mercoledì 30 novembre 2022

I Tehreek-e Taliban riprendono a colpire in Pakistan

Hanno concesso due giorni al premier Sharif, ai generali Munir e Mirza e pure all’ex arrabbiato Khan, i Tehreek-e Taliban che avevano annunciato una ripresa delle ostilità. Così un attentato preliminare raggiunge un veicolo militare nella zona di Quetta, città simbolo dei turbanti e del loro eterno Pashtunistan. Un agguato vecchia maniera, realizzato da un kamikaze che rappresenta un ulteriore segnale nella ripresa delle ostilità: i miliziani che sacrificano se stessi per il Jihad contro lo Stato servo dell’Occidente, non mancano. Questo dice l’uomo-bomba. Lo scoppio s’è portato via oltre alla sua vita, un poliziotto e tre civili, fra costoro una donna e un bambino. Si registrano anche una trentina di feriti, poiché accanto al camion della polizia altri due fuoristrada sono stati investiti dall’esplosione. Erano occupati da personale sanitario che interviene nell’area per praticare vaccinazioni antipolio. Una prima valutazione della potenza esplosiva fa pensare ad almeno due decine di chili di polvere impiegate nella bomba, il cui trasporto nel vestiario del kamikaze costituiva un ingombro non indifferente.  Le reazioni delle autorità sono stizzite verso forme di puro terrorismo che si riversa sui civili, nonostante i pronunciamenti della leadership talebana. Ma si riflette anche sull’inefficacia dell’azione repressiva intrapresa negli ultimi tempi. Giudicata leggera da chi rimpiange la durezza che fu dei due Sharif - Nawaz al governo, Raheel alle armi senza legami di parentela fra loro ma uniti nell’intento persecutorio su taliban e famiglie. Eppure quella linea non riusciva a piegare l’islamismo armato, come non hanno prodotto risultati le trattative intraprese dal populismo di Imran Khan e dal pragmatismo di Shehbaz Sharif. Tutto resta aperto nel Paese dove il fondamentalismo delle madrase deobandi continua a sfornare miliziani per il contropotere talebano, ma non si deve dimenticare come gli stessi leader della politica duettano con questo contropotere non solo quando aprono tavoli di confronto. Cercano appoggi indiretti alle proprie amministrazioni in cambio di finanziamenti alla causa taliban. Insomma la mano che reprime, se davvero lo fa, è la stessa che nutre l’insorgenza antistatale. L’Inter-Services Intelligence è esperta in materia.  

 


Pakistan: leader, militari e mogli-faccendiere

 


Un’indagine che parrebbe gossip politico-finanziario, e che invece è legata all’aria che tira in questi mesi nelle alte sfere pakistane, mostra il volto d’una nazione ricca di spunti per conflitti interni che possono rincorrersi all’infinito. La nomina della coppia di generali ai vertici della casta militare può trovare nella persona di Asim Munir un osso duro per taluni leader. Uno in particolare: il premier defenestrato Imran Khan, recentemente ferito in un attentato che ha tutto il sapore dell’avvertimento. Avvertimento per cosa? Per la sua irruenta reazione all’allontanamento dall’incarico avvenuto ad aprile per defezione interna al suo governo, al quale alcuni alleati del partito Tehreek-e Insaf hanno tolto l’appoggio. Khan li ha accusati di tradimento manovrato dall’estero, ha parlato d’un complotto ordito contro la sua persona dagli Stati Uniti. Una sorta di ‘golpe bianco’ con l’intento di favorire un ritorno al comando dei gruppi familiari (Sharif e Bhutto) che da decenni gestiscono il potere con un’alternanza non priva di colpi di scena, anche sanguinosi. L’ex campione di cricket, diventato premier sull’onda d’un programma anti-clan e anti-corruzione, aveva sparigliato la razza padrona pakistana, ma il successo nelle urne ha ricevuto l’assenso, e non solo, degli altri padroni del grande Stato islamico: le Forze Armate. Con queste Khan, dimentico della storia patria, a un certo punto ha avviato una prova muscolare che potrebbe essere la causa di quel “complotto”, i cui mandanti sarebbero gli americani scontenti delle libertà geopolitiche del premier  nel cercare sponde russe e cinesi. Ora il generale Munir, definito ‘Hafiz Quran’ per la dimestichezza che ha col sacro testo dell’Islam, si trova a ricoprire il massimo incarico dell’Esercito e se esperti di vicende militari sostengono che dovrebbe confermare la linea diplomatica del suo predecessore (Bajwa) verso l’India, qualche analista pensa che potrebbe far pagare a Khan l’interruzione del proprio incarico da direttore generale dell’Inter Services Intelligence. Interruzione decisa dal focoso Imran nel 2019.

 

All’epoca il generale indagava su casi di corruzione e certi risvolti  riguardavano la moglie del premier, Bushra Sheikh, e la di lei amica Farah Khan, solo omonima del marito. Costei subiva le attenzioni dell’Ufficio nazionale sui crimini finanziari per un incremento spropositato dei conti bancari e per uno spostamento della sua ricchezza negli Emirati Arabi. Non è un caso isolato, però è legato alla salita al potere di Khan che contro la finanza illecita aveva lanciato la sua battaglia elettorale. Proprio in questi giorni l’ex premier ha compiuto due mosse distensive: ha dato il benestare alla scelta della coppia di generali avanzata dal Capo dello Stato Arif e dall’attuale primo ministro Sharif e ha bloccato la marcia di protesta contro il presunto complotto che l’ha defenestrato. Inaspettatamente ha vestito i panni del pompiere, smorzando polemiche e mobilitazione. Così chi già vedeva il generale Munir costretto dalla coriacea protesta a ricorrere alla forza con chissà quali conseguenze, si trova davanti a un’inattesa calma. Se ne deduce che i nuovi arrivati ai vertici delle Forze Armate non puniranno la supponenza del campione-premier. Anche perché in fatto di fiscalità e arricchimenti per nulla trasparenti un altro potentato con le stellette viene additato in questa fase. E’ Bajwa, il predecessore di Munir. Un giornalista, chissà come ha pescato presso il ministero delle Finanze le ultime dichiarazioni dei redditi del generale e di sua moglie, evidenziando come quest’ultima, fino a quel momento esente da redditi, dal 2017 dichiarava cifre da capogiro. Ci sono gli estremi per indagini e ulteriori faide fra politici e militari. Ma c’è chi scuote il capo. La guerra dei dossier fiscali e delle consorti probabilmente non ci sarà. E’ servita a stabilire una pace armata fra potentati, un po’ come l’attentato ammonitore per Khan. L’unico versante tuttora non ricattabile e incontrollabile resta quello talebano che si dichiara pronto a nuove battaglie.  

lunedì 28 novembre 2022

Pakistan, talebani sul piede di guerra

 

Il capo dei Tehreek-i-Taliban Pakistan (TTP) annulla il cessate il fuoco concordato nello scorso giugno col governo di Islamabad e ordina ai militanti di organizzare attacchi su tutto il territorio nazionale. Perciò saranno immediatamente  indaffarati sul fronte anti terroristico i due generali (Asim Munir al vertice dell’Esercito e Shamshad Mirza, Capo di Stato maggiore) recentemente nominati dal premier Sharif e dal presidente Alvi. Mirza risulta particolarmente indigesto ai turbanti perché anni addietro s’era distinto per l’accanimento con cui li cacciava nel nord Waziristan. Era in corso l’operazione Zarb-e Azb con cui un precedente generale, Raheel Sharif (Mirza lo coadiuvava), ordinava ai suoi di applicare con zelo il motto “cerca, distruggi, ripulisci, mantieni” che fece migliaia di vittime ed evacuò dall’area  80.000 famiglie. I TTP non hanno dimenticato e nonostante le recenti aperture alla ricerca di patteggiamenti e accordi - un anno fa col governo di Khan, da maggio a ottobre con quello di Shehbaz Sharif - rievocano quei massacri. Ora che nessun tema sul tavolo delle trattative ha trovato sbocchi: non la fusione delle aree tribali (Fata) col Khyber Pakhtunkhwa e neppure la liberazione dei combattenti che la leadership richiedeva, i talebani decidono di riavviare i combattimenti. In un comunicato, ripreso dal quotidiano Dawn, i TTP denunciano che “In queste settimane una serie di attacchi non-stop sono stati lanciati dalle organizzazioni militari nel distretto di Bannu Lakki Marwat, di Dera Ismail Khan, Tank, Sud e Nord Waziristan”. Avvertono che non staranno a guardare e gli agguati riprenderanno. 

La presenza alla loro testa di Noor Wali Mehsud, che nel 2018 rimpiazzò Khalid Mehsud eliminato da un drone americano, potrebbe risultare meno cruento delle pratiche adottate un decennio fa. Il quarantaduenne Noor Wali è uomo di studio e d’azione, ha unito formazione teologica nelle madrase e militare sui campi di battaglia afghani, dove ha guerreggiato contro Massud a fine anni Novanta. Ma quando prese il comando della struttura frazionata e rissosa, ribadì che il nemico era lo Stato pakistano non la gente comune, dunque gli obiettivi dovevano essere i militari, non i loro figli. Il riferimento alla strage di Peshawar del 2014 - quando la scuola per familiari di graduati dell’esercito subì un sanguinosissimo assalto da parte dei Tehreek che costò la vita a 134 allievi - era palese. Eppure Noor Wali non ha il cuore tenero, la sua presenza a Karachi un decennio addietro l’ha visto fautore e organizzatore d’una catena di rapimenti di commercianti e imprenditori per autofinanziare il gruppo. Non tutti finirono senza spargimento di sangue. L’attuale timore del ceto politico pakistano, condizionato dalla lobby militare e al tempo stesso bisognoso del suo aiuto, è che i generali possano lanciare ulteriori offensive taglienti su talebani e loro congiunti, come la citata Zarb-e Azb, che innescano le ritorsioni già vissute. Il ministro dell’Interno dichiara di temere pure le frequenti scissioni dei TTP che generano fughe di nuclei non ortodossi difficilmente classificabili e controllabili. Le fuoriuscite maggiori s’erano verificate nei mesi del cambio della leadership, quando parecchi militanti avevano scelto di unirsi allo Stato Islamico del Khorasan e al nucleo fondato da Hafiz Gul Bahadur (anche lui ucciso da un drone) per attuare azioni terroristiche, senza un dettagliato piano.

giovedì 24 novembre 2022

Pakistan, militari e partiti nella Repubblica nucleare

 

L’ora dei generali non è un momento speciale. E’ una costante che i vertici istituzionali pakistani - come il Presidente della Repubblica, loro comandante - devono porre in cima all’agenda politica e alla prassi quotidiana. La lobby militare è talmente presente nei gangli del potere ed è talmente importante che nelle fasi di rinnovo degli incarichi manda in fibrillazione esecutivo, opposizione e quel che  gira attorno al Parlamento. In questi mesi particolarmente caldi, col defenestramento d’aprile dell’ex premier Khan e il suo recente ferimento in un attentato, la scelta dei nuovi responsabili dell’Esercito e dello Stato Maggiore, è stata frutto d’incontri e bilanciamenti fra i leader degli  schieramenti contrapposti: Lega Musulmana-N, attualmente al governo con Shehbaz Sharif, e Partito Tehreek-e Insaf di Imran Khan. A fare la spola fra i due, che non si parlano, il Capo di Stato Arif Alvi. Il premier gli ha proposto al vertice dell’Esercito il generale Munir, mentre per il coordinamento delle Forze Armate il nome prescelto è Shamshad Mirza, molto conosciuto dai talebani di casa. Alvi è corso a colloquiare col grande convalescente, fermo da giorni nella sua villa di Lahore. Il presidente e il padrone di casa si sono intrattenuti alla presenza anche di altri potentati del PTI, a fine colloquio Khan ha dichiarato di gradire le opzioni se queste seguiranno un percorso legale all’interno della Costituzione. Il tema della legalità e di ciò che è costituzionale o meno ha caratterizzato per mesi i contrasti non solo fra lui e Sharif, ma verso la stessa magistratura. Si sono agitate teorie d’incostituzionalità nei passi compiuti da più soggetti con accuse lanciate e poi rientrate. E Alvi viste le forzature compiute nell’ultimo triennio per e contro uno dei generali che lascia, Bajwa, e viene rimpiazzato da Munir ci è andato coi piedi di piombo. E’ che al di là e ben più dei politici, le stellette fanno quadrato per perpetuare il loro peso e non lasciano passare sgarbi, fino alle estreme conseguenze. 

 

Era stato proprio Khan da premier a prolungare la carriera di Bajwa dal 2019 all’anno in corso, per poi un anno fa emarginarlo e prospettarne un prepensionamento. C’è chi sostiene come nell’indebolimento del suo governo, dal quale alcuni alleati si sono sfilati facendone mancare il sostegno, ci fosse lo zampino vendicatore del Capo dell’Esercito. Per altro nel successo elettorale del partito di Khan viene adombrato il conforto, neppure tanto occulto, dei militari. Che nella “vita democratica” pakistana danno e tolgono per vie tortuose e, fin che possono, mimetizzate fuori dalle mimetiche. E’ il motivo per cui politici e capi di governo cercano buoni rapporti con le stellette. I curricula dei due nuovi ras della Repubblica nucleare – 165 sono le testate gestite da Islamabad con un rapporto di odio-amore con Wasghington e il Pentagono – sono ineccepibili. Munir è generale a tre stelle da un quadriennio. Nel suo passato:  scuola di addestramento a Mangla e reggimento di frontiera. Bajwa è stato il suo mentore, dunque, l’Esercito trova continuità. Anche per lui un episodio di contrasto con Khan. Nel 2017 era stato nominato direttore dell’Intelligence militare, quindi della potente Isi, ma il percorso s’interruppe perché sostituito dal generale Faiz Hameed su nomina del premier. Anche l’altro incaricato Mirza è figlio d’armi di chi va a sostituire: Nadeem Raza. La sua portentosa carriera ha avuto il marchio benefico d’uno storico padrino dell’Esercito, il generale Raheel Sharif (nessuna parentela col clan politico dei Nazif e Shebhaz). Questo generale, e Mirza con lui, misero a ferro e fuoco la provincia del nord Waziristan per sradicare i Tehreek-e Taliban con bombardamenti, rastrellamenti, deportazione rivolti a un milione di civili. I talebani non furono sradicati. Anzi, il clima da guerra civile ne rimpinguò le file. Mirza ha anche partecipato ai colloqui intra-afghani fra esponenti dell’Emirato, Pakistan, Cina e Stati Uniti che non hanno fruttato granché. E nella galassia dei turbanti oltre confine, soprattutto gli Haqqani solidali ai Tehreek, ne avranno archiviato la foto. Un volto che non dimenticano, in ogni senso.

lunedì 21 novembre 2022

Iran, la repressione impugna armi da guerra

 

Col trasferimento a Mahabad, area azera dell’Iran abitata da kurdi, di reparti di Pasdaran in assetto da guerra lo scenario interno assume contorni diversi da quelli della normale repressione di proteste, pacifiche o violente. L’iniziativa diventa bellica, e ai professionisti armati magari veterani di battaglie in Siria e Iraq, la comunità locale non potrà opporre azioni collettive autogestite e barricate. Non possono bastare davanti a chi riceve dalle alte sfere, non solo militari bensì politiche e clericali (Raisi e Khamenei), l’ordine di reprimere con determinazione. Se già le forze di polizia della cittadina occidentale da due giorni hanno tirato colpi di carabina sui manifestanti, i reparti speciali accorsi punteranno a stroncare qualsiasi presenza e resistenza per ristabilire l’ordine della Repubblica Islamica. Il sangue può diventare un fiume, superando il numero delle vittime - trecento o seicento - finora registrate. A chi contesta i princìpi dell’Islam khomenista rispondono i fedelissimi del khomeinismo che nei decenni hanno creato un potere pari e superiore a quello clericale. Del resto quest’ultimo è un mondo variegato, con diverse componenti. Quella che lega il partito dei Guardiani della Rivoluzione ai turbanti odierni del potere, l’immarcescibile Guida Suprema e il presidente che viene dalla città santa di Mashhad, è una branca conservatrice, ortodossa ai dogmi del khomeinismo che fanno della supremazia dei giureconsulti (velāyat-e faqīh) e dei simboli come chador e hijab, strumenti irrinunciabili da difendere coi denti. Come polizia morale e vigilanza interna che nega parecchie libertà, non solo quella di eliminare il velo. Questo gruppo di potere difende e tiene ben saldo in mano, attraverso le fondazioni, gran parte della finanza d’un Paese soffocato dagli embarghi occidentali, eppure resistente a questi ultimi. 

 

Ovviamente fra gli ottanta milioni d’iraniani presenti sul territorio c’è sperequazione fra chi gode di piccoli o medi privilegi per l’appartenenza alla cerchia securitaria (polizia), militare (pasdaran e reparti scelti), ideologica e paramilitare (basij), clericale, e poi tecnologica, imprenditoriale, commerciale  legate al potere, e gli altri. In tal senso si può essere più o meno esposti agli anni di magra che corrono da tempo. Poi ci sono le minoranze etniche e religiose, talune corpose: 23% di azeri, altre meno consistenti: 7% di kurdi, 3% di arabi, 2% di beluci, 1% di turkmeni. Fra queste i kurdi, che conservano forti legami culturali e politici, sono sempre stati poco propensi ad accettare pedissequamente gli orientamenti dei regimi. Nelle proteste entrate nel terzo mese i malcontenti sono economici e di pensiero. Anzi, lo sciopero dell’hijab ha rappresentato l’iniziale contestazione di chi toglieva la vita alla giovane Masha, rea d’una modalità di velo piuttosto libertaria, che si vede da tempo senza tragiche reprimende soprattutto nella capitale o in città assai turistiche. Eccesso e nefandezza nell’intervento su Amini, la cenere che cova da anni s’incendia ancora perché su di essa soffia un’enorme massa giovanile che insegue desideri di libertà, senza censure, costrizioni, oppressioni. Tutto noto. Conosciute anche le altre ondate di protesta, repressa con le armi nel 2019, e dieci anni prima con la carcerazione anche di figure di primo piano del clero riformista. Conosciuti i tentativi di destabilizzazione con attentati (l’Isis nel 2017), il Mossad a più riprese con gli omicidi mirati degli scienziati impegnati nelle ricerche del nucleare casalingo. Fra le ipotesi più buie c’è quella d’una società polarizzata e contrapposta fra chi resta abbarbicato a difesa della Rivoluzione del 1979 e chi ne propone una attuale, usando ogni mezzo. Poiché lo spettro d’una guerra civile, oltre a incrementare il panorama di morte, può prolungare l’agonia di chi cerca nuova vita per l’intervento di chi esternamente suona il piffero del conflitto, sempre e comunque.  

venerdì 18 novembre 2022

Iran, baci e Rivoluzione

 

Sono in tanti ad applaudire, twittare, tifare, specie a Occidente, per il bacio dei due giovani di Shiraz. Bello, ardente, giusto. Solo la riproposizione a mo’ di ‘spot pubblicitario’ diventa quasi una posa. Ma lì dove la censura chiude gli spazi, ogni gesto di rottura con la norma diventa trasgressione. Persino “sturbantare” i mullah, gesto che somiglia a certe goliardate anticlericali del fine Ottocento italiano… Forse molti non sanno che a Shiraz i baci sono di casa, in sintonìa con l’antica tradizione del mistico e vate locale, Mohammad Hafez. Innamorato della città: “Quant’è bella Shiraz, al mondo non ha pari! Preservala mio Dio, da tutte le sciagure!...” ma soprattutto della vita e dell’amore: E se pur mi disprezzi, non conta, lietissimo sono: risposta amara fa ancora più dolce un bel labbro di dolce rubino...I suoi ghazal - componimenti poetici di tradizione araba, persiana e turca - che descrivono e sognano scenari amorosi ed erotici e bacchici, esaltano ciò che le fedi istituzionalizzate solitamente demonizzano, additandolo a peccato. Nell’oasi di profumi e colori che è l’attuale tomba di Hafez, costruita ai margini settentrionali della città persiana nel Novecento da un archeologo francese, lì dove nei secoli precedenti già si commemorava il poeta, gioia e baci sono frequenti. Fra scolaresche festanti e coppie d’innamorati che se e quando si scambiano effusioni non vengono redarguiti, ma approvati da sguardi sorridenti d’insegnanti e accompagnatori, e finanche di guardiani. Forse il luogo è un’enclave di libertà in ossequio alla sacralità del lirismo e della tradizione che accompagna da secoli il maestro del ghazal. Forse lo spirito che può salvare dal bagno di sangue due modelli di vita e almeno due generazioni d’iraniani che non vogliono capirsi e sono tornati a scontrarsi, passa nel bacio. Quando i basij baceranno le loro donne per via, il loro credo non sarà più un’arma da usare per vietare e schiacciare. Quando i fedeli dell’Islam (e pure di altre religioni) accetteranno le tante sessualità, la Rivoluzione con la maiuscola camminerà per via: “C’è un turco, a Shiraz: mi dicesse di sì, a Samarcanda rinuncio, a Bukhara, per l'indico nero nonnulla che ha in volto. L’eternità sta nel vino, coppiere, a me versane l’ultima goccia: lassù non fiorita è radura, non quale a Shiraz riva d’acque…”

lunedì 14 novembre 2022

Istanbul, chi c’è dietro l’ennesima strage

 

A uccidere sei persone e ferirne ottantuno nella centralissima Istiklal Caddesi di Istanbul non è stato un o una kamikaze, ma una carica esplosiva nascosta in una sacca abbandonata dall’attentatore che la trasportava. Potrebbe essere la giovane scambiata inizialmente come miliziana-suicida, che è fra le persone fermate e interrogate dalla polizia. Il ministro dell’Interno turco Soylu già trae personali conclusioni sostenendo che gli autori della strage “sono legati al Ygp, i guerriglieri kurdo-siriani vicini al gruppo fuorilegge Pkk”. Infatti, secondo notizie fornite dallo stesso ministero, la donna fermata e interrogata dichiara d’essere entrata in Turchia dalla regione di Afrin. Anche altri passanti risultano fra i ventisei bloccati dagli agenti assieme ad alcuni militanti del Partito kurdo dei lavoratori già nel mirino delle forze dell’ordine. Perché questa è la pista che il governo sta dando per indicare la matrice dell’attentato, inseguendo quanto in altre occasioni s’era verificato. In realtà più che il Pkk, che ha sempre indirizzato anche azioni omicide contro militari pur usando l’esplosivo, sono i Falchi della libertà del Kurdistan (Tak) - fazione indipendentista che considera moderati i membri dello storico partito kurdo - ad avere precedenti stragisti verso i civili. Nel terribile 2016 compirono un attentato, peraltro rivendicato, piazzando un’auto-bomba in un luogo trafficatissimo di Ankara, Güven Park. Morirono 37 persone a 125 furono ferite. Il mese successivo a Bursa seguì un loro attacco suicida in una moschea. Nei comunicati pubblicati in altre occasioni l’intento di colpire lo Stato turco in uno dei suoi gangli economici più proficui, il turismo, può rappresentare un indizio o la motivazione che Soylu cerca per archiviare il caso. 

 

L’opposizione a Erdoğan getta sospetti sul sanguinoso episodio e sulle rapide conclusioni contro il terrorismo kurdo. Il tema della sicurezza nazionale polarizza sempre l’interesse della popolazione, colpita tremendamente da un’inflazione feroce e dalla svalutazione della lira, peraltro in epoca di pandemia incentivata da personalissime teorie dello stesso presidente in totale dissenso con vari ministri delle Finanze che si sono succeduti e coi crismi classici del monetarismo mondiale. C’è chi avanza sospetti di un caos telecomandato da apparati interni, per proporre ulteriori strette securitarie che da tempo hanno soffocato i media d’opposizione e quelli alternativi e gli avvocati dei diritti sostenitori d’ogni dissidenza. Del resto l’anno che verrà è una data storica per la Turchia moderna e un appuntamento che Erdoğan attende da tempo per coronare la sua carriera politica. Giungere al centenario della nazione come nuovo padre della Patria, come e più di Kemal Atatürk, è il sogno del ragazzo del popolare quartiere di Kasımpașa, incarcerato per militanza islamica e riscattatosi come leader, premier, presidente. E moderno sultano come lo considerano sia i detrattori, sia i fedelissimi. Gli altri, le minoranze kurde e armene, i pochi marxisti rimasti in circolazione, i forse più numerosi sindacalisti non istituzionalizzati, gli intellettuali non di regime, lo vivono da dittatore. In realtà così lo cataloga anche qualche suo omologo, ma non lo dice. Al di là di vicinanze, solo di comodo che ha avuto in Siria con Putin, Erdoğan s’è mostrato come il leader mondiale dell’ultimo ventennio più imprevedibile, scaltro, opportunista e a suo modo vincente. Tutto ciò gli offre molte chances internazionali. Ma il logoramento che ogni potere produce pone lui e il suo partito davanti all’incertezza nella tornata elettorale e presidenziale previste per giugno o luglio prossimi. Certo fra l’Akp, oggi dato al 32% e i repubblicani del Chp fermi al 26% il distacco è ancora netto. Però l’umiliazione dei sindaci persi nel 2019 in tutte le grandi città turche a vantaggio proprio del Chp, che comunque continua a mancare d’un adeguato leader, risuona come spettrale precedente. Per vincere ancora, Erdoğan è disposto a tutto?

domenica 13 novembre 2022

Istanbul sanguina di nuovo

 

Il viale dell’Indipendenza, İstiklal Caddesi, è tornato a sanguinare. Cinquantanove corpi a terra, sei senza vita, gli altri feriti, più o meno gravemente. Stroncati da quello che ha tutta l’aria d’essere un attentato terroristico. “Odioso” come l’ha definito il presidente Erdoğan. Le immagini che le molte telecamere presenti nella strada della storica Pera, l’antica area della Costantinopoli medioevale dove nell’XI secolo s’insediarono i mercanti genovesi, mostrano una giovane in mimetica con uno zainetto sulle spalle che potrebbe essere una potenziale kamikaze. L’esplosione è sicuramente avvenuta in questo modo, poiché la strada è un’isola pedonale chiusa al traffico automobilistico, percorsa dal romantico tranway che da piazza Taksim scende verso Galata e il Bosforo. Il luogo è una delle attrazioni della metropoli, uno scenario d’architettura tardo-ottomana con edifici in stile neoclassico, neogotico e d’art nouveau. Uno splendore dedicato al passeggio di istanbulioti e turisti. Verso le 16:30 locali la strada era mediamente affollata quando chi era lontano dal luogo della deflagrazione ha visto un lampo e una conseguente fiammata. Fuggi, fuggi generale per chi era a distanza, orrore e disperazione per chi si trovava nelle vicinanze del boato e ne era sopravvissuto. La polizia ha immediatamente chiuso il percorso perché venissero prestati i soccorsi e ha avviato sopralluoghi a caccia d’indizi per le indagini.  Da tre anni la Turchia non registrava attentati, nel settembre 2019 fra i passeggeri di un bus che viaggiava nella provincia di Diyarbakir c’erano state sette vittime e dieci feriti per l’esplosione d’un ordigno Ied abbandonato per via. La provincia faceva pensare a un attentato dei gruppi armati kurdi che in quel caso non fu mai rivendicato. 

 

Istanbul è stata teatro di un’escalation di esplosioni che dall’estate 2015 fino a tutto il 2017 ha flagellato la Turchia. Due le matrici: quella dell’Isis e d’un gruppo armato che si firmava Falchi della Libertà (Tak). Proprio a İstiklal Caddesi, il 20 marzo 2016 un attentatore suicida produsse la morte di cinque persone e il ferimento di trentasei. Tutte le vittime erano cittadini stranieri: due statunitensi, due israeliani, un iraniano. Quell’attentato seguiva le due esplosioni che afflissero la capitale Ankara nel febbraio con 28 morti e marzo con 37. A giugno dello stesso anno un’altra mattanza all’aeroporto Atatürk sempre a Istanbul: 41 vittime e 239 feriti. Era il momento più nero per la sicurezza interna del Paese che a metà luglio visse il tentativo di golpe, poi fallito per la risposta popolare all’appello telefonico diffuso sui social di Erdoğan, che si trovava fuori città e rientrò a Istanbul dove si scontravano reparti di rivoltosi e militari lealisti. Fu il cosiddetto colpo di mano gülenista, del cui disegno venne accusato l’ex alleato e poi nemico giurato Fethullah Gülen, predicatore e politologo della provincia di Erzurum, trasferitosi da anni negli Stati Uniti. Da quel momento il governo dell’Akp  ha avviato una gigantesca epurazione che ha coinvolto Forze Armate, polizia, magistratura, pubblica amministrazione, istruzione e accademia con migliaia di arresti e decine di migliaia di licenziamenti e pensionamenti di aderenti al movimento gülenista Hizmet. Un’ulteriore stretta nei confronti dell’opposizione politica, della stampa e il seguente progetto del presidenzialismo che ha ampliato i poteri personali di Recep Tayyip Erdoğan. Ma gli attentati proseguirono, non solo nei territori kurdi - Gaziantep, Hakkari - nuovamente a Istanbul con 38 morti prima presso lo stadio di Basiktas a dicembre 2016, quindi con 39 vittime nell’esplosione in un club privato dove si festeggiava l’avvìo del 2017. Quindi gli scampoli della lunga striscia stragista: due vittime a Izmir nel 2017, mentre nel 2019 crepavano per una bomba tre persone in una cittadina del sud sul confine siriano e le sette citate per lo Ied a Diyarbakir.

giovedì 10 novembre 2022

Intrigo pakistano, faide politico-militari dietro l’agguato a Khan

 

C’è un altro Khan sulla strada accidentata di Imran Khan. Nessuna parentela, se non quella politica acquisita quando Abdul Aleem Khan, all’epoca rampante quarantenne, s’avvicinò al Tehreek-e Insaf Pakistan, creatura dell’ex campione di cricket. Il nome dell’altro Khan viene fuori dalle considerazioni che l’ex premier, ferito giorni addietro a una gamba e ora convalescente nella sua dimora di Lahore, fa con magistrati e giornalisti che, sotto la sorveglianza di sue guardie private, lo interrogano e l’intervistano. Ancora nessun sospetto, nessuna correlazione con l’agguato che, nonostante l’arresto dell’esecutore, resta avvolto nel mistero. Però non è un mistero che l’uomo non abbia agito da solo e sia solo una pedina prezzolata. Finora lui non ha spiegato nulla, né tantomeno rivelato i mandanti. Gli analisti pakistani che seguono gli intrighi dei Palazzi, setacciano vicinanze e rotture dell’ultimo triennio del mandato di Imran. Qualche elemento esiste: un suo contrasto, risalente a un anno fa, con pezzi da Novanta del potente esercito, fra cui spicca il generale Bajwa. Certo, da qui a elaborare congetture sull’implicazione di quest’ultimo e ancor più del Gotha militare sui colpi sparati a Wazirabad, ce ne passa. Se un po’ tutti si guardano dal farlo, la vittima mette in fila alcune questioni. E parte dal suo omonimo. Aver dato il via libera all’ingresso nel PTI all’affarista Aleem, che fino al 2012 aveva militato nella Lega Musulmana-Q da non confondere con quella targata N (Nawaz) che è roba della famiglia Sharif, cui appartiene l’attuale premier Shehbaz, forse è stata un’ingenuità. L’imprenditore Khan, proprietario del Vision Group, uno dei maggiori marchi immobiliari del Paese, creatore di Fondazioni in diversi settori dall’istruzione alla sanità, di orfanotrofi e centri di assistenza per bambini disagiati, decise già trentenne di entrare in politica. Dopo un decennio trascorso sulla sponda del partito nazionalista senza ottenere riscontri, nel 2012 s’avvicinò al PTI, scelta che gli ha fruttato la vicepresidenza nell’importante provincia del Punjab, ma non la candidatura alle politiche dell’anno seguente. Non furono quelle le elezioni del successo del Tehreek, vittorioso cinque anni dopo, e nel 2018 il candidato Aleem Khan ottenne proprio nel Punjab la carica di ministro per lo Sviluppo della Comunità. 

 

Però entrò in attrito col premier punjabo e per un’accusa del National Accountabily Bureau, ufficio che s’occupa di corruzione, venne arrestato. Il Khan leader e premier nazionale ne chiese le immediate dimissioni. Le scintille col partito di governo non si chiusero lì. Reintegrato nel 2020 e nominato primo ministro del Punjab Aleem nel maggio di quest’anno, in piena crisi politico-istituzionale che contrapponeva lo sfiduciato Khan  al nuovo premier Sharif, nell’Assemblea del Punjab votò per Hamza Sharif, figlio di Shehbaz. Un doppio schiaffo a Imran, tradendone il sostegno a favore d’un classico esempio di nepotismo. Insomma l’astio fra i due Khan è ampio. Un po’ il cerchio sui presunti nemici di Imran si chiude quando egli stesso rivela ai media che a forzare la mano per il sostegno ad Aleem quale premier del Punjab fosse stato l’onnipresente e ingombrante generale Bajwa. Con cui l’ex asso del cricket manteneva giocoforza i rapporti, finché non sorse il sospetto che stesse appoggiando un altro generale, Faiz Hameed, per il ruolo di Capo di Stato Maggiore ricoperto da Bajwa. Ecco la versione di Imran Khan rilasciata in queste ore: “Faiz era l'unico generale che conoscevo, lavorava con me come capo dell'Isi, non conoscevo nessun altro. Dissi a Bajwa che avrei accettato le loro indicazioni”. Evidentemente quest’ultimo, che verrà collocato a riposo fra alcuni giorni, fece altre considerazioni temendo di vedersi anzitempo giubilato dal primo ministro. Così osservatori, magari dietrologi, interpretano le crescenti difficoltà riscontrate da Imran Khan dall’inverno 2021 e unendo i tratti dei contrasti menzionati, leggono l’attentato come un esplicito avvertimento. L’ex premier che ha sempre attribuito la vittoria del 2018 alla sua popolarità e al programma anti corruzione, mentre da più parti si sostiene che il suo sponsor fossero le Forze Armate, oggi dice: "Non è possibile pensare che l'esercito venga piegato dalla politica: i militari sono da tempo un potere, c'è bisogno di un equilibrio. Usare la loro forza può far uscire il Paese dal collasso istituzionale". I proiettili ne hanno quietato lo spirito anti-sistema?

mercoledì 9 novembre 2022

Alaa Adb al-Fattah, il valore d’un canto libero

 

Uno degli attivisti più noti del movimento laico egiziano e uno dei più perseguitati dalla locale lobby militare rischia di non vedere il suo quarantunesimo compleanno. Alaa Adb al-Fattah lo festeggia il 18 novembre, ma il suo sciopero della sete, iniziato il 6 del mese dopo oltre duecento giorni di riduzione del cibo a una manciata di calorie - cento al giorno - può stroncarlo prima. Perché fa questo? perché non ce la fa più a sopravvivere da carcerato. Attualmente sta scontando una condanna di cinque anni per ‘diffusione di notizie false’ alternativamente in due terribili prigioni di massima sicurezza Tora e Wadi el-Natrun. Sono luoghi che divorano la vita a gente come lui sospesa fra una condanna e l’altra con accuse pretestuose che fanno del grande Paese arabo una delle nazioni che calpesta ogni diritto, umano e sovrumano, nonostante il presunto rispetto della fede. La sorella Sanaa, che lo sostiene con la madre e un’altra sorella, ha lanciato un’invettiva ai capi di Stato e di governo presenti alla conferenza sul clima Cop27, organizzata dal regime di Al Sisi a Sharm el-Sheikh: “Se Alaa muore il suo sangue cadrà sulle mani dei governi occidentali che hanno chiuso gli occhi davanti a quel che da tempo accade in Egitto”. L’odissea carceraria di quest’uomo libero, di mestiere informatico e giocoforza attivista e blogger, è iniziata quasi per caso, durante una mobilitazione per l’indipendenza della locale magistratura. Certo, i pensieri di Alaa erano tutt’uno con gli ideali di sinistra del padre avvocato e della mamma docente universitaria attivi contro Mubarak. Il genitore, prima di lui, conobbe galera e tortura, appunto della gestione Mubarak, durante la quale nel 2006 al-Fattah junior venne arrestato per la prima volta. Furono poi i mesi della ribellione al vecchio raìs e una delle stragi più atroci a segnare l’avvìo dello strazio per gli egiziani e per lo stesso Alaa. Ottobre 2011: manifestanti copti protestano per l’abbattimento di chiese e abitazioni nella provincia di Aswan. Si riuniscono in una zona centrale del Cairo, chiamata Maspero, fra il ministero degli Esteri e la sede della tivù di Stato. 

 

Arrivano poliziotti a frotte, coi blindati cercano di spingere via la folla, ma presto attuano una follìa omicida con cui schiacciano ventiquattro persone uccidendole. Le odierne parole taglienti di Sanaa per i politici occidentali hanno alle spalle quello e altri massacri. Migliaia di giovani come lei ricordano. Erano adolescenti e pur a rischio della vita percorrevano le strade della capitale che vibrano in cortei e sit-in comunque gioiosi e densi di speranza. La definivano Thawra, rivoluzione. Una rivoluzione mai sbocciata perché strangolata per settimane, mesi, anni nel sangue infinito d’una moltitudine di cittadini. Il desiderio di rinnovamento è stato schiacciato da una repressione che semina crimini, morte e terrore di cui il ceto politico mondiale non vuol sapere. E allo stesso modo anche in Italia, perfino quando l’ennesimo misfatto dei militari egiziani ha stroncato l’esistenza di un italiano. Così, se l’assassinio di Giulio Regeni ha aperto gli occhi del mainstream informativo fino a quel momento vago o assente davanti a eccidi, rapimenti, torture e carcere infinito inflitti a oppositori e semplici cittadini d’Egitto, questa nequizia non è terminata. I morti non ricevono giustizia. I  killer vivono protetti dal regime e perpetuano delitti. Le galere strabordano d’innocenti. Alaa, che nel frattempo ha assunto pure la cittadinanza britannica, non sembra potersene avvantaggiare per evitare di crepare in prigione. Sarebbe disposto a rinunciare al passaporto egiziano, vivendo all’estero com’è accaduto nel 2020 agli statunitensi d’Egitto, Mohamed Amashah e Reem Desoukya. Ma i funzionari del Cairo non glielo permettono. E’ l’ennesimo abbandono al volere punitivo d’un potere criminale mascherato di presunta normalità. In più il sistema dell’economia mondiale sta aiutando Al Sisi, permettendogli di gestire vetrine internazionali come quella di Sharm in cui si parla d’emergenza climatica perorando quanto di anti climatico c’è nell’affarismo metanifero egiziano.



Ma al di là di considerare un ormai insostenibile utilizzo di fonti energetiche fossili, questione di non facile e rapida soluzione che trova Paesi con responsabilità gigantesche rispetto ad altri, esiste l’opportunità o meno di scegliere uno stretto partenariato con tale regime oppressivo. La leadership dell’Ente Nazionale Idrocarburi e i politici italiani non hanno dubbi: avallano il percorso comune nello sfruttamento del giacimento mediterraneo denominato Zohr, per ora 3 miliardi di euro con ampi sviluppi futuri. Altrettanto fanno aziende come Snam Spa, che  predispone un gasdotto fra Egitto e Israele, Fincantieri che finanzia con 1,4 miliardi di euro navi da combattimento e ulteriori armamenti tattici per mare. Quindi Leonardo Spa pronta a una fornitura di aerei egualmente da combattimento (Eurofighter, altri 3 miliardi) di valenza strategica per il ruolo di controllore oltre confine che la giunta egiziana interpreta nel Mashreq mediorientale. Denaro e affari, alla faccia di quell’attenzione ai diritti umani che in differenti scenari diventano motivo per embarghi economici, ostacoli finanziari, ostracismi politici. Citiamo gli interessi italiani verso l’Egitto, che non son roba da poco se risultano i secondi in Europa e i quinti al mondo, ma il Belpaese è in buona compagnìa. Quello sguardo rivolto altrove, denunciato da organismi come Human Rights Watch, refrattario a qualsiasi porcheria compiuta da mukhabarat, poliziotti, militari e una stessa magistratura nient’affatto autonoma, è una realtà con cui ipocritamente si fa buon viso. Parlando magari di archeologia, arte e sport coi mondiali del pallone dietro l’angolo nella petromonarchia qatariota, altra campionessa dei diritti violati. In quest’umanità alla rovescia il comune denominatore oppressivo, presente non solo fra gli islamici o nel mondo arabo, fa apparire la solidarietà e la tensione per la vita con cui quindici premi Nobel hanno lanciato un appello per liberare Alaa e i detenuti egiziani come qualcosa di fantasioso, irreale, addirittura eccessivo. Magari non lo dichiarano pubblicamente, ma parecchi conferenzieri di Cop27 pensano che tali attivisti dovrebbero restare marchiati a vita, sospesi fra la prigione vissuta e quella che rischiano d’incontrare da un momento all’altro. Oppure volare via come Bobby Sands, Helin Bölek e altri digiunatori della libertà. Tanto neppure i simboli scalfiscono il cinismo del potere.  

lunedì 7 novembre 2022

Anche con la vetrina di Cop27 Sisi prosegue gli arresti

 

A cercarlo sui libri di storia Aḥmad Orābī è un uomo dell’Ottocento con tanto di fez ottomano, noto per aver guidato una rivolta contro gli occupanti britannici e il viceré, descritta come al-Thawra al-ʿArabiyya, la Rivoluzione araba, che dopo fasi alterne venne soffocata nel 1882 dal Regno Unito creatore d’un proprio protettorato sul Paese arabo fino al 1954. Ma chi finisce in galera in queste ore, in cui le telecamere di mezzo mondo sono puntate sulla conferenza sul clima Cop27 in svolgimento a Sharm el-Sheikh, è l’ennesimo attivista, omonimo del patriota ottocentesco. L’attuale Aḥmed Orābī  è noto fra i connazionali oppositori dei militari fin da quando si muoveva fra le barricate di via  Mohamed Mahmoud. Un episodio della repressione post Mubarak (correva il novembre 2011 e il governo era nella mani del maresciallo Tantawi) rimasto celebre per la violenza con cui reparti antisommossa e agenti di borghese si scagliarono sul presidio di piazza Tahrir. Nelle successive ore di battaglia di strada l’attuale arrestato perse un occhio. Altri suoi compagni di rivolta persero la vita. L’arresto odierno non è l’unico, anche il giornalista egiziano Mustafa Musa è stato bloccato dalla polizia nella città di Alessandria. Sui social l’avvocato Mohamed Ramadan ricorda che il cronista e scrittore “è portatore di cinque by-pass, lavora nel settore della comunicazione, non è attivista né tantomeno terrorista”. Tutto ciò mentre la protesta dell’altro noto oppositore Alaa Adb el-Fattah, che dopo oltre duecento giorni di sciopero della fame da ieri ha intrapreso la più rischiosa astensione dai liquidi, sia  vagamente menzionata da una parte della stampa mondiale presente al meeting. Sono principalmente gli addetti ai lavori a tenere in ombra questa protesta che, pur non attinente alla questione climatica dibattuta nell’assise, è un elemento vitale per i sessantamila prigionieri del presidente Sisi.

 

Questi con la creazione del sedicente ‘Comitato di Amnistia’ sta liberando detenuti (un migliaio sono stati rilasciati), senza però toccare la normativa con cui le Corti egiziane possono prolungare all’infinito processi nei quali gli imputati non riescono a difendersi perché, come accade a Patrick Zaki, le udienze vengono continuamente rinviate. In queste ore in cui anche la nuova premier italiana Giorgia Meloni è giunta nella località egiziana per partecipare alla conferenza, è caduto nel vuoto l’appello lanciatole, in qualità di Capo dell’esecutivo, dai genitori di Giulio Regeni. Paola e Claudio chiedevano alla premier di non recarsi in Egitto, di non stringere la mano d’un presidente che da anni ostacola l’indagine internazionale e nazionale, e conseguentemente il conseguimento d’una giustizia, sul truce rapimento, sulle sanguinarie torture e sul barbaro assassinio del proprio figlio. Un cittadino italiano impegnato come ricercatore socio-politico contro cui gli agenti dell’Intelligence cairota hanno commesso un crimine diventato una questione di Stato. Giorgia Meloni ha ignorato la richiesta della famiglia Regeni, ha cercato accanto a Sisi una personale vetrina, aprendo a un futuro incontro bilaterale. Fra le questioni che legano da tempo le due nazioni c'è un capitolo caro al generale: la fornitura di armi. Peraltro realizzata negli anni scorsi da Esecutivi italiani di vario colore, e che ora potrebbe contare anche dell’esperienza accumulata in qualità di consulente al mercato delle armi dal nostro nuovo ministro della Difesa Guido Crosetto. A sostenere il rischioso gesto di Alaa, accanto a una schiera di attivisti sparsi in vari Paesi, la madre del detenuto che all’ingresso della prigione di Wadi el-Natrun, attende notizie. Una protesta che può trasformarsi in tragedia se le locali autorità decidessero di non intervenire. Eppure fra i delegati di Sharm, l’Egitto della galera eterna sembra non esistere. 


 

sabato 5 novembre 2022

Attentato Khan: da leader a eroe

 

Cosa produrrà il ferimento, per fortuna lieve, dell’ex premier pakistano Imran Khan? Il temuto bagno di sangue che la ‘lunga marcia’, com’egli stesso definiva l’ennesima protesta itinerante con cui s’avviava assieme a decine di migliaia di sostenitori verso i Palazzi di Islamabad, doveva essere esorcizzato dal tratto pacifico della contestazione. Il leader del Pakistan Tehreek-e Insaf s’era speso, mostrandosi al tempo intransigente e moderato. Col primo approccio non voleva lasciar cadere l’onta con cui una Corte l’accusava di favori ricevuti, proprio lui che della lotta alla corruzione s’era fatto interprete per un riscatto politico nazionale con cui aveva vinto le elezioni nel 2018. La condanna che gli impediva di partecipare a nuovi agoni elettorali era poi ritirata, ma non gli bastava. Khan chiede all’attuale esecutivo di misurarsi alle urne, anticipando le elezioni politiche programmate per l’aprile 2023. La sua moderazione alloggia nel senso di giustizia, presente nella sigla del movimento che ha fondato, con cui non vuol praticare una protesta violenta. Seppure durante la prima marcia, a primavera, i suoi avessero subìto attacchi dalle forze dell’ordine, ai quali attacchi l’ex premier intimava di non rispondere. Ora è accaduto l’imponderabile: un giovane ha sparato a Khan ferendolo a una gamba.  L’aggressore è stato fermato e disarmato, il leader soccorso e ricoverato. Per fortuna senza gravi conseguenze. Però il clima è rovente. Per tutta la giornata di venerdì i militanti del PTI hanno pregato, mentre il gruppo dirigente si consultava per le strategie da seguire.  

 

I legali del partito hanno esaminato le carenze delle misure di sicurezza in base alle leggi vigenti, è un’accusa diretta al premier Sharif, al ministro dell’Interno Sanaullah, al responsabile dell’Intelligence Naseer. Valutando l’accaduto si può ipotizzare che Khan sia vivo per puro caso, dovuto all’imperizia nell’uso dell’arma da parte dell’attentatore? Oppure, al contrario, si può pensare che lo sparatore fosse abilissimo e avesse deciso di dare un “avvertimento” all’ex premier. L’ha compiuto in solitaria, da avversario di Khan, o è manovrato dai Servizi? Quest’ultimi quando vogliono spiazzare e spezzare la politica nazionale sanno essere tragici dispensatori di morte, accadde a Benazir Bhutto deflagrata nel dicembre 2007 in un attentato di matrice statale. Proprio le polemiche che il leader del PTI s’è trovato a vivere con la lobby militare, inizialmente suo sponsor a un certo punto sua avversaria, lascia dubbi sull’origine di quest’avvertimento a Khan che potrebbe “rinunciare” al braccio di ferro elettorale. Ne trarrebbero vantaggio i due tradizionali blocchi: la Lega Musulmana-N attualmente al governo, il Partito Popolare, entrambi in crisi di leadership e consenso, ma di fronte a paura generalizzata e crisi economica crescente nella possibilità di risalire la china. L’incognita sta nella massa di sostegno ai Tehreek-e Insaf, un partito con dieci milioni di militanti e sedici milioni e mezzo di elettori, che pur fra i grandi numeri del Paese non sono roba da poco. Se Khan non indietreggia né smonta la contestazione la tensione è destinata a crescere e l’incolumità pure. Per la gente comune e gli stessi leader.