal regolamento.

 

Il cambio d’opinione e il via libera sancito con calorose strette di mano fra Erdoğan e il premier scandinavo Kristersson, davanti a un finalmente rassicurato Stöltenberg, si porta dietro il rilancio di riapertura del capitolo di ammissione della Turchia nella Ue, bloccato da oltre un decennio, dunque ben prima del riacceso conflitto interno coi kurdi e la generalizzata ondata repressiva. Era, e probabilmente continua a essere, la Germania a ostracizzare l’ingresso turco nell’Unione, magari supportata dalla Francia, ben oltre i voleri dell’ex cancelliera Merkel e dell’attuale presidente Macron. Non è assolutamente un segreto che il binomio franco-tedesco abbia da trent’anni la regìa degli orientamenti dell’Unione Europea e che Ankara coi suoi 83 milioni di abitanti, un’intraprendenza imprenditoriale e un’invidiabile capacità produttiva, una volontà di protagonismo non solo politico, rappresenti un elemento di disturbo per l’asse Berlino-Parigi. Certo, la Turchia a trazione erdoğaniana è anche una variabile con poco controllo da parte del grande suggeritore della politica Ue che è la Casa Bianca, e meno timore dovrebbe destare per la crisi economica che l’attanaglia dai tempi del Covid, ma non causata dalla pandemia. L’Erdoğan che ricopre dal 3 giugno scorso il secondo mandato presidenzialista ha già rivisto le follìe finanziarie contestategli da economisti in casa e all’estero. Ha risposato l’ortodossia monetaria da cui s’era allontanato e ha predisposto un rialzo dei tassi d’interesse (dall’8.5% al 15%). Ora l’inflazione scenderà, aumenteranno i prezzi delle merci, ma la lira limiterà le copiose svalutazioni dell’ultimo triennio. L’equilibrio economico resta un fattore di rischio, i ceti medi tenderanno a spendere meno e questo può incrinare la popolarità delle promesse elettorali del presidente, che per limitare la disoccupazione deve sperare in un afflato d’investimenti da parte di aziende estere, cui garantisce forzatamente sicurezza e pace sociale. L’attrattiva poi dipende dalle stesse relazioni mondiali che passano per la Nato, per le trattative sulla pace in Ucraina, per la soluzione di crisi alimentari come l’accordo per l’esportazione dei cereali dei campi dell’Est. Comunque nel “Casinò mondiale” Erdoğan tiene il banco, più di Biden, Putin, Xi.

lunedì 10 luglio 2023

“Non siamo animali, siamo esseri umani”

 


Fra il dire: L’Unione Europea si fonda sui valori indivisibili e universali della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e della solidarietà” secondo quanto afferma la Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, e il suo fare: limitazione o blocco delle accoglienze nei 27 Paesi membri, col diniego di Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Austria, e la voglia d’isolamento e muri di Estonia, Lettonia, Lituania, Bulgaria, Grecia, Danimarca, Cipro, passa tutta l’incongruenza dell’organismo presentato come l’Eden occidentale. Perché se da una parte le nazioni seguono gli orientamenti politici interni e le rappresentanze spedite al Parlamento d’Europa è comunque insostenibile che quella parte del mondo che un secolo fa conobbe ignobili dittature responsabili del più feroce conflitto della Storia, delle persecuzioni razziali, della Shoa, possa offrire spazi a tendenze politiche e comportamenti che rilanciano apartheid, esclusione etnica, violenza contro i migranti.  Più nostalgia di Mussolini e Hitler che Spinelli pensiero.  L’associazione Stop Border Violence lancia da oggi una raccolta di firme fra i cittadini del continente per indire un referendum che blocchi i respingimenti e le violenze alle frontiere; impedisca accordi con Paesi terzi colpevoli di violazioni dei diritti umani; crei un controllo indipendente per fermare gli abusi nei punti di confine e nello spazio comune europeo; stabilisca standard di accoglienza fra tutti i Paesi membri Ue; sanzioni le violazioni di tali normative. Questioni che non coinvolgono solo la Libia o ultimamente la Tunisia, riguardano da vicino Italia, Francia, Spagna, Grecia, Croazia oscillanti fra mancati soccorsi in mare, abusi e bastonature. Già tornare a quanto i capi di Stato europei sottoscrivevano a Nizza a inizio Millennio sarebbe un buon proposito, ma quelle parole si sono smarrite lungo il tortuoso percorso della matrigna geopolitica dell’ultimo ventennio. Rapporti di agenzie umanitarie, interventi di Ong, reportages d’informazione documentano da anni la condizione in cui versano decine di migliaia di persone che alle vessazioni della tratta, aggiungono quelle dei respingimenti o della permanenza nel limbo di campi si stazionamento (in Turchia, Grecia, Bosnia e ancora Libia) dove degrado, problemi igienici sono all’ordine del giorno, e la tortura, palese o minacciata, diventa uno spettro vagante. Se le istituzioni d’Europa guardano altrove, i cittadini europei possono denunciare tale viltà e gli intrallazzi che figure di primo piano della Ue e dei Paesi membri imbandiscono coi leader delle nazioni che fanno da “contenitore” delle migrazioni. Contro la stessa demagogia di capi politici che si mostrano possibilisti verso una ‘migrazione regolata’ sventolata quale alibi a una politica di chiusura della Fortezza Europa si può firmare al seguente indirizzo: https://eci.ec.europa.eu/032/public/

sabato 8 luglio 2023

Sfax, africani contro

 


E’ stata un’altra brutta settimana di caccia al nero, immigrato e subsahariano, da parte di tunisini che la pensano come il loro presidente. E se non del tutto come lui che detesta i poveri, fra la povertà interna e quella in arrivo si creano conflitti fra miserabili a difesa della rispettiva miseria. Quando poi accadono, come giorni addietro, fattacci di cronaca: l’accoltellamento d’un locale da parte di migranti, il fuoco etnico divampa senza possibilità di contenimento. Certo, chi fugge dai conflitti centroafricani ha un presente disperato eppure sogna qualcosa. Mentre chi da oltre un decennio è in balìa delle alternative politiche subentrate al satrapo Ben Ali e si vede ‘invaso’ da migliaia di nuovi arrivi, non controlla più disagio e paura. Secondo il ministero dell’Interno tunisino i 14.000 ingressi dei primi tre mesi dell’anno superano di cinque volte quelli del 2022, le cifre non determinano automaticamente i fatti però sottolineano squilibri profondissimi. La disoccupazione, la penuria di risorse, gli aiuti internazionali promessi e bloccati, anche per i puntigli del vertice politico, disorientano. Uno dei business presenti a Sfax - luogo di pesca e di artigianato da pesca - è affittare a prezzi stracciati, e dunque in nero, sordidi locali ai migranti del salto a Lampedusa. L’hub della migrazione nell’Europa, che accoglie e respinge, è a portata quasi di canotto. E per questo, in un braccio di mare comunque infido, s’accalcano le traversate con ogni genere di natante, comprese le pericolosissime chiatte di metallo, dal naufragio quasi certo visto che possono rovesciarsi con un’onda. L’altro business, quello criminale della tratta, prosegue imperterrito nonostante l’intento securitario dello Stato, con gli accordi firmati e in via di definizione, col presidente Saïed che non accetta il ruolo di controllore che i sorrisi delle signore della speculazione politica, Von der Layen e Meloni, hanno elargito in reiterate occasioni. Brillano novecento milioni di euro per ingraziarsi il leader tunisino, disposto a prendere e non promettere, come ha già fatto col Fondo Monetario Internazionale, che infatti gli ha bloccato 1,9 miliardi di dollari, mentre l’economia langue. Cose note da tre mesi più tre, mentre è giunta l’estate e nulla cambia. E la situazione s’aggrava perché le tensioni ribollono per un non nulla, visto che i sanguigni richiami della razza possono scivolare sulla via del sangue. In questi giorni, impossibilitati a salire su uno scafo pur scalcinato, col rischio di venire linciati nuclei di famiglie subsahariane si stanno dirigendo dove mai avrebbero voluto: il confine libico. Sembra un controsenso, ma certe scelte hanno il fiato cortissimo. 

martedì 4 luglio 2023

La via della pace, la via della guerra

 


Cosa direbbero gli arcigni alfieri della resistenza contro le aggressioni se un novello Arafat, ammesso che questa dietrologia si potesse materializzare, andasse in giro alla maniera di Zelensky a chiedere armi per il suo popolo? Le Democrazie occidentali, la “libera” stampa di mezzo mondo sosterrebbero tale passo? Non è accaduto ieri, non accadrebbe oggi. Non solo perché il fronte palestinese non conosce più leader carismatici, non solo perché da troppo tempo è frantumato in cento rivoli, non solo perché ha conosciuto tradimenti interni e quelli del mondo arabo “amico”. Non potrebbe accadere perché oggi come ieri Israele gode di una protezione mondiale. Addirittura superiore a quella concessa da Regno Unito e Stati Uniti che favorivano la nascita di quello Stato per risarcire il popolo ebraico dallo sterminio nazista, mentre sulla sponda comunista era radicata un’utopica visione dei kibbutz microcosmi di socialismo in evoluzione. Se tale spirito esisteva in alcuni pionieri del laburismo israeliano, Ben Gurion e Golda Meir avevano altri progetti. Quello palese, protetto da un mondo solidale, toglieva la terra ai discendenti dei beduini che abitavano la Palestina insieme a ebrei, cananei, filistei e finanche fenici. Ma un ritorno alla terra del nativo egiziano Mosé che poi è la terra del babilonese Abramo – e già queste origini ampliano l’orizzonte in quel Medioriente vissuto da genti diverse che solo la foga di supremazia dell’ultimo secolo, capace di occupazioni, guerre e muri, ha voluto dividere anziché condividere – non è stato un ritorno pacifico. Israele sorta per dar patria agli ebrei della dispora, diventa anno dopo anno lo Stato dell’esclusione altrui. Non solo l’esclusione religiosa, ma della lingua, delle culture, della stessa Storia. Perché una riscrittura della Storia è in atto in chi vuole impossessarsi di quella Città di Dio che è Yerushalaym-Ierusalem-Al Quds e farne la sua capitale. Così quella che dovrebbe essere la più aperta delle città del mondo ritorna a un secolare passato di guerre, diventa proprietà di chi vuole imporre con le armi la sua visione sociale-religiosa-culturale e - povera Israele - razziale. La questione è complessa, intricata, dibattuta e combattuta tanto che parlare di armi rappresenta la scelta più folle. 

 

Eppure davanti a una sperequazione che vede nove milioni di israeliani, non tutti ebrei, ma dagli anni Settanta è in atto il disegno delle colonie che porta in questa nazione, dai luoghi più disparati del mondo, famiglie da collocarle, lo sanno tutti, nello sputo di territorio (Cisgiordania, West Bank e la denominazione più ipocrita perché perpetuata, Territori Occupati) dove chi ci abita non ha più spazio per sé e rischia la vita. Dunque nove milioni di cittadini d’Israele vantano uno degli eserciti più tecnologici e potenti del globo, dotato d’un centinaio di testate nucleari, che dovrebbero scontrarsi – ovviamente si spera di no – con tre milioni e mezzo di palestinesi della suddetta Cisgiordania, più i due milioni di gazawi e l’incerto numero della diaspora palestinese, divisa fra Libano, Siria, Iraq e i più fortunati che vivono altrove nel mondo. Fortunati nel corpo, nella salute, non nell’animo. La loro resistenza è fatta di missili Qassam, esplosivi e kalashnikov usati da gruppi irregolari, più o meno strutturati. L’esercito e soprattutto la polizia, nati dai sempre disattesi Accordi di Oslo che hanno creato l’Autorità Nazionale Palestinese, oltre a risultare subalterni alle Forze Armate di Tel Aviv, hanno assunto, sotto la direzione di personaggi come Mohammed Dahlan, una funzione d’offesa più che di difesa della propria gente. Tutta questa è storia scritta e vecchia, talmente vecchia che qualsiasi agguato, scontro, rivolta, intifada, somiglia a fatti passati, perché quel che accade è a senso unico, chi impone la sopraffazione non vuole la pace. Punta a ripartire da conquiste decennali, da demolizioni e ammazzamenti, da imposizioni e usurpazioni a ruoli fissi. Qualsiasi lettore sa chi guadagna e chi perde. Sebbene poi tutti perdano la normalità esistenziale, vivendo nella precarietà, nell’ansia, nel terrore. Una domanda abbastanza retorica è chi perpetui  tale situazione. Ma la “resistenza dei Qassam” potrebbe diventare più efficace se le Democrazie occidentali, così benevoli verso ogni desiderio bellico del presidente ucraino, facessero altrettanto con un leader palestinese? Cosa pensano gli arcigni alfieri delle resistenze dei popoli? In ogni guerra dichiarata o strisciante le popolazioni soffrono e muoiono, perciò ci auguriamo la pacificazione d’ogni fronte. Però i conflitti si bloccano azzerando le cause e sotterrando anziché i cadaveri le ipocrisie.

lunedì 3 luglio 2023

Jenin, l’ultima strage

 


Sameeh Abu al-Wafa, Hussam Abu Theeba, Aws al-Hanoun, Nour el-Din Marshoud colpiti in testa e al cuore. Poi altre tre vittime nella città martire di Jenin e un ottavo palestinese, Mohamed Hasanein, freddato stanotte nella periferia di Ramallah. E’ il risultato dell’ultimo raid omicida di Israele, che ha bombardato dal cielo e colpito da terra, con la potenza militare di cui dispone grazie all’amico americano e che usa in modo criminale anche quando da Oltreoceano dicono di contenere la violenza. Ma Netanyahu se ne infischia. Il suo ennesimo governo dai voti risicati ma radicati fra una popolazione che si specchia nella propria intolleranza e si mette nella mani fanatiche del sionismo religioso fatto partito, prosegue alla cieca, tanto il diritto di uccidere e sopraffare è garantito dal comune sentire. Abbraccia tutti, anche chi siede nell’altra parte della Knesset, i pochissimi laburisti rimasti e il fanatismo di solo vent’anni addietro, quello di Israel Beiteinu, oggi ampiamente spiazzato dai Ben Gvir e dalle Strook che puntellano il primo ministro ‘eterno’. Così per la strage di ieri cui s’accompagnano decine di feriti, il Parlamento si stringe attorno al governo giustificandolo con l’alibi della “difesa” nazionale. Altro che contestazione del premier usurpatore che le proteste delle settimane di primavera avrebbero mostrato. Quando si tratta di “difendere” Israele, i suoi assalti di guerra, gli omicidi mirati e ampliati, le vendette trasversali contro presunti terroristi (cittadini palestinesi), la maggioranza nazionale è coesa. E non è la maggioranza esigua con cui una coalizione più estremista e fanatica batte un’altra che le somiglia, è la somma di due parti d’una società unica e affine. Nella faziosità, nell’intolleranza, nell’odio, nella violenza, nella volontà d’imporre la sua visione delle cose, il proprio potere al resto del mondo.  Anche alla maggioranza delle nazioni dell’Onu che, dopo aver difeso la nascita dello Stato d’Israele, gli suggerisce - inascoltata e umiliata - la coesistenza con chi viveva in quella terre prima delle riconquiste del 1948, del 1967 e delle decine di mini guerre imposte a una popolazione occupata e privata di autodeterminazione. Tutto troppo conosciuto, tutto troppo uguale da decenni, tanto da essere considerato una normalità. Così la punizione collettiva che i militari d’Israele, dei reparti speciali e di quelli di leva, riservano periodicamente agli abitanti caparbiamente abbarbicati all’angolo di terra che la Storia gli assegna da secoli, si ripete con cento e cento episodi. Simili nello spargimento di sangue e terrore. Quando i massacri non raggiungono le centinaia e migliaia di vittime, come nelle operazioni contro Gaza dell’ultimo quindicennio, sono lo stillicidio di vicende di cronaca come racconta chi ieri a Jenin era nella propria casa crivellata da una gragnuola di colpi come si trattasse d’una trincea. “Un proiettile è entrato dalla porta principale e ha colpito mio nipote mentre era in bagno” raccontava una donna ai sanitari dove il ragazzo è giunto, fortunatamente solo ferito a un arto. L’ennesimo sfregio che Israele infligge ai palestinesi del campo di Jenin colpisce i singoli e la comunità privata di acqua, elettricità, telecomunicazioni. Impedire l’altrui esistenza, introducendo una precarietà a rischio della vita è il perfido “regalo” riservato da uomini, donne e politici d’Israele agli odiati palestinesi. Naturalmente i gruppi armati del campo rispondono come possono, con armi leggere, qualche razzo, come sempre l’impatto delle armi è impari. Le Brigate Jenin, la Jihad palestinese s’impegnano a testimoniare una resistenza più che a imporre qualsiasi difesa. Si combatte per qualche ora per non vedersi azzerare la dignità. Per dire: siamo un popolo, non ci avrete mai.  

domenica 2 luglio 2023

Sogni dall’Emirato afghano

 


Il mese di marzo 2022 nella mente di alcune donne afghane è correlato all’agosto 2021. La decisione dell’Emirato di chiudere le scuole pubbliche in vigore da quel marzo - ufficialmente non riaprirle, nonostante l’avvìo della stagione scolastica fosse rivolto ad alunni e alunne - era uno spettro già conosciuto da generazioni precedenti. Chi viveva nelle aree meridionali (Kandahar, Zabul, Paktika) in epoca di guerra talebana ai governi Karzai e Ghani, faceva più i conti con le decisioni e l’autorità dei turbanti che con quelle di Kabul. E nella stessa capitale, controllata dai governi sostenuti dalla Nato, tendenze fondamentaliste di tal o tal altro Signore della guerra potevano impedire alle ragazze di andare a scuola. Accadeva e accade, visto che in Afghanistan i diritti negati abbracciano quattro generazioni. Eppure chi fa della necessità virtù non s’abbatte, s’adatta alle avversità, si organizzava e s’organizza anche per l’istruzione. Con la collaborazione di qualche padre e fratello non oscurantista, col contributo di coraggiose insegnanti si ricreavano nelle case quelle classi perdute pubblicamente. Il piano si ripete tutt’oggi. In tal modo le scuole clandestine sono una realtà grazie alla quale le bambine imparano a leggere, scrivere, far di conto contro la perfidia di chi vuole emarginarle. In questi spazi celati scoprono i segreti della lingua pashto, della religione, studiano la vita del Profeta e leggono il Corano, nelle classi superiori s’avvicinano anche alla giurisprudenza coranica. Non poterlo fare è un atto d’ingiustizia gravissimo, riconosciuto anche da taluni conservatori islamici che però non muovono un dito per evitarlo. E’ un atto di codardia e di formalismo. Non si vuol mettere in discussione il fanatismo religioso legato al potere maschile e a un’arcaica tradizione che vuole perpetuare la subalternità femminile. Poi, a seconda delle fasi, si chiude un occhio sulle scuole domestiche, di cui si sa l’esistenza, ma si vuole lasciarle nel ghetto della clandestinità, del passaparola, della difficoltà delle allieve di fare chilometri per raggiungere la scuola spesso costretta a cambiare sito per evitare reprimende.

 

Si colpisce anche il ruolo dell’insegnante cui non viene riconosciuta un’ufficialità professionale; l’occupazione dovrebbe essere statale o provinciale con tanto di salario, invece così non è. Maestre e professoresse, che pure hanno conseguito i titoli, vengono retribuite dalle collette organizzate dalle famiglie delle alunne. Nei decenni dell’occupazione Nato diverse Ong riuscivano a stabilire, sebbene non in tutte le province, rapporti con tali iniziative autoctone e riuscivano a finanziarle. Qualcosa ancora accade, però dopo l’agosto 2021 e ancor più il marzo 2022, gli aiuti esterni sono diminuiti sino a svilire il quantitativo di materiale e fondi rivolti alle scuole domestiche. Il timore di cadere in provvedimenti repressivi sono oggettivamente cresciuti quando, da quest’anno, l’orientamento anti scolastico talebano è parso ostinato. Tutti i rinvii che per mesi prendevano a pretesto “l’assenza di stoffa per confezionare le divise, la presunta difficoltà nel reperire locali e adattarli, la carenza d’insegnanti” hanno creato un muro invalicabile. Insomma i buoni propositi messi ‘nero su bianco’ e riferiti addirittura in conferenze stampa da parte del nuovo regime nelle euforiche (per loro) settimane seguenti la presa del potere, hanno tradito la promessa di non discriminare le donne sul fronte dell’istruzione. E si sa che la segregazione prosegue e aumenta sul versante lavorativo e la semplice convivialità quotidiana. Certo, la caparbia volontà femminile di proseguire la via e la vita, risulta straordinaria. Ed è meraviglioso che al di là di quanto facevano Ong e associazioni locali e straniere, anche singoli gruppi di vicinato, familiari e altro, non si lascino intimidire da ronde e pattugliamenti che vigilano sulle decisioni del governo. L’istruzione scorre come un fiume sotterraneo, mantiene viva la speranza anche nel luogo dove nulla è per sempre. Che rovesciato è un buon viatico per chi sogna, osa e provvede. Ogni trasformazione.