giovedì 28 luglio 2016

Jihad afghana: talebani contro Daesh

I dissidenti del nord-est - La vicenda narrata da Ubaid Ali - un ricercatore che ha seguìto le concitate fasi dell’attacco talebano a Kunduz - su nuclei di miliziani uzbeki del Jundullah Group, è sintomatica di quanto sta accadendo in questi mesi in Afghanistan. Una lotta per l’egemonia nell’insorgenza contro le truppe Nato e l’esercito afghano e per il controllo di tante province, dove dettano legge i governatori-ombra che rispondono alla turbolenta famiglia talebana. In alcune di queste zone l’Isis cerca e trova alleanze per dissapori e contrasti fra gruppi etnici minoritari e i vari clan della galassia talebana. E’ accaduto nell’autunno 2015 nell’area di Takhar: lì i membri del Jundullah hanno portato la bandiera nera del Daesh in alcuni villaggi. Takhar è un distretto di circa un milione di abitanti, prevalentemente di etnìa tajika e uzbeka e qualche presenza hazara. Il 9 settembre 2001 in quella località venne assassinato il comandante Massoud, utilizzando un’intervista televisiva mascherata. Una trappola alla quale non sfuggì neppure il mitizzato leader militare dell’Alleanza del Nord. Quali legami hanno avuto gli attuali guerriglieri uzbeki del Jundullah con Abdolmalek Rigi, capo della struttura combattente originaria presente nel Baluchistan, che venne catturato, processato e impiccato nel carcere iraniano di massima sicurezza di Evin nel 2010, non è dato sapere. Probabilmente nessuno, vista la distanza temporale che separa i fatti: cinque anni nelle vicende di combattentismo e terrorismo possono diventare un’eternità. Certo le azioni di disturbo verso Teheran compiute dall’organizzazione proseguono e insistenti voci indicano una copiosa infiltrazione del gruppo da parte di agenti della Cia, com’era accaduto per Qaeda. Così i distinguo compiuti dai talebani afghani, che s’oppongono ferocemente agli Usa, sono risultati più marcati.
Chi è Jundullah - E’ un gruppo composto da uzbeki e tajiki, più arabi e aimaq che tempo addietro s’era diviso dal movimento islamico uzbeko (Imu). Il movimento uzbeko aveva avuto un ruolo nel conflitto civile tajiko degli anni Novanta, prima di ritirarsi in Afghanistan e allearsi coi talebani durante il loro governo (1996-2001). Dopo la caduta del regime degli studenti coranici elementi del Jundullah seguirono i talebani nell’esilio in Pakistan e nella nuova base nel Waziristan. Dal 2009 Jundullah ha combattuto al fianco dei talib contro il governo Karzai, conservando però fronti di lotta indipendenti, con comandanti separati in due distretti di Kunduz e uno a Takhar. Già nel 2014, sotto il nuovo leader Osman Gazi, il movimento uzbeko aveva trasferito il suo appoggio dal network talebano a quello del Daesh. Fu sempre Gazi, a fine di quell’anno, a dubitare della sopravvivenza del mullah Omar, tanto da esplicitare il suo assenso alle scelte di Al Baghdadi, chiamandolo ‘Califfo’ e accettandone l’autorità. La decisione era assecondata da altri nuclei uzbeki. Nel novembre 2015 il neo leader talebano Mansour ordinò un attacco a questi dissidenti nell’area di Zabul, dove Gazi trovò la morte. La rottura coi Taliban riavvicinò Jundullah al movimento islamico uzbeko E quest’ultimo restituì il gradimento, accusando i turbanti locali di combattere i migranti uzbeki che avevano lasciato le loro case per venire a proteggere l’Islam. Anche costoro svolgevano azioni di resistenza contro l’esercito di Kabul senza accordarsi coi vertici talebani. Il reclutamento avveniva fra la gente delle province di Kunduz e Takhar, alla cui guida si era posto un giovane religioso, Qari Yaser, rimpiazzato dopo la morte da un altro chierico, Khairullah, parente del mullah Muhammad Ali, un ex comandante talebano di Baghlan.
Clan ed etnìe - A un certo punto per motivi sconosciuti Khairullah sparì (fuggito?, ucciso da amici diventati nemici? non è dato sapere) e alla direzione del gruppo è comparso tal Qari Salahuddin, un uzbeko proveniente da una famiglia religiosa. Il padre e il nonno erano stati predicatori in una moschea dell’area di Borka e lo stesso Salahuddin rivestiva quel ruolo. Secondo una fonte vicina ai talebani questo nuovo leader veniva accreditato dai miliziani uzbeki più anziani e portava con sé decine di combattenti. Nell’agosto 2015, il capo Jundullah della provincia di Kunduz, Qari Bashir Madani, fu ucciso assieme ad altri luogotenenti da un attacco statunitense coi droni. Il gruppo s’era indebolito e con l’offensiva talebana su Kunduz i turbanti minacciavano di disarmare i dissidenti che non si fossero uniti a loro. Così la maggioranza dei guerriglieri Jundullah riparò verso Eshakamesh e Takhar, aree a sud di Kunduz divenute di opposizione ai talebani anche per quanto era accaduto nei sei anni precedenti: i talebani rivestirono sempre meno un ruolo sovra etnico, avvicinandosi alle minoranze pashtun. Uzbeki e tajiki si sentivano abbandonati ma volevano proseguire una resistenza antigovernativa pur avendo limitata organizzazione militare. A fine settembre scorso, quando iniziava l’assedio talebano di Kunduz, i combattenti di Salahuddin lanciarono un proprio attacco al distretto di Eshkamesh e iniziarono una propaganda pro Isis nei villaggi. Secondo altri osservatori ciò accadeva solo perché tutti i reparti talebani erano impegnati nella battaglia di Kunduz. Il mullah Jano, talebano capo della locale commissione giudiziaria, nel giro di poche ore rimpiazzò Salahuddin con un comandante pashtun a lui gradito tal Saifullah, fino a quel momento capo della commissione militare nel distretto. Insomma i Taliban si son trovati di fronte al bivio di reprimere i giovani uzbeki affiliati al Daesh e ascoltare le suppliche dei loro capi tribali più anziani che promettevano di non offrire più rifugio a Salahuddin e a chi lo seguiva. Un conflitto generazionale.

Le radici talebane – Malgrado l’iniziale minaccia di uccidere Salahuddin, i talebani necessitavano d’una buona motivazione. Se l’avessero ucciso la tensione etnica, che comunque ribolle sotto la superficie, si sarebbe indubbiamente intensificata. Tutto ciò avrebbe danneggiato e forse azzerato le relazioni fra talebani e comunità uzbeche. Questo confronto a distanza, che si sarebbe potuto trasformare in aperta competizione, era considerato uno strappo pericoloso anche per Salahuddin che probabilmente ha diminuito le pretese. Così negli ultimi tempi agli alleati del Daesh restava una presenza significativa solo nella provincia del Nangrahar, mentre nel nord-est essa non risulta più né ampia né preoccupante. Le bandiere sventolanti sembrano siano limitate ad alcuni villaggi e i miliziani neri sono stati inseguiti da distretto a distretto, a differenza di quel che era accaduto a Farah nel 2015. A detta dello studioso ultimamente i simpatizzanti del Daesh riducono il loro impegno all’uso della propaganda con videomessaggi tradotti in dari e diffusi tramite la rete e social media: c’era anche una pagina su Facebook denominata Mujahedin-e Qala-ye Zal, in seguito cancellata. E’ difficile determinare il numero di questi supporter, sia di quelli che imbracciano un’arma sia di chi usa l’arma del web. Ciononostante, addirittura la capitale è posta sotto scacco da attacchi combinati e stragi mirate, com’è accaduto alla recente manifestazione della gente hazara che protestava contro decisioni governative sulla negazione di una vitale linea elettrica. Quali siano le basi dell’Isis a Kabul è l’ennesimo mistero mediorientale, con una pista che oltre alle spiegazioni degli interessi etnici va diritto verso gli intrighi della finanza geostrategica e militare con tanto d’implicazione delle Intelligence.

mercoledì 27 luglio 2016

Jihad, le radici dell’odio: tre voci


Questione religiosa, ricorso strumentale alla religione, follìa che porta alla distruzione. Tre punti di vista trovano spazio sulla stampa italiana attorno all’ultimo agguato nel segno della jihad compiuto da poco più che adolescenti contro l’anziano parroco di Saint Etienne de Rouvray, in Normandia. Sgozzato. E quest’orrore, che getta sangue sul presunto Islam richiamato dal giovane attentatore e assassino, è una riproposizione nella sacralità d’un luogo di per sé inviolabile, di quelle criminali pratiche svolte altrove, dove solo parzialmente la mediologia globale riesce a riprendere, riprodurre e rivelare. Stragi considerate lontane che invece ci giungono in casa e da un anno a questa parte angosciano l’Occidente. Jean-Louis Tauran, francese, cardinale e ministro nei rapporti con altre religioni per il Vaticano di papa Bergoglio, interpellato da La Repubblica, considera il tragico omicidio: “Un passo in più dentro l’abisso, una follìa che porta alla distruzione”. Che non appartiene all’Islam poiché “l’Islam insegna altro, e qui non credo centri la religione. Non è giusto davanti a questi attentati parlare di religione”. Per il prelato la risposta più adeguata è “Il dialogo. Per rompere la catena infinita della ritorsione e della vendetta, l’unica strada percorribile è quella del dialogo disarmato”. E dell’educazione. “Occorre un’educazione che parta dalla giovane età. E’ il primo strumento per contrastare qualsiasi estremismo e follìa omicida ”.
George Corm, nato ad Alessandria d’Egitto ma libanese d’adozione, economista e storico e fra il 1998 e 2000 anche ministro delle finanze in un governo di passaggio diretto da Selim Ahmed Hoss, concede a L’Avvenire un pensiero storico. Cita nazioni che pretendono: “di essere portavoce di una religione: il Pakistan con l’Islam, Israele costruito sull’ebraismo, l’Arabia Saudita, dove il sostegno degli Usa permise (e permette, ndr) alla famiglia Saud in alleanza con la corrente wahhabita di creare un regno fondato sul radicalismo sunnita. E’ la stessa logica che spiega l’addestramento da parte degli Usa di combattenti islamisti in funzione antisovietica in Afghanistan, che pose le basi di Al Qaeda:…in tutti questi casi, la fede viene chiamata in causa per essere messa la servizio di altri interessi. Aggiunge: “Dopo lo choc delle guerre mondiali nel Novecento, quando ci si scontrò drammaticamente con i limiti dei valori illuministi e marxisti, si è verificato uno spostamento verso il multiculturalismo: il concetto dell’eguaglianza di fronte alla legge è stato abbandonato a favore del “diritto di essere diversi” , come forma avanzata di democrazia in grado di assecondare le specificità etniche o religiose dei cittadini”. La ‘comunitarizzazione’ del mondo mostra i suoi limiti ”Quando le differenze di ogni singola comunità vengono organizzate politicamente all’interno di una società, si va incontro a tensioni permanenti, come in Belgio, come in Libano. Un meccanismo che, più che tutelare la diversità, favorisce il divide et impera”.
Il filosofo italiano Giulio Giorello, ascoltato da Il Giornale dichiara di veder circolare: “Un sacco di analisi che applicano alla questione i vecchi canoni marxisti. Non di Marx, ma dei cascami ideologici delle teorie di Marx. Si cerca sempre la spiegazione sociologica, economica si discute d’imperialismo. Non nego che esistano anche queste questioni. Ma qui il nocciolo è religioso, la religione è centrale, non è ‘sovrastruttura’. Dobbiamo difendere a tutti i costi il pluralismo religioso, il diritto di circolare liberamente. E’ arrivato, secondo me, il momento di agire con durezza contro i fanatici, se non difendiamo la laicità della nostra società corriamo dei rischi enormi”. “Il muro contro muro tra religioni non credo possa portare buoni risultati. Sono gli Stati che devono avere un atteggiamento diverso. E anche la società civile deve avere un atteggiamento senza se e senza verso l’intolleranza religiosa. Ci sono questioni su cui dovrebbero intervenire gli islamici illuminati, se ce ne sono… La violenza sta uccidendo dall’interno la loro religione, il loro Dio. Iniziamo anche a dire che non siamo più disposti ad accettare la tolleranza verso gli estremisti nei Paesi arabi. Costoro non possono pensare di sfruttare la tecnologia occidentale e basta. La nostra tecnologia è figlia del pensiero scientifico, della laicità e della pluralità, non si può distaccarla dal pacchetto”.

lunedì 25 luglio 2016

L’Afghanistan fra bombe, vittime, profughi, occupazione nel rapporto Unama

Le cifre son fredde, seppure impressionanti. Inorridiscono solo gli animi più sensibili che di fronte al sangue, all’odore di carne bruciata non ce la farebbero a sopportare come fanno i volontari di certe Ong. Non riuscirebbero a operare, salvando quel che si riesce a salvare come accade ai dottori di Emergency e Médicins sans frontières, se non diventano anch’essi bersagli. E per crimini di guerra che non verranno mai dichiarati tali, lo diventano come a Kunduz nello scorso ottobre. I dati dell’Umana divulgati proprio in concomitanza con l’ultima grande strage di civili avvenuta in Afghanistan - seppure questi civili siano diventati bersaglio perché avevano assunto una funzione di attivisti con la pacifica protesta rivolta al governo Ghani - parlano di 5.166 cittadini colpiti nei primi sei mesi di quest’anno. 1.601 di loro non ce l’ha fatta, 3.565 sì. Ma con quali conseguenze è un discorso a parte. Chi ama la vita ci rivelò che preferiva camminare con le grucce, invece d’esser finito sottoterra come alcuni parenti, comunque onorati dall’uomo non più bipede. E’ l’altra faccia di quella che si definisce vita: sono i freddi numeri dei sopravvissuti tramutati nel mucchietto di pelle e ossa che se ne sta accartocciato in qualche angolo polveroso di Kabul, aiutato dall’elemosina che è pur sempre il terzo pilastro dell’Islam.
E poi taluni dottori, fisioterapisti, tecnici compiono miracoli con protesi sempre più sofisticate. Restano, certo, le cicatrici dell’anima, ma quelle stazionano profonde nella psiche prima che nel corpo e non scompaiono più. Neppure nell’amico Alì, uno che ce l’ha fatta. Le cifre dell’agenzia Onu, dunque, testimoniano un incremento del 4% della distruzione di vite e persone dal 2009 a oggi. Quel periodo è una sorta di confine dell’oblìo perché negli anni precedenti, egualmente orribili, i calcoli erano più incerti, i tragici conteggi approssimativi. Dal 2009 63.934 afghani sono stati uccisi o feriti. 22.941 e 40.993, seconda la statistica che nella sua spietata esattezza ricorda al mondo occupato in altro, quanta morte viene seminata, senza probabilmente farlo riflettere sul tema. Le strutture umanitarie per antonomasia più sensibili, riportano dati riferiti a bambini (1.509 in totale, con 388 vittime e 1.121 feriti) e donne (130 contro 377). E proseguendo coi numeri già il sentimento sembra scemare, perché non regge il confronto con l’immagine che, quando arriva, parla sempre meglio di cento dati e di mille parole. Ma non è più drammatico racconto se i pruriti del fermo-immagine non inducono a riflessione. Medita sui freddi numeri una nota dei funzionari Onu: le cifre sono pur sempre sottostimate poiché, nonostante gli sforzi compiuti, ancor’oggi molte vittime afghane si tramutano in polvere, senza lasciare traccia.
Ha dichiarato Tadamichi Yamamoto, Segretario generale della rappresentativa in Afghanistan e responsabile dell’Unama, nel comunicato che accompagnava i dati che “… dietro ciascun caso di quelli riportati fra morti e feriti c’erano persone che lavoravano, pregavano, studiavano, erano ricoverate in ospedale”. Era l’esercito pacifico di gente che ha forza e coraggio, desiderio e disperazione, ha la lucida follìa di continuare a condurre un’esistenza sulla terra degli avi mentre tutt’attorno si muovono truppe e cannoni, esplosivo, kamikaze, kalashnikov e dal cielo piovono missili. Non è fiction, né villaggio globale, è la cruda realtà con cui deve fare i conti la quarta generazione nata sotto una guerra. Secondo il documento il 60% di questo scempio è compiuto dalle forze resistenti considerate terroriste dal governo kabuliota, ma, dati alla mano l’Onu dice che il 23% dello strazio sui civili è compiuto da soldati di casa agli ordini dell’esecutivo Ghani-Abdullah, e sale al 47% se comparato allo stesso periodo del 2015. Un quadro desolante. Si calcolano poi 157.987 abitanti che dalle zone in conflitto abbandonano quei luoghi e vagano. Vagano da sfollati all’interno del Paese, fuggono spesso oltre i confini orientali, ma soprattutto occidentali alimentando la rotta di profughi e rifugiati. Chissà se i nostri ottocento militi che vivono blindati a Camp Arena leggeranno mai il rapporto. E soprattutto se daranno un senso alla loro presenza con quella divisa.

sabato 23 luglio 2016

Kabul, il massacro degli odiati hazara

E’ stato un lampo, non la luce agognata, a portarsi via decine di afghani d’etnìa hazara. Venivano in gran parte dalla provincia di Bamyan e protestavano contro il governo che aveva cambiato il tragitto della linea d’alta tensione progettata dall’impresa Tutap che coinvolge ben cinque nazioni (Turkmenistan, Uzbekistan, Tajikistan, Afghanistan e Pakistan). Una mega impresa, fra le poche che forniscono servizi alle comunità, finanziata da una grande banca asiatica (Asian Development Bank). Gli hazara di fede sciita, da sempre poco amati dalla maggioranza pashtun totalmente sunniti, si vedevano penalizzati perché il progetto li tagliava fuori dal percorso, mutando un’iniziale direttrice. Così avevano marciato in migliaia, sfidando l’aria che da oltre due anni tira nel Paese diventato ovunque, capitale compresa, territorio off limits per tutti. Nessun militare del Resolute support, dell’esercito di Ghani, e neppure certi signori della guerra suoi alleati, riesce a controllare quasi nulla del territorio. Ci vivono ma possono essere colpiti. Per le presenze occulte, mirare ai manifestanti è stato fin troppo facile. Hanno usato kamikaze nascosti sotto dei burqa che si mescolavano ai partecipanti, come le donne celate sotto il velo integrale che passavano per via.
Nessuno ha voluto controllarle nonostante il punto d’arrivo della marcia si trovasse in una zona centrale di Kabul, Deh Mazang circle. Il castigo è stato tremendo: all’ospedale di Emergency di Kabul sono giunti oltre duecento feriti, molti in condizioni disperate, mentre nella piazza si contavano ottanta corpi maciullati. L’attentato risulta sanguinosissimo come non se ne vedevano da tempo e sarebbe potuto essere ancor più devastante perché la cintura d’un terzo kamikaze non è esplosa, circostanza che fa pensare a una preparazione non professionale degli ordigni. La determinazione stragista era, però, elevatissima e indica il desiderio d’imporsi nella strategia del terrore riapparsa pesantemente in ogni provincia afghana. Dietro le bombe, secondo quanto ha divulgato la Bbc, ci sarebbe un gruppo legato all’Isis che vuol introdurre anche nel disastrato territorio afghano quei massacri diffusi e inaspettati di civili come sta facendo in Pakistan. I talebani locali hanno preso le distanze e condannato l’azione. Ma il Daesh da circa due anni cerca adepti e alleanze in tutta l’area e l’ha trovata in alcuni dissidenti dalla linea unitaria dei Talib. Rinata non tanto con l’elezione di Mansour (avvenuta un anno fa e durata pochi mesi poiché a primavera il neo leader è caduto vittima d’un drone), ma dal suo rimpiazzo con Haibatullah.
Questi è un mullah vicino alla Shura di Quetta, benvisto anche da un fondamentalista doc come l’integerrimo Sirajuddin Haqqani. Eppure le emanazioni di Al Baghdadi continuano a farsi sotto, hanno iniziato ad agire nel territorio cuscinetto delle Fata, le aree tribali fra Afghanistan e Pakistan dove ogni clan talebano ha una presenza stanziale o passeggera. Hanno puntato sulla dissidenza dei Tehreek-e Taliban da due anni attivi e cattivissimi nel vendicare colpo su colpo la guerra che gli conducono i due Sharif di Islamabad, bombardando i villaggi del Waziristan, zona di provenienza di questo gruppo talebano. Insomma hanno cercato d’infilarsi nelle crepe che si erano create dopo la morte del mullah Omar (2013) tenuta a lungo nascosta, ma deleteria per le direttive da dare al movimento. Secondo le indicazioni di Al Baghdadi puntano anche al grande Medio Oriente e hanno cercato d’inserirsi nei distretti centro occidentali di Farah ed Helmand uccidendo decine di talebani. Verso i civili usavano il doppio gioco del terrore con esecuzioni clamorose, come quelle effettuate con esplosivo attaccato alle teste dei malcapitati che non volevano farsi reclutare e le lusinghe di salari mensili di almeno 500 dollari (quanto guadagna un soldato dell’esercito di Ghani) per chi li avesse seguiti.
In quelle province non gli è andata bene, i turbanti locali li hanno respinti, ma nel distretto di Nangarhar, non lontano da Kabul, hanno stabilito una solida testa di ponte, tanto che i vertici talebani preoccupati del fenomeno oltre un anno fa hanno organizzato un reparto speciale d’un migliaio di esperti e fidatissimi miliziani pronti a colpirli nelle enclavi frequentate. Alcuni scontri ci sono stati con perdite reciproche, ciò che prosegue è una lotta a distanza, dove gli stessi attentati, come quello di ieri e altri realizzati in Pakistan, hanno una tragica funzione di propaganda. La partita è violentissima e non esclude alcun colpo, come del resto le reciproche accuse. L’Isis afghano afferma fra l’altro che i talib proteggano gli infedeli, come il wahabbismo considera i credenti sciiti oppure che siano solidali coi talebani dei territori pakistani che sarebbero infiltrati e diretti dall’Intelligence locale. Insomma una campagna senza quartiere che, unisce alla visione islamica differente anche obiettivi di medio e lungo termine diversi. Come Qaeda l’Isis mostra una visione panislamica e agisce su un ampio orizzonte internazionale combattendo gli infedeli ovunque per creare un grande Califfato; i talebani mostrano una visione locale: vogliono liberare la terra natìa dall’occupazione occidentale Nato e abbattere il governo servile di Kabul. Nei loro piani strategici rivolti contro l’imperialismo occidentale e il nemico e concorrente sunnita versione Al Baghdadi hanno avviato informali ma sostanziali incontri diplomatici coi rappresentati di Iran, Russia e Cina. L’opera d’un governo ombra che conta più di quello fantoccio sostenuto da Washington.

giovedì 21 luglio 2016

Erdoğan avvia tre mesi d’emergenza

Novanta giorni d'emergenza, se basteranno. E’ la linea meno dura possibile che salta fuori dalla riunione fiume del Consiglio di sicurezza nazionale presieduta dal presidente turco Erdoğan al cospetto dei suoi ministri fidatissimi. Perciò seguiteranno radiazioni e arresti, purghe e licenziamenti, botte e minacce di morte che è la quotidianità turca dal mattino del 16 luglio. Mentre per diversi militari imprigionati Amnesty International lancia l’allarme sull’uso della tortura e si registra il suicidio d’un capo della polizia compiacente verso i ribelli. E’ il contro golpe galoppante non destinato a fermarsi, perché Allah non poteva fare un regalo più grande all’Atatürk islamico, com’egli stesso aveva confessato nelle ore del ritorno a Istanbul. Da quattro giorni si agisce sull’onda dell’indignazione dell’establishment di governo, della solidarietà espressa da tutto il panorama partitico - da destra a sinistra -, dell’odio che nutriti gruppi di sostenitori dell’Akp sbandierano accanto agli stendardi nazionali: striscioni che osannano la morte dei “cani gülenisti” e chiedono il ripristino della pena di morte. Su questa si pronuncerà prossimamente il Parlamento, come sulla ratifica di normative estreme contro cui ben pochi esponenti della comunità internazionale si pronunciano, perché eccezionale è la fase attraversata dalla Turchia.
Solo l’amica-nemica Merkel s’è detta “preoccupata” per il genere di detenzione riservata ai militari arrestati. E’ però una voce isolata nella compagine occidentale, che vede Obama far telefonate mellite al collega turco, felicitandosi per lo scampato pericolo alla democrazia. Facendo intendere, dunque, che le reazioni di Ankara non siano esagerate, né illiberali. Gli States devono tener botta alle accuse di ospitare il demone che progetta il rovesciamento violento del legittimo governo turco ed è chiaro che la partita diplomatica rimbalza senza tener conto di sofismi sulla democrazia. Certo, quello che la politica anatolica dell’ultimo secolo ha sempre digerito a fatica sia sotto l’indirizzo kemalista, sia con l’islam tradizionalista, e sempre più nazionalista, dell’ultimo quindicennio è l’accettazione della diversità di pensiero dal proprio punto di vista. Egualmente all’imposizione del laicismo in uno Stato che nasceva dalle polveri d’un impero che era stato multietnico e multireligioso, il nuovo corso erdoğaniano cerca di oscurare le altrui tracce, etniche e secolariste che siano. E se non può estirparle o cancellarle del tutto, mira a sottometterle al suo modello. Nei giorni del furore ci riesce, perché dall’europea Istanbul giungono voci di paura più che di timore: anche gli sfrontati ribelli del Gezi park devono tenere un basso profilo.
I ragazzi coi simboli del giovanilismo globalizzato musicale e non si celano ed evitano d’incontrarsi, le fanciulle nascondono le gambe e cancellano i trucchi. Prevale l’omologazione islamica e la storia che corre veloce richiama alla mente come solo sei anni addietro le universitarie di Fatih si dolevano di non potersi mostrare velate nelle aule. Ora girare coi capelli al vento sembra un oltraggio, perché centinaia di testimoni affermano che gli ultrà presidenziali additano le ragazze prive di hijab e le insultano. La vivacissima Istiklal Caddesi di notte rischia di apparire uno dei tetri decumani di Kabul. Eppure la repressione, scattata rapida e violenta nelle ore successive al tentato putsch, con arresti di militari allargati poco dopo a giudici, amministratori pubblici, docenti di scuole e università su, su fino ai rettori, che fa pensare a proscrizioni preconfezionate, deve considerare come queste schedature erano già in possesso dagli apparati del partito di governo e degli agenti del Mıt. L’alleanza sempre più stretta che avvicinava personalmente Gülen a Erdoğan dalla fine degli anni Novanta, aveva fatto conoscere al leader del partito della Giustizia e dello Sviluppo la tattica con cui il movimento Hizmet piazzava i suoi elementi nei gangli vitali della società turca ancora permeata di laicismo kemalista. L’Imam aveva imparato bene la lezione del potere e individuava i punti caldi in cui inserire i seguaci più fidati e finanche i simpatizzanti.
Strutture eccellenti, come l’esercito ben controllato da quei generali che sino alla fine degli anni Novanta ancora inanellavano golpe, nel 1997 l’ultimo, che condusse alle dimissioni il premier Erbakan mettendo fuori legge l’ennesima aggregazione politica islamista. Quindi l’organismo che per sua natura vigila sulla politica: la magistratura e genericamente, poiché ritorna sempre utile a chi fa affari, la burocrazia statale. E ancora: la società del futuro rappresentata dai giovani, dunque, tutte le scuole d’ogni ordine e grado. In ciascuno di questi organismi il “Servizio” gülenista ha attuato le sue ‘infiltrazioni’ e i governi amici dell’Akp lasciavano fare, perché si trattava di alleati che toglievano terreno sotto i piedi ai kemalisti in divisa e abiti civili. Dal 2012, anno in cui oltre ai problemi di politica estera, iniziarono per l’esecutivo erdoğaniano questioni via, via spinose (contestazioni di Gezi park, intrighi e affarismo privato di ministri, riaccesa conflittualità coi kurdi, questione profughi, chiusura all’ingresso Ue) inizia a palesarsi il braccio di ferro su chi deve guidare le menti musulmane del Paese. Dietro alcuni episodi, come i processi per corruzione o inadeguate misure di prevenzione (il disastro minerario di Soma), ci sono giudici prossimi a Fethullah e comunque le idiosincrasie di Erdoğan, scarsamente infondate, crescono. Da qui partono le punizioni mirate del Sultano verso i finanziamenti pubblici alle scuole Hizmet, un colpo durissimo sul duplice terreno ideologico ed economico, oltreché sul programma di penetrazione nella società.
Gülen incassa e medita vendetta, anche se il recente tentativo di golpe, preparato col suo assenso o a sua insaputa, da militari che a lui s’ispirano risulta perdente perché non convince quelle stellette tuttora kemaliste e i tanti ufficiali ormai di sponda erdoğaniana, che osservano e si schierano col meno sprovveduto. Il caso del reo confesso (sotto pressione speciale o tortura?) colonnello Türkkan, consigliere primo di una delle menti golpiste, il generale Hulusi Akar, che ha ammesso di aver tramato contro la nazione (e rischia, dunque, la forca se verrà reintrodotta) è esplicativo d’un sistema che affiliava adepti preparandone la via per una carriera di rango. Levent Türkkan ha raccontato ai giudici gli sviluppi del percorso militare, partendo dalla propria vita privata. Segnata da un’infanzia grama in una famiglia di umilissime origini, com’era la maggioranza del popolo turco fino a un trentennio fa. Nel caso dei suoi genitori si trattava di agricoltori poverissimi e fedeli all’Islam che vennero avvicinati da adepti gülenisti pronti a sostenere il figliolo negli studi. Il “Servizio” preparò il giovane Levent all’esame nell’Accademia militare di Ișiklar. Da lì l’ingresso nell’esercito e un incremento d’incarichi che lo portò a compiere servizi di vigilanza anche a politici e ministri. L’uomo ormai fedele a Hizmet le avrebbe compiute a suo modo. O meglio nella maniera confacente a ordini superiori: piazzando microspie nelle stanze delle massime autorità dell’esercito. Questo confessa oggi Türkkan. Un percorso credibile, bisogna capire quanto indotto, sia prima, sia ora dalla lotta per il potere dei due padroni dell’Islam turco. Una lotta che continua.

martedì 19 luglio 2016

Turchia, aria di pena di morte

Dura lex - Anche ieri a Istanbul una folla si stringeva attorno al leader salvato, con qualche hijab in più, quelli che nella notte della tensione e della difesa del leader e della patria, i mariti, i fratelli, i padri avevano fatto stare in casa. Probabilmente per tradizione anziché per senso di tutela. Erdoğan in persona ha annunciato per domani un Consiglio di Sicurezza Nazionale che prenderà in esame la situazione straordinaria in cui la Turchia si ritrova dopo il tentato golpe. In realtà quel Paese vive da un anno una guerra civile strisciante nel sud-est, dove la comunità kurda è massacrata da reparti dell’esercito. E’ sotto attacco per mano dell’Isis con bombe  sanguinarie rivolte ai civili e con attentati mirati di miliziani del Pkk contro obiettivi dell’esercito. La Terza armata, diretta da uno dei generali golpisti, era impegnata proprio nella repressione delle province orientali dell’Anatolia e aveva subìto cospicue perdite in assalti dei guerriglieri kurdi. Il presidente da politico navigato della categoria più pericolosa, quella degli autocrati e giocatori d’azzardo con le sorti della nazione, non ha rivelato quale sarà il tema clou dell’assise di domani. Per quanto s’è visto e sentito nelle ultime ore, in cui la vendetta prende il posto della difesa delle istituzioni e della terzietà della giustizia, in tanti pensano si tratterà del ripristino della pena di morte.
Il popolo lo vuole - Introdotta o agitata come una minacciosa clava sulla testa dei nemici interni e dei falsi alleati occidentali. Misura estrema da riattivare nei casi estremi: l’alto tradimento di cui si sono macchiati militari e soprattutto ufficiali golpisti. La loro conta s’è fermata, per ora, a seimila, cui s’aggiungono oltre un migliaio di civili che lavoravano per l’esercito e che sono ritenuti complici o semplicemente vicini al movimento Hizmet, la struttura non organizzata in partito manovrata da Fethullah Gülen, che secondo gli accusatori agisce come un partito occulto, anzi come uno Stato parallelo e mina i gangli degli organismi ufficiali. Ma nei due giorni seguiti allo shock dei voli radenti di F-16, di cannoni per via e alcuni missili sui palazzi del potere, sono comparse ampie liste d’indagati e reprobi, secondo parecchi commentatori preparate da mesi e lasciate nei cassetti per l’opportuno uso che quest’occasione fornisce. E poiché gli arresti di queste ore sono molto più numerosi di quelli che il regime erdoğaniano ha praticato negli ultimi anni, dalla rivolta del Gezi park all’imbavagliamento di giornalisti e oppositori, i timori crescono. Anche alla luce del sostegno popolare alle misure draconiane. Sono in atto veri e propri pogrom con sospensione e sostituzione di giudici (3.000), licenziamenti nei ruoli statali (9.000) una svolta inquietante che, se si dovesse reintrodurre la pena di morte, diventerebbe apocalittica.  
L’incubo del passato - La forma coercitiva estrema e inumana in Turchia è stata sospesa recentemente, proprio durante il premierato di Erdoğan, nel 2004. All’epoca la linea del capo del Partito della Giustizia e dello Sviluppo appariva conciliante, si parlava di democrazia oltre che di crescita economica ed emancipazione per gli strati più umili. Si voleva cancellare l’immagine arretrata e canagliesca che i regimi militari avevano perpetuato per decenni, costringendo alla galera lo stesso leader islamico la cui fedina penale sporca gli consentì un ritorno in politica solo dal 2002, l’anno della scalata al grande potere. Nei vari colpi di stato gli elmetti kemalisti avevano seminato sangue e terrore. Soprattutto fra il 1980 e l’84 quando gli oppositori impiccati salirono a cinquanta. Nel 1972 sul patibolo erano saliti i leader dell’opposizione studentesca Deniz Gezmiș, Hüseyn İnan, Yusuf Aslan. Nel 1961 i generali avevano messo la corda al collo all’ex primo ministro Adnan Menderes, figura storica della Turchia moderna, che staccandosi dal partito unico kemalista veniva considerarato colpevole d’aver rivolto troppo lo sguardo all’Islam e legalizzato la preghiera in arabo. Con lui salirono sul patibolo due membri dell’esecutivo: Zorlu e Polatkan. Quella tolleranza che aveva condotto Ankara a bussare alle porte di un’Unione Europea, rimasta sempre riottosa e matrigna verso le sue richieste, potrebbe sparire per l’attuale real politik.
I Paesi della morte - Fra i propri molteplici peccati la Ue conserva il buon senso di mostrarsi fedele ai princìpi illuministici del Beccaria ed è l’unico continente assieme all’Oceania a non utilizzare la condanna a morte. Diverse sono le situazioni di Asia, Africa e Americhe, col presunto cuore della civiltà degli Stati Uniti. In Asia la pena capitale è ammessa con diverse motivazioni in: Afghanistan, Arabia Saudita, Bangladesh, Cina, Corea del nord, Emirati Arabi Uniti, India, Indonesia, Iran, Iraq, Giappone, Giordania, Kuwait, Malesia, Pakistan, Singapore, Siria, Taiwan, Thailandia, Vietnam, Yemen. In Africa in: Libia, Egitto, Etiopia, Guinea equatoriale, Botswana, Nigeria, Somalia, Sudan, Sud Sudan.  L’unica nazione del continente americano a utilizzare la pena letale sono gli Stati Uniti. Non tutti, solo in 24 Stati i boia sono al lavoro. I motivi delle condanne, secondo gli usi, i costumi, le fedi, le ideologie di ciascuna nazione, possono essere vari e dal comune denominatore di altro tradimento e attentato alla sicurezza del Paese e del popolo, si passa a diserzione, terrorismo, apostasia, omicidio, stupro, rapina, traffico di stupefacenti, prostituzione, stregoneria, omosessualità, frode e altro ancora. Sulle sponde del Bosforo, nella bella Istanbul resa cosmopolita dalla storia trascorsa e da quella recente tratteggiata dal turismo, si teme che la Turchia possa rientrare in questo tragico elenco, introducendo, come nei tempi bui, il reato di pensiero e di speranza in una società diversa.

domenica 17 luglio 2016

Turchia, il piccolo golpe di militari smarriti

Golpisti stralunati - Arresi, pentiti, percossi. Umiliati e smarriti prima d’essere arrestati. Così sono apparsi i militari golpisti assediati dal popolo di Erdoğan solo in alcuni casi inferocito e armato di bastoni su corpi denudati della dignità prima che delle divise. Accanto alla scena più assurda del manipolo in mutande e pance da sergenti pensionandi più che da reparti d’assalto, anche i giovani operativi visti in azione nell’edificio della tivù di Stato posto sotto assedio per annunciare l’operazione del sedicente “Comitato della Pace”, avevano volti incerti e sfuggenti. Altrettanto vaghi apparivano i piloti degli F16 che puntavano a intimorire la gente di Istanbul con voli radenti e nella capitali mitragliavano Parlamento e Palazzo presidenziale. Per fare cosa? Anche in questo caso tutto appariva indeterminato, quasi una prova di colpo di Stato, che dopo quattro ore rientrava. Di contro il discorso d’un presidente che pareva in difficoltà e in fuga, lanciato dalla scatolina tecnologica d’uno iPhone e rimbalzato nel cyberspazio d’un Islam conservatore però connesso, produceva gli effetti d’un raduno di massa. Una mobilitazione politica prima che tecnologica, fideistica oltre che patriottica, seppure anche quest’altre motivazioni abbiano avuto il loro peso in un bel pezzo di nazione che - nonostante l’incertezza del conflitto interno (coi kurdi), la paura di attentati (del Daesh e del combattentismo di casa), l’emergenza profughi - riteneva la soluzione militare non più un porto sicuro. Una posizione espressa anche da tutti gli oppositori d’un Sultano non amato dai frustrati repubblicani (Chp), dai marginalizzati nazionalisti (Mhp), dall’opposizione di sinistra (Hdp) arrestata e repressa che unanimemente ha detto no al naufragio putschista.
Un golpe per chi? - E allora ci s’interroga su quali animi avrebbe dovuto smuovere il colpo di mano dei ribelli in divisa, quale seguito avrebbero potuto avere costoro se alla chiusura dei ponti sul Bosforo e all’occupazione dei media televisivi a festeggiare erano soprattutto i rifugiati siriani pro Asad in una Istanbul in movimento per il fine settimana. Anche il più ferreo fra i generali arrestati, Erdal Ozturk comandante della Terza armata, quella impegnata e provata dalle centinaia di sue vittime negli scontri coi guerriglieri del Pkk e autrice della soffocante, sanguinosa repressione del popolo del sud-est, non è stato in grado d’imprimere una svolta efficace a un’azione che doveva impedire operatività all’uomo simbolo della Turchia islamista. I caccia non hanno fermato il volo presidenziale, ma accanto alle carenze tecniche e tattiche l’intera operazione è parsa priva di strategia. I golpisti turchi dei tempi andati mettevano forza ed efficienza a disposizione di quei capi militari che dialogavano su un doppio terreno: internazionale rivolto allo scudo Nato monitorato dal Pentagono, interno dialogante con quei movimenti della tradizione presenti nel partito unico kemalista che hanno sempre avuto nel nazionalismo sfrenato un referente ideologico. Ma questo nell’esercito turco, trasformato da oltre un decennio di depurazioni e cooptazioni dei vertici, quasi non esiste più, oppure costituisce una fetta minoritaria che con le attuali tremila incarcerazioni, e il rischio di qualche esemplare condanna a morte, verrà ancor più modificato. La componente securitaria per eccellenza, è poi diventata il partito di governo, quell’Akp, che quando “vacilla elettoralmente” incamera pur sempre un 40% di consensi, cosicché può disporre d’un retroterra di pretoriani rappresentati dai militanti politici. Per ora, in gran parte disarmati, non siamo di fronte a nulla che fa presumere organismi simili ai ‘Lupi grigi’. Eppure chissà?

Militanza e milizia - Il Paese si difende con ogni mezzo contro ogni nemico, cosicché le Istituzioni possono affiancare ai fedeli poliziotti e agenti del Mıt, anche un’ulteriore forza di difesa popolare. A questo punto la lettura dietrologica del piccolo golpe eterodiretto da ‘infiltrati fidati’, che avrebbero soffiato su una smania di protagonismo del manipolo di generali e ufficiali scontenti, può trovare sostegno in quell’aria già tarata in partenza dall’incapacità e impossibilità di quest’ultimi realizzare una mossa che fosse degna d’un qualsiasi progetto. Il gruppo poteva avere come riferimento l’islamico d’America Gülen, essere da lui ispirato o prestarsi inconsapevolmente a una manipolazione. In entrambe le ipotesi ha mostrato solo la volontà di abbaiare senza mordere, ha prestato il fianco all’autodifesa (o regìa occulta) di un regime. Colui che doveva diventare bersaglio d’un repulisti “democratico” ha rovesciato il tavolo e con seimila arresti di militari e magistrati sta compiendo la sua pulizia in difesa d’una  “democrazia” personale. Con essa può convincere la maggioranza assoluta dei turchi, quella che votando a un referendum costituzionale, potrebbe raccogliere i 2/3 dei consensi, e stringersi attorno a lui leader amato e odiato. Il disegno può riuscire perché l’orizzonte politico, come mostra quest’ultima esibizione para muscolare di cannoni che non sparano, sembra contare molto più di quello tecnico-militare. Tale mossa riceve prospettive e coraggio solo se trova leader e programmi da attivare e attuare. Il paradosso dell’odierna Turchia è che l’unico politico che può mobilitare un colpo di mano è colui che l’ha subìto. E il golpe democratico che il Paese potrà conoscere lo sta preparando Erdoğan stesso in quelle che si preannunciano come le settimane del furore.