sabato 29 settembre 2018

Afghanistan, urne e buchi elettorali


A meno d’un mese dalla scadenza, fissata per il 20 ottobre, parte la campagna elettorale per i 249 seggi da assegnare alla Wolesi Jirga, la Camera bassa del Parlamento afghano. Secondo la Commissione elettorale i 2500 candidati, fra cui 400 donne, possono iniziare la propaganda. Lo fanno direttamente o con l’ausilio di sostenitori issando cartelloni e affiggendo proprie immagini dov’è possibile, anche su muri di edifici privati, talvolta entrando in conflitto coi proprietari. Per tale pratica fuori da normative di legge, peraltro fumose, sono previste multe fino a 100.000 afghani. Multe simboliche più che onerose, visto che il massimo della quota corrisponde a un euro e quattordici centesimi. I candidati più navigati tengono anche pubbliche concioni, in genere in luoghi chiusi per ovvie ragioni di sicurezza. I 5.100 seggi saranno vigilati da 55.000 militari, cui si potranno aggiungere circa 10.000 riservisti.

Non è chiaro se alla scadenza si voterà in tutte le province o verranno escluse quelle controllate dai talebani, che non si sono fatti convincere dalle carezze diplomatiche governative e guardano con spregio alla consultazione. Parecchi candidati si rivolgono ai gruppi etnici, minoritari o meno, sebbene ce ne siano altri che contestano quest’approccio, sottolineando la piena apertura a qualsiasi etnìa e puntando sul concetto di nazione. C’è anche chi pone temi come il sostegno di chi si occupa delle sicurezza, dunque l’Afghan National Army, attraverso la donazione del sangue per i militari che pongono la vita al servizio del Paese. Nonostante il populismo diffuso qualche vecchia volpe del logoro scenario politico mette i piedi nel piatto, criticando Ghani e Abdullah e accusandoli di pensare alle proprie tasche più che agli interessi del Paese. Tutto vero.

Ma un simile richiamo è giunto da un personaggio screditatissimo come il signore della guerra Mohaqiq, uno che di sopraffazioni e interessi soggettivi non è secondo ai criticati leader. Costatare che c’è chi lavora per incrementare un clima divisivo, senza curarsi dei reali problemi della popolazione, usata come sempre come alibi per potere e affari, non è una novità. Capire se la propaganda normalizzatrice che si trascina dietro la scadenza dell’urna possa risultare attendibile e veramente rappresentativa costituisce un nodo irrisolto. In una delle province che nell’agosto scorso ha messo a nudo non solo tale progetto, ma direttamente la presunzione di controllo del governo sul Paese - Ghazni assediata e tenuta per giorni dai taliban - le elezioni per ora non si terranno. L’ha stabilito la Commissione che rimanda di quattro mesi (sì in pieno inverno, oppure a primavera) sia le consultazioni politiche, sia quelle amministrative.

Lo spunto viene preso per quel che accadde nelle elezioni locali nel 2010. Allora gli 11 vincitori appartenevano tutti all’etnìa hazara assai consistente nell’area, che lasciò i pashtun senza propri eletti. Questo creava squilibri. Così, per presente e futuro, si penserebbe di equilibrare le rappresentanze con meccanismi elettorali tutti da decidere. Più realistiche voci pensano, invece, che la cancellazione del confronto in quella provincia serva a non offrire la possibilità alle milizie talebane di sferrare attacchi ai seggi. Queste azioni finora sono state appannaggio dei turbanti dissidenti che si firmano Daesh, ma ciò che teme Kabul è un ripetersi dell’attacco che ha mostrato tutta l’incapacità militare del governo, come e peggio dell’assedio di Kunduz nel 2015. Ora la chiusura dei seggi a Ghazni è ufficiale, ma in quante altre province le urne resteranno deserte o disertate per insicurezza? La macchina della “normalizzazione” pompata da Ghani non ne parla.

giovedì 27 settembre 2018

Ira saudita sull’Iran


E’ stato il principe saudita al-Jubeir, l’uomo imposto da Washington al cerchio magico di Mbs nel delicatissimo ruolo di ministro degli Esteri, a esternare pesantemente al Palazzo di vetro una litanìa risultata musica alle orecchie di Trump e della sua ambasciatrice all’Onu Haley. Tanto per ribadire la già nota fedeltà Jubeir ha parlato fra due angeli custodi che si chiamano Bolton e Pompeo e curano la sicurezza statunitense e la segreteria di Stato. Il ministra Saud senza voli pindarici ha esplicitato la necessità di far cadere la presidenza iraniana di Rohani, applaudendo al rinnovato embargo americano che ristabilisce muri in luogo delle aperture decretate dall’accordo sul nucleare firmato da Obama prima della chiusura del mandato. A sostenere il braccio di ferro trumpiano ci sono anche Emirati Arabi e Israele, tutti concordi nel propugnare uno scossone agli attuali vertici iraniani prima che lo Yemen si trasformi in quel Libano conosciuto dagli anni Ottanta in poi con la crescita politica e militare di Hezbollah. Dunque via i vertici di Teheran, con ogni mezzo.
Fra i mezzucci messi in atto non è certo, ma è plausibile, annoverare anche gli attentati che hanno di recente insanguinato la località di Ahvaz. Ovviamente nessun diplomatico presente all’Assemblea Onu fa riferimento a essi, ma il media ufficiale saudita (Al Arabiya) per mano d’un suo opinionista, fa diretto riferimento ad altre spine nel fianco del sistema, manifestazioni e scioperi che dalla fine dello scorso anno si susseguono in molte aree del Paese. Il malcontento sociale iraniano è diffuso, alimentato dalla caduta esponenziale del ryal, dalla sua perdita di valore e conseguente potere d’acquisto monetario che riduce sul lastrico i ceti medi sostenitori di Rohani. A politicizzare le proteste sarebbe la mai estirpata componente dei Mujaheddin del Popolo, la cui rappresentante Maryam Rajavi vive a Parigi in un esilio autoimposto. Il gruppo, che nella guerra civile del triennio 1980-82 assunse pratiche terroriste e stragiste, è da tempo chiacchierato per i molteplici sostegni offerti dalla Cia. E può benissimo prestarsi a organizzare turbolenze.
I sauditi, che tifano per loro senza nasconderlo, spererebbero che questa fosse l’opposizione iraniana in grado di stanare il regime degli ayatollah. Al di là della reale consistenza in Iran di tale gruppo, la lotta intestina fra i poteri forti di Teheran: da una parte gli orientamenti tradizionalisti di certo clero conservatore che ha trovato in Raisi l’esponente di punta e continua ad avere in Khamenei il garante della linea khomeinista, dall’altra il laicismo dei Pasdaran, negli ultimi anni in un totale compromesso coi chierici che s’è trasformato in diarchia. Non perfetta, poiché i riformisti fanno da terzo incomodo, vivo e attivo, e soprattutto non rinuncia a una presenza attiva la popolazione. Fra la gente, i fedeli al regime non mancano, come non mancano gli oppositori, sicuramente crescono i dubbiosi, quei ceti sociali sempre presenti sullo scenario nazionale e in molte fasi determinanti: studenti, commercianti, giovani donne sempre meno rurali. Bisognerà vedere quanti di costoro son disposti a seguire i proclami ideologici dei mujaheddin e quanti le promesse del clero, che militante e non, attualmente ha scarsa presa su una gioventù di certo meno combattente, non è detto meno combattiva.

lunedì 24 settembre 2018

Iran, ipotesi sull’attentato di Ahvaz


Mentre una parte della gente di Ahvaz s’è stretta attorno alle bare dei martiri dell’agguato mortale di sabato, la comunità araba sunnita della regione si ritrova l’accusa d’essere il motivo dell’attentato, vista la linea separatista seguita da alcune componenti politiche locali come il Fronte popolare degli arabi di Ahvaz. Ma questo gruppo e altri sospettati rigettano le accuse, girandole sul regime possibile autore d’una montatura per stringere ancor più la morsa sulla provincia del Khouzestan, ricca di petrolio e intollerante nei confronti del governo di Teheran, ampiamente contestato nei mesi scorsi. Rispetto a proteste di carattere prettamente economico registratesi in varie città iraniane, in quest’area il malcontento sunnita mostra, accanto a tale matrice, quella del dissenso politico e guarda a ovest, per quanto oltreconfine l’attuale Iraq offra contorni caotici. Da quel che è dato sapere i locali interagiscono più con strutture come quelle citate, organizzate con dissidenti espatriati all’estero (ad esempio a Londra) che col jihadismo militante. Quello che potrebbe aver organizzato lo spettacolare attentato, frutto di un’organizzazione articolata, per ciò che appare dall’infiltrazione del loro commando in una struttura tutt’altro che facile da raggirare come i pasdaran.

Oltre al sangue versato, al terrore diffuso, all’offesa arrecata alla sfilata per l’anniversario della guerra patriottica contro Saddam, è stata lesa l’immagine coriacea che i Guardiani della Rivoluzione amano offrire del proprio corpo d’élite. Un elemento psicologicamente non secondario. Perciò i vertici dello Stato, col ministro della Difesa Hatami, il capo dell’Intelligence Alavi, il deputato e comandante pasdaran Salami, fino allo stesso presidente Rohani sono intervenuti pubblicamente additando chi trama nell’ombra per destabilizzare anche militarmente la nazione. La triade accusata raccoglie Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita, sponsor militari e ideologici d’un certo fondamentalismo islamico usato - a detta di Teheran - come ariete per colpire la sicurezza nazionale interna. Certo, la sigla dello Stato Islamico è comparsa nella rivendicazione dell’agguato, come pure quella Al-Ahvaziya. Se il Daesh è da un quadriennio materia, ectoplasma e fantasma della politica destabilizzante in Medio Oriente, del secondo si sa che è finanziato dalla dinastia Saud e che nell’area ha già compiuto azioni con l’intento di divulgare un progetto separatista. Invece s’autoescludono dallo scenario della strage altri separatisti, denominati Patriotic Arab Democratic Movement in Ahvaz.

Nel richiamo che la notizia dell’attentato ha avuto ovunque nel mondo, s’inserisce il botta e risposta fra Rohani e l’ambasciatrice statunitense all’Onu Haley. Il primo non ha risparmiato colpi antistatunitensi rivolti al bullismo della politica estera trumpiana; la portavoce di ferro ha ripetuto sprezzante che nell’incolpare gli Usa gli iraniani devono guardarsi allo specchio. Il duetto accende ulteriormente gli animi alla vigilia delle prossime sedute dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Rohani, come altri capi di Stato, è atteso domani e dopodomani a New York. A condurre il dibattito nel Palazzo di vetro ci sarà proprio la Haley, e il da lei strattonato Rohani dovrà incontrare l’omologo Donald Trump. Sebbene il faccia a faccia potrebbe in extremis saltare, non tanto per le tensioni rinfocolate in queste ore, ma perché il dibattito sul nucleare iraniano sembra diventato un dialogo tra sordi dopo il rilancio dell’embargo unilaterale imposto dal presidente Usa. Temi caldissimi anche quelli dei conflitti mediorientali sugli scenari siriano e yemenita, sempre con gli iraniani coinvolti e gli americani critici sull’operato di quest’ultimi. E’ noto che l’Assemblea Onu ha solo funzioni consultive, esamina questioni e propone orientamenti per garantire la pace internazionale. Purtroppo decisioni, prese a maggioranza di due terzi, possono tranquillamente risultare inapplicate e dunque infruttuose.  

sabato 22 settembre 2018

Iran, tiro al bersaglio sui pasdaran


L’attacco portato allo Shahrestan di Ahvaz nel corso di una parata militare dei Guardiani della Rivoluzione, è un’azione simbolo rivolta a una struttura strategica dello Stato iraniano. La più potente, assieme a quella degli enti benefici (bonyad) gestiti quasi esclusivamente dal clero e dai militari. Avviene in una zona occidentale del Paese, sul confine iracheno, area che ha conosciuto le pene della lunga guerra contro l’invasione di Saddam Hussein. E proprio quel conflitto, sanguinoso e logorante, durato dal 1980 all’88 veniva ricordato con la sfilata, quando dagli spalti un commando ascrivibile ai miliziani dello Stato Islamico, così li ha definiti la Tv iraniana, ha scaricato le proprie armi sui pasdaran intruppati e sugli ufficiali seduti in tribuna. Ne sono morti ventiquattro, una cinquantina sono rimasti feriti, fra cui bambini che assistevano alla celebrazione, mentre gli attentatori venivano in parte uccisi, in parte arrestati. I commenti dell’agenzia Irna, fanno riferimento all’Isis ma anche alle protezioni e finanziamenti offerti dall’Arabia Saudita. Il ministro degli Esteri Zarif, coglie l’occasione parla esplicitamente di sponsor statunitense.
Lo stesso presidente Rohani non lesina riferimenti critici agli Stati Uniti e alla politica trumpiana che foraggiano la destabilizzazione in Iran con ogni mezzo, dal rilancio dell’embargo, al sostegno dell’opposizione filo monarchica o terroristica come quella esule Oltreoceano e Parigi, chiaro il riferimento agli ex mujahheddin- e Khalq foraggiati dalla Cia. Certo, nel Paese esiste una profonda spaccatura politica fra i riformisti, che hanno in due tornate elettorali sostenuto il moderato Rohani contro i fondamentalisti religiosi e laici, e che da mesi lo contestano. Cui s’aggiunge una spaccatura generazionale fra gli ultrasessantenni, che hanno fatto la rivoluzione e hanno praticato la militanza combattente, appunto contro Saddam, e i giovani nati negli anni Novanta e successivamente. Quest’ultimi, gran serbatoio del voto progressista, vedono tradite le speranze di cambiamento riguardo all’occupazione, alla trasformazione sociale con un superamento di rigidità di costumi (pensiamo all’obbligatorietà del velo), e al sistema clericale basato sul velayat-e faqih.  
Parte del malcontento, esplicitato nelle proteste di piazza dell’inverno scorso - meno clamorose, partecipate e violente di quelle del 2009 - risulta spontaneo, ma l’opposizione interna ed estera agli ayatollah ha sponde varie e può far riferimento a ogni contraddizione esistente. Ad esempio, la crisi economica ha fatto criticare il copioso, e costoso per le casse statali, impegno militare all’estero che sui fronti siriano e yemenita dura da tempo. Una strategia che lega le posizioni del tradizionalismo clericale avvallate dalla Guida Suprema, alla componente tradizionalista laica, legata ai Guardiani della Rivoluzione. Ciascuno, nel rispettivo cammino, ultraconservatore e modernista, ma di fatto irrinunciabilmente non solo anti imperialista ma anti occidentale. Con tutte le chiusure e le differenze del caso. Finora il collante fra tutte le componenti politiche, anche quelle riformiste, è sempre stato quello della sicurezza interna, seppure il modo d’interpretarla non sia il medesimo. Ma più si stringe la morsa attorno all’Iran più l’interesse nazionale offre spazio al partito della forza, che magari può cercare un nuovo Ahmadinejad da proporre per un futuro non molto lontano. E questa via, attacchi terroristici o meno, segue il suo corso.  

lunedì 17 settembre 2018

Lo stallo Regeni e i balletti di Stato


Ha parlato direttamente col presidente Al Sisi, Roberto Fico, presidente a sua volta, del Parlamento italiano, dopo aver incontrato in precedenza l’omologo egiziano. Differentemente dal collega Di Maio, ha parlato esclusivamente del caso Regeni affermando che “le indagini sono a un punto di stallo”, cosa che Sisi sa benissimo semplicemente perché è il regista della palude in cui si dibatte l’Egitto dal 2013. Data della sua presa del potere, operata con un golpe, prima bianco e dopo quarantacinque giorni rosso sangue, colato dai corpi di centinaia di concittadini che il presidente dal sorriso gentile faceva massacrare dai suoi militari e poliziotti. L’Italia con gli esecutivi Renzi e Gentiloni ha fatto inizialmente la voce grossa, ha ritirato l’ambasciatore dal Cairo per poi rintrodurlo con l’alibi che avrebbe controllato da vicino (sic) i passi istituzionali della nazione sull’omicidio del ricercatore. Tutto questo dopo che gli stretti collaboratori di Sisi, finanche il ministro dell’Interno Ghaffar e quello degli Esteri Shoukry, coprivano i sottoposti esecutori di sequestro, torture e omicidio di Regeni. Sicuri dell’impunità che il nuovo raìs garantisce loro, visto che di arresti, sequestri, torture, galera, assassini e sparizioni l’Egitto dei militari di Sisi fa un uso sistematico. Come le peggiori dittature mondiali.
Con questi sanguinari, pur dal rassicurante aspetto, i politici italiani pensano di dialogare. Se non sono proprio fuori di senno, possiamo pensare che inscenino anch’essi una sceneggiata. Fanno quel che i vertici d’una nazione devono fare, ma senza prendere contromisure nei confronti della chiarissima tattica della Sfinge in divisa che promette, ma tergiversa e soprattutto ostacola indagini e processo. Come abbiamo visto, in Egitto a processo vanno gli scampati dal massacro della moschea di Rabaa, l’Epifania di quel che Al Sisi avrebbe riservato al suo popolo, iniziando dagli odiati Fratelli musulmani, per passare a oppositori della sinistra giovanile, e socialisti, e giornalisti, e blogger e attivisti dei diritti. Tutti costoro hanno riempito le galere egiziane, mentre gli attuali presidenti e vicepresidenti cinquestelle e leghisti guardavano probabilmente ad altro, intenti a quell’avanzata elettorale volta a gabbare i claudicanti governi del Pd. Nel febbraio 2016 apparve in tutta la sua drammaticità la vicenda Regeni, uno scempio che confermava ciò che da anni era messo in cantiere dalla macelleria egiziana. La cui dirigenza, non a caso militare, rievocava i ‘garage Olimpo’ dell’Argentina di Videla. Come allora, la comunità internazionale ha taciuto e continua a farlo.
L’Italia, parte offesa, si barcamena in goffe iniziative con l’Egitto, i cui vertici si beffano delle inchieste della procura di Roma, che ha esplicitamente denunciato le falsità e l’omertà del governo cairota. Altro che collaborazione! Altro che promesse di far luce! Sisi governa su una popolazione soggiogata o adescata col terrore, governa nel buio pesto delle prigioni dove in questi anni sono sparite attorno alle cinquemila anime. Questo denunciano talune Ong umanitarie che hanno dovuto abbandonare quel Paese per non finire esse stesse risucchiate nel gorgo della repressione. Si può dialogare con dei criminali travestiti da statisti? E’ la domanda che gli attuali esponenti delle Istituzioni italiane, dai Di Maio ai Fico, viaggiatori e interlocutori di Al Sisi, si sarebbero dovuti porre. Se sì, al di là di diplomatici balletti, che differenti misure prende il governo ‘gialloverde’ rispetto a quelli rosapallido del Pd? All’orizzonte non si vede nulla, se non moti autoreferenziali, attenti a non disturbare rapporti commerciali col partner egiziano, per gli affari dell’Eni che sono solo in parte affari nazionali. Essi potrebbero cedere il passo a una sana morale di quello stato di diritto che sosteniamo di difendere e che ‘l’amico Sisi’ ha  calpestato, facendo trucidare un nostro cittadino. Diventato uno di loro, una vittima di quel regime cui non dovremmo riservare colloqui e strette di mano, ma esplicite accuse.  

venerdì 14 settembre 2018

Afghanistan, sussurri e grida


I sussurri, le grida si susseguono sullo scenario politico afghano con ruoli invertiti o comunque mescolati. Alle lusinghe che il presidente Ghani continua a lanciare ai talebani, o per meglio dire a quella parte dei turbanti che l’ascolta, fa eco la voce grossa del  già signore della guerra Hekmatyar. Prescelto da tempo, e proprio da Ghani, come cerimoniere della pacificazione coi fondamentalisti armati, ora Hekmatyar contesta il possibile slittamento elettorale oltre la scadenza del 20 ottobre. Molte province sono insicure, e sebbene la maggioranza dei gruppi taliban snobbi le elezioni, il pericolo attentati è elevatissimo a opera di quei dissidenti che si firmano Stato Islamico del Khorasan. Lo stesso presidente, che molto s’è speso per promuovere l’apparato rasserenante delle consultazioni, ha recentemente dato risalto ai dati dell’agenzia Onu sulle morti di civili, che nei primi sei mesi 2018 schizzano a 1.692 vittime, stabilendo la peggiore percentuale degli ultimi dieci anni. Morti determinate in prevalenza da attentati organizzati dal Daesh afghano, mentre i talebani, che pure hanno ucciso concittadini, rivolgono il tiro prevalentemente su militari e poliziotti.
Il partito di Hekmatyar (Hizb-i Islami) chiede a gran voce il mantenimento della scadenza elettorale, mentre il premier Abdullah gli contrappone il concetto d’unità della nazione in una fase in cui il pericolo è il terrorismo e le polemiche favoriscono i nemici della nazione. Abdullah in persona, all’epoca della sfida con Ghani per la presidenza, diede una didascalica dimostrazione di cosa s’intenda per amici e nemici, inanellando accordi ufficiali, ufficiosi, sotterfugi, voltafaccia, braccio di ferro e kalashnikov puntati con alleati ed ex alleati. Infatti la costante che regna a Kubul è l’estrema inafferrabilità degli eventi. Però i vertici statali ribadiscono che una totale smobilitazione militare americana porterebbe a un pieno terreno di coltura terroristica. Sarà. Ma quel che esiste da anni con tanto di truppe d’occupazione non l’ha limitato affatto. Poi c’è il terrorismo con le stellette, anzi quello apertamente a stelle e strisce, su cui aveva mosso qualche passo la Corte Internazionale per i crimini di guerra, che può dormire sonni tranquilli. Giorni fa l’uomo di Trump (John Bolton) ha minacciato i magistrati: guai a toccare soldati Ryan e generali statunitensi. Il loro operato non si discute, anche quando bombardano malati e medici come a Kunduz nel 2015. 
E allora cosa continua ad andare in scena nel mondo parallelo dell’Hindu Kush? Niente di diverso da quanto sappiamo. Rappresentazioni, intrighi e falsità comprese. Quest’ultime talvolta non facili da smascherare. Osservatori locali impegnati a studiare il fenomeno jihadista hanno cercato riscontri su alcune notizie diffuse dalla portavoce del ministro degli Esteri russo. Lei sosteneva che elicotteri, non identificati ma imputabili alla Nato, rifornissero di armi gruppi jihadisti nella provincia di Sar-i Pol. Non sarebbe il
primo caso. Non sarà l’ultimo. Però indagini in loco non evidenziano presenze del Daesh in quell’area. Al più, ci sono gruppi di combattenti uzbeki che si rapportano ai talebani, non all’Iskp. Spiegano i ricercatori: l’Islamic Jihad Union, affiliata sino a una decina d’anni fa a Qaeda e al gruppo di Haqqani, può reclutare dissidenti talebani, e per questo non è ben vista da quest’ultimi, ma se deve scegliere uno schieramento s’appoggia a quello tradizionale degli studenti coranici. E’ in tale puzzle di aree controllate da vecchi e nuovi signori della guerra che va in scena la pantomima della normalità. Col macellaio Hekmatyar a fare da maestro di cerimonie di democrazia.

mercoledì 5 settembre 2018

Libia, uno, due e tre


Tripolitania, Cirenaica, fino al desertico Fezzan. Non c’è bisogno di ripercorrere le tappe della storia mediterranea e le più recenti vicende del colonialismo italiano da Giolitti a Mussolini, fino al colonialismo di ritorno praticato su versante energetico dall’Ente Italiano Idrocarburi nella versione più sofisticata di Mattei, mica dei boiardi Scaroni e De Scalzi, per sapere che la Libia è una creatura fragile. Sorta come nazione prima in veste monarchica con re Idris, quindi con quell’esperimento di ‘Repubblica delle masse’ naufragato nella dittatura personale di Mu’ammar Gheddafi, il colonnello dell’emancipazione. Personaggio sognatore e cinico, istrione e megalomane, condannato per scelta e suo malgrado al ruolo di uomo-contro che sfida le sorelle dell’estrazione sul terreno della geopolitica. Nella sua Libia le tribù stanziali e nomadi, divise da interessi, invidie e ricerca di supremazia perpetuavano quei particolarismi conosciuti probabilmente dallo stesso Settimio Severo e poi per secoli sino al declino dell’Impero Ottomano che apre le porte alla Libia colonizzata.

Su questo territorio, coi suoi clan finanche le potenti aziende del petrolio mondiale per proseguire il business del sottosuolo necessitano di accordi. Loro li fanno, trattandosi in fondo di briciole rispetto ai guadagni che perseguono. Comunque tutti: affaristi, governanti, politici di ieri e di oggi brigano con ceppi familiari conosciuti e secolari. Gadhafi, Warfallah, Zentan, Tarhuna si spartiscono l’area della Tripolitania, in Cirenaica si tratta coi Zuwaya e Awaqir, e nella zona di Tobruk con la tribù Obeidat. Il Fezzan vede l’antica e potente presenza dei Magariha, mentre i Tuareg restano sovrani delle dune. Il conosciutissimo panorama è ulteriormente variegato, i notisti giungono a contare addirittura 150 clan, poiché figli, rampolli ramificano le tribù, seppure le storiche restano le citate. Quanto quest’ultime si facciano coinvolgere dall’evoluzione degli eventi si dovrà vedere. Certo dallo scossone subìto dal regime gheddafiano nel 2011 anche per un inizio di rivolta, per i voltafaccia di alcuni clan, e soprattutto per i piani d’intervento giostrati fra la Casa Bianca di Obama e l’Eliseo di Sarkozy, la Libia è terra di nessuno.

Darle una parvenza di normalità è la mossa ipocrita con cui le democrazie affaristiche scrivono falsi copioni. In questo caso sul banco degli imputati Francia e Italia, cioè Total ed Eni, che pozzi ed estrazioni se le spartiscono con Bp e altri, ma sotto sotto tramano.  Magari sperando che il politico sponsorizzato: Serraj, da parte del nostro governo, Haftar, da quello Macron, li aiuti ad avere di più, a favorire la propria azienda sulla concorrente, complici le stesse tribù e i loro manipoli armati. Un quadro dove ciascuno cerca di trarre vantaggio da una situazione degenerata e incancrenita negli ultimi anni di destabilizzazione. E nelle stesse Nazioni Unite, che raggiungono un accordo per un momentaneo cessate il fuoco fra contendenti, le posizioni italiane, francesi, britanniche e statunitensi non seguono affatto processi unitari, lavorando per l’autodeterminazione dei libici. Le divisioni tribali, ovvio, non favoriscono questo processo, ma a monte i signori degli affari puntano sempre e solo sui signorotti della guerra vestiti di qualsiasi foggia, turbante, mimetica o doppiopetto.

lunedì 3 settembre 2018

Libia, presente come passato


Assumono il volto peggiore, ma assai diffuso in tanto Medio Oriente, i nodi della lunga contraddizione libica. Bombe, agguati, mitragliamenti con morti e feriti (finora limitati a quaranta e un centinaio) ma si teme una ricaduta in quella guerra più per bande che civile, già scaturita dall’abbattimento di Gheddafi. E come nelle trascorse manovre i protagonisti sono vari, stretti in cerchi concentrici. Attualmente legano da una parte le truppe fedeli al leader di plastica (Al Serraj), suggerito da Washington e sostenuto soprattutto dai governi italiani succedutisi. Dall’altra i riottosi, che assaltano i palazzi di Tripoli, postisi al generale duro, ma ampiamente opportunista, Khalifa Haftar già al servizio di Gheddafi e poi contro di lui. Dietro i due contendenti alcune nazioni europee interessate principalmente ai rifornimenti di petrolio libico, pregiato per i suoi bassi costi di raffinazione. L’Italia seguendo la via maestra statunitense s’è spesa, come detto, per Serraj, rampollo d’un clan locale che ha sempre contato; britannici ma soprattutto i francesi sponsorizzano Haftar, lo facevano anche prima che Macron salisse all’Eliseo, ora ancor più.
Negli ultimi caotici quattro anni della Libia son state proprio le tutele a creare problemi ai due soggetti che si dividono il Paese, ciascuno nella propria roccaforte: Serraj nella Tripolitania, Haftar in Cirenaica, mentre nel Fezzan desertico, ma non privo di pozzi, s’è mosso di tutto: jihadisti, bande armate di vario genere, trafficanti di vite, migranti economici, rifugiati  disperati in cerca di salvezza in quel Mediterraneo diventato mare di morte. Ai due leader, o pseudo tali, fanno riferimento decine di gruppi tribali, che forniscono uomini alla causa di ciascuno in cambio di favori  (parte dei proventi dell’estrazione) né più né meno che come ai tempi del colonello della Jamahīriyya, lui decisamente più furbo nel saper vendere ideali e carisma. Merce sconosciuta ai due contendenti, nonostante l’ulteriore appoggio ricevuto da alcune potenze locali (Turchia e Qatar sono pro Serraj, Egitto e Arabia Saudita sostengono Haftar), ma ciascuno bada ai suoi giochi. Il più inquietante è quell’asse militar-reazionario fra il Mediterraneo orientale e il Golfo, non a caso gradito alla casa Bianca.
Eppure la “diplomazia del business” nei mesi scorsi ha operato per cercar di avvicinare le parti, conservando magari un Paese diviso pur di continuare a estrarre barili di greggio e risollevare un’estrazione caduta in alcuni periodi a 450.000 barili al giorno, mentre prima della crisi del 2011 se ne ricavavano un milione e seicentomila. E in più far lavorare l’indotto che Eni, Total, British Petroleum e altre presenze hanno sul territorio, proprio partendo dal sottosuolo. Secondo taluni osservatori le dichiarazioni di certi capibastone proclamatisi combattenti (un esempio è tal al Badi della Settima Brigata assediatrice di Tripoli) che parlano di ruberie ai danni della popolazione, e corruzione, e faccende private da inserire nei rapporti con la politica, affermano verità, ma lo fanno perché si son visti  esclusi da proficue spartizione di cassa e di potere. E sembra non esserci salvezza, dentro e fuori il Paese, visto che l’ipocrisia (e gli interessi) occidentali, dopo aver confezionato un governo fantoccio, accettato la presenza d’un signore della guerra, secondo le fasi amico e nemico, vorrebbe inscenare la farsa elettorale entro l’anno. Ora tutto sembra complicarsi.