domenica 29 settembre 2019

Presidenziali afghane: bassa affluenza ma si è votato


Dati diffusi da poco più della metà dei seggi indicano in un milione e centomila gli elettori che si sono recati alle urne. Se tale cifra si raddoppierà e i votanti supereranno i due milioni l’Afghanistan registrerà la più bassa percentuale (attorno al 25%) di tutte le consultazioni presidenziali tenutesi dall’avvìo del cosiddetto corso democratico voluto, manu militari, dagli Stati Uniti. Nel 2014 i partecipanti furono sette milioni sui dodici milioni di iscritti, il 60%. Stavolta i cittadini che si erano registrati nei circa 5000 seggi ammontavano a 9.6 milioni. Ancor più che in altre occasioni il voto di sabato 28 è stato blindato da oltre 70.000 militari, impegnati a offrire sicurezza a chi si voleva esprimere nell’urna. Ma da una parte la paura di ritorsioni talebane, che minacciavano il taglio delle dita che avessero mostrato tracce dell’inchiostro con cui si controlla che l’elettore non si rechi più volte nei seggi, dall’altra la disillusione palesemente manifestata da tanti, troppi cittadini hanno prodotto quest’estraneità al decantato “giorno dell’elezione”. Del resto molte candidature ripropongono quanto di peggio la politica locale ha mostrato per anni: verticismo, corruzione, clanismo, asservimento a interessi stranieri e a quelli dei potentati interni. Una sequenza vista fino alla nausea dalla popolazione. Basti pensare che la concreta lotta per la presidenza è ancora una volta racchiusa nel confronto-scontro fra Ghani e Abdullah, i gestori di quattro anni più uno di totale disastro politico che nella società afghana ha solo prodotto spargimento di sangue civile. Eppure, nonostante la bassa affluenza, il governo ha salutato la giornata elettorale come un successo. I vertici della politica ufficiale si considerano già soddisfatti per aver tenuto sotto controllo la situazione generale, nonostante gli agguati ai seggi che pure ci sono stati. La ‘rete di osservatori afghani’ ne conta circa quattrocento, rivolti prevalentemente alle strutture, di cui uno solo in grande stile messo in atto nella simbolica Kandahar. Però si sono verificati anche attacchi alle persone, una trentina le vittime, e dal distretto di Shinwari è giunta la notizia d’un sequestro talebano ai danni di otto osservatori internazionali impegnati in vari seggi. I risultati ufficiali della consultazione sono attesi fra il 19 ottobre e il 7 novembre. Se nessuno dei dodici candidati che vantano qualche probabilità di successo supererà la metà dei voti, si ricorrerà al ballottaggio fra i primi due piazzati. Quella coppia dovrebbe risultare un dejà vu.

venerdì 27 settembre 2019

L’Egitto che non vuole Sisi


La seconda settimana di protesta anti regime fa più male della prima.  Così il generalissimo, ormai con più estimatori all’estero che in patria, fa arrestare alla vigilia dell’odierno venerdì di mobilitazione circa duemila concittadini, compreso qualche oppositore noto fra quelli che periodicamente sono costretti a fare i pendolari attraverso carceri. L’ultimo vessato è un noto docente di scienze politiche dell’Università del Cairo, Hassan Nafaa, che aveva dichiarato “Non ho dubbi che la continuazione del potere di Sisi ci condurrà al disastro. Nell’interesse dell’Egitto la sua partenza è auspicabile il prima possibile”. Per aver detto questo già mercoledì scorso il professore è finito a far compagnìa in cella a gente come il portavoce dell’ex capo dell’esercito Sami Anan. Quest’ultimo, poi, è a una sorta di arresti domiciliari dal gennaio 2018 quando pensò di sfidare il presidente nella carica dello Capo di Stato. La rielezione col pieno di consensi, superiori al 97% (ma con un’affluenza dichiarata del 41%, secondo parecchi analisti oscillante fra il 25% e il 30%) è stato l’ultimo atto d’amore di quel pezzo d’Egitto che si schierava a favore del colpo di mano anti Fratellanza Musulmana. Oggi anche una parte della non numerosa della classe media inizia a non credere alle due parole d’ordine che hanno rappresentato il fulcro del suo programma: sicurezza nazionale contro il terrorismo (che in alcune zone come il Sinai, ma anella stessa capitale quando vuole, continua a colpire le Forze Armate) e rilancio economico.  
Fatta eccezione per il partenariato con l’italiana Eni sullo sfruttamento del giacimento di gas Zohr che può rendere l’Egitto l’hub mediterraneo del metano, per il turismo, negli ultimi tempi in ripresa anche in base agli occhi chiusi della Comunità internazionale sull’eccezionalità repressiva presente nel Paese arabo, e per le grandi opere pubbliche (il secondo Canale di Suez e la mega capitale a sessanta chilometri dal Cairo) la situazione economica non avvantaggia i ceti subalterni interni. Anzi. Rispetto alla deprecata era Mubarak è stato ristretto quel minimo di ‘stato sociale’ in natura rappresentato dai sussidi per idrocarburi e generi alimentari di prima necessità offerti agli strati più umili. In crescita – in verità non solo in Egitto – sono gli opposti: ricchi e poveri. E nelle ultime settimane a far montare la disillusione su Sisi, si son messe anche le denunce sui social media offerte da un appaltatore dell’esercito, tal Mohamed Ali (non si risenta la memoria dell’omonimo campionissimo di boxe degli anni Sessanta e Settanta). L’attuale Ali è un ex compare di Sisi e del suo apparato, un fornitore di materiale edile che per tutto un periodo s’è arricchito con commesse per le Forze Armate, ovviamente pagando tangenti. Quando il giochino s’è rotto e fra l’imprenditore e il governo si son creati attriti lui è volato in Spagna e da lì spara veleno contro il presidente. Ma come ha affermato un noto oppositore del movimento “6 Aprile” più volte arrestato, la crescita del malcontento non è certo orientata dall’affarista un tempo amico e oggi nemico di Sisi.
Questo soggetto cerca di cavalcare le proteste. Magari i suoi interventi battenti ne ampliano l’eco, eppure l’opposizione oppressa con arresti, torture, sparizioni acquisisce nuovo coraggio per esporsi e sicuramente subirà danni e ulteriori incrudimenti della coercizione. Ma forse vacillanti cominciano a essere le certezze del generale che vede come il progetto d’intimorire la popolazione con assassini e rapimenti non riesce, comunque, ad azzerare il dissenso. E questo nonostante il controllo capillare dei mezzi d’informazione e il bavaglio posto ai social. Quella metà del Paese vicina all’Islam della Brotherhood, silenziata da sei anni, continua a esistere pur senza manifestare, le crepe all’unanimismo di facciata compaiono e il volto scuro del generale golpista all’Assemblea dell’Onu fa il paio con quanto ha dichiarato circa le “forze del male” che affliggono l’Egitto. Un anatema dettato dalla sua paura. Ipotesi neppure tanto peregrina è che fra le stellette cairote si stia valutando se da qui in avanti l’ingombrante figura presidenziale implicata in tanti buchi neri della nazione, comprese le accuse di ruberie per sé e la consorte rivolte dal businessman Ali, diventino un peso di troppo per la lobby militare. Perciò, a garanzia del proprio potere, occorre trovare un altro Sisi, come la consorteria militare fa da circa settant’anni o perlomeno dal momento in cui il “libero ufficiale” Nasser fu meno libero di pensieri e dal terzomondismo finì per proporsi come raìs. Seguìto da altri militari divenuti presidente (Sadat, Mubarak) per nulla carismatici rispetto all’apripista. Insomma la costante delle stellette sulla vita politica egiziana potrebbe pensare di sostituire il capo per salvare il proprio sistema, evitando rivolte di piazza e sanguinarie repressioni.   

lunedì 23 settembre 2019

Afghanistan, le presidenziali impossibili


A cinque giorni dalla pluririmandata scadenza elettorale per le presidenziali afghane c’è un candidato che sicuramente prega Allah perché si giunga al voto. E’ il presidente uscente Ashraf Ghani, il fantoccio statunitense osteggiato da taliban e dagli altri candidati, compreso l'amico-nemico di governo Abdullah. Gli attentati che fino a una settimana fa hanno cercato di riproporre un ennesimo rinvio per ragioni di sicurezza non ne hanno piegato la convinzione, ma più che saldezza democratica  l’ostinazione con cui Ghani resta attaccato a quest’elezione riguarda il suo futuro. Infatti è da tempo il grande escluso dalla vita politica nazionale, un paradosso per chi riveste la carica più alta d’un Paese, pur disastrato com’è  l’Afghanistan. Ma si tratta d’un Paese che non esiste. Continua soltanto a essere un luogo di morte per la guerra strisciante fra gli occupanti della Nato e i talebani che rivendicano il ruolo di resistenti all’invasore.  Nell’anno in cui i contendenti statunitensi e i turbanti di Quetta si sono ripetutamente incontrati per discorrere del futuro prossimo, Ghani è rimasto fuori dalla porta, considerato indesiderato e indegno dalla delegazione della Shura, senza che gli americani obiettasse nulla. Per questo il ‘presidente senza potere’ si spende da tempo per il ritorno alle urne, senz’altro previsto come scadenza, ma in un sistema completamente svilito.

Allora l’uomo che si sente solo cerca l’unica sponda possibile, quella offerta dagli altri candidati che, non fosse altro perché desiderano prendere il suo posto, s’apprestano al confronto dell’urna pur denunciando quel che appare palese: il voto potrebbe essere inficiato dagli atavici brogli. Nessuno però evidenzia un’altra realtà: questo voto risulterà  assolutamente parziale. Poiché i seggi elettorali sono presenti sulla metà del territorio (l’altra metà è impraticabile in quanto controllata dai talebani) e anche le urne aperte e vigilate militarmente potranno essere oggetto di agguati, com’è già accaduto in precedenti circostanze. Dunque, le presenze certe nel 28 settembre che s’approssima sono il terrore generalizzato e i taliban. Quest’ultimi estranei alla competizione elettorale, ma incombenti nel clima creato dalle loro stragi e, di sorpresa in sorpresa, non è detto che il trasformismo che comunque aleggia su quello scenario in futuro non possa accettarli anche nella veste di concorrenti. Finora gli studenti coranici l’hanno  rifiutata.  Essi conoscono la propria forza e la debolezza altrui e una parte celata dei colloqui, poi interrotti da Trump, riguardava un loro possibile ritorno legale al potere. Però i turbanti vogliono scegliersi i ‘compagni di merende’ e mostravano di non gradirne nessuno fra quelli all’orizzonte. Del resto basta ascoltare le dichiarazioni degli anti Ghani per intuirne, nonostante le critiche rivoltegli, un comune denominatore.

Wali Massoud, figlio d’un padre famoso quanto farabutto, si fa forte della Massoud Foundation, struttura a libro paga statunitense che sulla retorica delle gesta d’un “eroe” che è stato Signore della guerra cerca soluzioni alternative per conservare lo status quo che il Paese conosce da decenni. Massoud junior attacca: “Occorre muovere il popolo contro la mafia di governo, Ghani e Abdullah hanno garantito solo inefficienza”. Altrettanto critico è Rahmatullah Nabil che rincara: “Un governo che ha raccolto solo fallimenti”, la sua candidatura la sostiene Jamiat-e Islami, partito storico del jihad islamico, dove hanno militato Rabbani e Ahmad Massoud, con le conseguenze che tre generazioni di afghani conoscono bene. Se siete curiosi ascoltate anche Noorullah Jalili, sayyed della provincia di Nangarhar, un affarista che a suo tempo ha lavorato anche per i talebani: “La nazione accetterà perfino l’Emirato, ma gli attuali governanti non accettano compromessi sul destino del popolo”. Mentre l’ex parlamentare Latif Pedram, riempie i cuori di promesse: “Se vincerò porterò le riforme che servono al Paese”. Sic, evidentemente si sente atteso. Certo, c’è pure l’ipocrisia fatta persona, quella del premier Abdullah Abdullah, che giorni addietro, a corredo della sua terza candidatura, dichiarava: “Noi non vogliamo la continuazione della guerra per restare al potere”. Le bugie hanno le gambe corte, cortissime. Abdullah ha la faccia di bronzo. 

lunedì 16 settembre 2019

Tunisia, sorprendono afflusso ed outsider


Doppia sorpresa nel primo passaggio elettorale delle presidenziali in Tunisia: l’astensione è risultata meno marcata di quanto la dichiarata disillusione politica della popolazione avrebbe fatto attendere. Così il 45% dell’elettorato recatosi ai seggi, controllatissimi da settantamila militari, è di molto inferiore al 64% registrato cinque anni fa, ma non sconfortante come l’ipotesi del 25-30% ventilata da alcuni sondaggi. L’altra sorpresa è il vincitore del turno selettivo: Kais Saïd, un sessantunenne professore di diritto costituzionale che occupava un posto nella fitta schiera di indipendenti e che ha messo in fila i più quotati candidati del regime recente e della nostalgia benalista Probabilmente è stato il voto giovanile a dargli fiducia e a darsi speranza in una nazione rimasta bloccata da anni. I ragazzi che non vogliono finire nella spirale della violenza jihadista, che in Tunisia recluta pagando il bisogno e la disperazione, e non hanno le migliaia  di dollari per i viaggi degli scafisti sempre meno sicuri non solo per la tenuta in mare, ma per l’accoglienza sulle coste italiane e le collocazioni in Europa. Le due piaghe dello sradicamento sociale restano, ma chi ripone fiducia nel professore cerca altro. Il competitore con cui dovrà vedersela a metà ottobre, o forse a novembre perché non c’è ancora una data precisa del secondo turno, dovrebbe essere colui che i sondaggi davano per sicuro vincente: il tycoon Nabil Karoui. Ha ottenuto un 15,5% di preferenza, il 4% in meno di Saïd, mentre più staccato è l’uomo di Ennahda, Abdelfattah Mourou, con un consenso fra l’11 e il 12%. Il suo partito non s’è rassegnato, comunicando ufficialmente di attendere i risultati finali dalla Commissione elettorale, l’unica che ha il potere di verificare la correttezza delle schede scrutinate. Comunque i più penalizzati dal voto, viste le reciproche aspettative sono le due figure istituzionali: l’ex premier Chahed e l’ex ministro di Essebsi, Zbidi. Quest’ultimo, sicuro di un’affermazione, s’era spinto a preventivare una prossima riforma costituzionale per un ritorno al presidenzialismo dell’epoca di Ben Ali. E più d’uno fra i candidati accreditati aveva concesso strizzate d’occhio all’ex raìs, lodando sua era (sic). La mossa non ha avuto presa sull’elettorato. Però la stessa novità rappresentata da Saïd, tenutosi lontano dalle lusinghe dei partiti storici, non mostra una piani diversi concorrenti. Anch’egli appare imbalsamato nella conservazione di un’economia malata che non studia né lavora per percorsi alternativi. Perciò chi si sta appoggiando a questo candidato fuori dal coro, potrebbe scoprire scarse o nessuna novità, soprattutto di quelle prospettive socio-economiche che sono l’inestirpato tumore tunisino.

domenica 15 settembre 2019

Presidenziali tunisine fra disillusione e benalismo


Chiusi i seggi delle presidenziali tunisine quel che balza immediatamente agli occhi e alla conta che non offre ancora dati ufficiali è la bassa affluenza alle urne, frutto di anni di disillusione seminata a piene mani dalla politica. Che pure veniva vissuta con passione almeno per un biennio dall’avvìo della protesta antiautoritaria che, nel dicembre 2010, diede il la alle primavere arabe e mantenne la Tunisia, pur fra i drammi di omicidi politici e gli spazi ricercati dal fondamentalismo jihadista, in una diversità dalla tragica fine di piazze come quelle egiziana, libiche, siriane. Però, i gruppi che si sono succeduti al potere, dall’islamista Ennahda al secolare Nadaa Tounes hanno solo prodotto una polarizzazione, lasciando insolute questioni vitali come quella economica in crisi perenne. Un’economia problematica già nei decenni del vecchio regime con una dipendenza atavica da capitali stranieri, un’economia che offriva manodopera a basso costo che proprio per i bassi salari non sollevava le sorti dei lavoratori, ma al contempo non vedeva strutturarsi un ceto imprenditoriale autoctono degno di questo nome. Produceva rapidi arricchimenti e fughe di capitali trasformati in rendite di squallidi furbetti protetti dalla politica. L’eredità è l’attuale disoccupazione incistata a un 15% della popolazione, con punte del 40% fra i giovani che oggi risultano oltre il 70% dell’elettorato. Ecco un buon motivo perché ragazzi e ragazze - che pure hanno visto fratelli e sorelle scendere per via nel periodo della ricerca d’una svolta - restano senza fiato di fronte al vecchiume che hanno davanti agli occhi. Un vecchiume che ormai non è il defunto Essebsi, ma chi si candida a sostituirlo, proponendo nient’altro che il passato. Erano partiti in 96, ne sono rimasti 24, coloro che si contenderanno un ballottaggio sono quattro elementi, uno peggiore dell’altro.

Dal probabile vincitore di questo primo turno l’imprenditore Nabil Karoui, magnate delle comunicazioni con Nessma TV, che unisce messaggi popolari a elemosine ai diseredati, mentre si dà da fare col ‘riciclaggio e frodi fiscali’ tanto da risultarne arrestato lo scorso 23 agosto. Non avrebbe dovuto correre per la prestigiosa carica presidenziale, invece eccolo lì addirittura con l’opportunità di giocarsi il ballottaggio. Secondo inguardabile un fedelissimo del defunto presidente e suo ministro della Difesa, Abdelkarim Zbidi, che ha alle spalle l’apparato di  Nedaa Tounes. L’unica proposta concreta annunciata in campagna elettorale un ritorno al presidenzialismo, per avere come ai tempi di Ben Alì mano libera in politica estera e nel controllo dell’apparato della forza, poteri che il Capo dello Stato aveva perduto dal 2014 per l’introduzione d’un sistema semipresidenziale. Ma c’è di peggio. Il premier uscente Youssef Chahed, transfuga del partito Nedaa Tounes, ambisce alla più prestigiosa carica che fu di Ben Alì. Anzi durante la campagna elettorale, per ottenere consensi fra quei tunisini che l’ex presidente lo sognano ogni notte, paventa un rientro dell’ex dittatore nel Paese che ha contribuito a dissanguare, con ruberie ed esercito repressore. Fino a giungere a una figura femminile, che certa stampa locale ha presentato nella veste di ‘pasionaria’, Abir Mousi, talmente nostalgica del regime benalista da non nascondere la sperticata l’ammirazione per il raìs che si definiva progressista e venica accolto nell’Internazionale socialista. Ma era quell’Internazionale dove sedeva anche Bettino Craxi, e allora i conti (per i rispettivi clan) tornavano. Dire che al turno di voto hanno partecipato pure l’esponente di Ennahda, Abdelfattah Mourou, l’indipendente Moncef Marzouki, e, sempre divisi, alcuni esponenti della sinistra serve a poco. Il quadro resta desolante fino alla scelta definitiva di metà ottobre.

venerdì 13 settembre 2019

Crisi colloqui afghani: così parlò il taliban

Se gli americani non vogliono più attaccarci, se vogliono ritirarsi e firmare l’accordo, noi non li attaccheremo. Se invece ci attaccano, continuano i bombardamenti e i raid notturni allora continueremo a fare ciò che abbiamo fatto negli ultimi diciotto anni”. Questa è la risposta talebana al voltafaccia operato da Trump nei giorni scorsi. Giunge dalla capitale del Qatar, sede dei colloqui di pace e dell’emittente Al Jazeera cui il portavoce di turbanti ha rilasciato un’intervista. L’uomo, che si chiama Suhail Shaheen, ha definito sorprendete la dichiarazione del presidente Usa perché “noi avevamo concluso i colloqui di pace”, come del resto aveva annunciato anche il diplomatico afghano-statunitense Khalilzad, che per mesi aveva guidato le trattative. A detta di Shaheen, fra i vari punti affrontati in nove sessioni protrattesi dall’ottobre 2018 ai primi dello scorso settembre, era giunto un reciproco benestare sulla garanzia talebana di non offrire i propri territori come base per gruppi jihadisti stranieri, modello Al Qaeda, e sul ritiro delle truppe statunitensi. Un ritiro da iniziare con cinquemila unità e concludere con l’intero contingente entro alcuni mesi. Invece il cessate il fuoco sarebbe entrato, come il punto del dialogo intra afghano, in una fase successiva dell’agenda. Solo dopo il totale ritiro dei contingenti d’occupazione i taliban avrebbero assicurato un blocco delle ostilità. “Saremo pronti a parlare con le altre forze afghane in una seconda fase – ha dichiarato il portavoce talebano – ma questo è un altro tema da prendere in esame dopo la fine dell’occupazione del Paese”. Inoltre sui possibili attacchi o danni a militari statunitensi - che ha offerto lo spunto a Trump per bloccare un patto già sancito almeno sui due suddetti punti - l’uomo dei turbanti ha sottolineato come appena ufficializzato l’accordo avrebbero garantito un ritiro senza alcun attacco a militari Usa.  Ma se non c’è accordo noi decideremo di attaccare o meno se si presenterà un interesse nostro, oppure un interesse nazionale e islamico”. E finora è andata così: niente accordo e solo sangue in troppi casi di civili, di cui i dialoganti in undici mesi non si son mai preoccupati. 

giovedì 12 settembre 2019

Egitto fra morti improvvise e vite sospese


L’Egitto delle morti improvvise, da parecchi ritenute sospette - come quella di Abdullah Morsi, figlio più giovane del defunto presidente, stroncato anche lui da un infarto - propone da tempo rapimenti e sparizioni. Talune tragiche, alla maniera di Giulio Regeni, altre meno inquietanti visto che non si concludono con l’assassinio del sequestrato, però egualmente violente, vessatorie, angosciose. E da oltre un anno il sistema repressivo messo su dal presidente golpista Sisi ha introdotto arresti a tempo. La persona, in genere giovane con un passato movimentista o d’opposizione, viene prelevata dalla propria dimora oppure fermata per via con motivazioni vaghe e pretestuose. Viene condotta in un commissariato di polizia per accertamenti e comunicazione di addebiti, se gli va bene finisce davanti a un giudice che impone una reclusione breve - quindici giorni, un mese - che il soggetto subisce e al tempo stesso accetta perché la vede come ‘un male minore’. Finendo, però, in un circolo perverso, narrato da alcuni ex attivisti che ormai entrano ed escono di prigione con una periodicità impressionante. Certo, l’importante è uscirne, ma gli avvocati dei diritti che si sono occupati dei casi, avvocati sempre meno numerosi poiché rischiano accuse di complicità con gli assistiti, riferiscono di sevizie, privazioni, deperimenti dovuti a carenza di cibo, malattie contratte nei luoghi malsani di prigioni ufficiali e ufficiose. Per non parlare dello stato di prostrazione vissuta da alcune vittime che si sentono sospese in questa condizione di reclusione e libertà vigilata divenute le costanti della loro esistenza.

L’inferno psicologico è l’ulteriore meccanismo di paura diffuso nel grande Paese arabo da un regime cui il mondo lascia fare ciò che vuole verso cittadini, lusingati con una forzata scelta di consenso oppure terrorizzati da quello che gli potrà accadere. Addirittura individui al di sopra d’ogni sospetto, che mai hanno manifestato segni di repulsione contro lo Stato forte imposto da militari, poliziotti e magistrati iniziano a segnalare crescenti anomalie quotidiane. Accadono, ad esempio, a insegnanti rei d’essere stranieri. L’ultimo episodio ha per protagonista e vittima una docente francese, sposata a un palestinese con madre egiziana, che s’è vista arrestare il marito impegnato in politica. Contemporaneamente è stata fatta rimpatriare senza poter rivolger al proprio Consolato alcuna protesta. E’ stata bollata come persona non gradita, e le è andata bene. Se tanto accade a elementi del ceto medio-alto, che tramite contatti familiari riescono a lanciare pubblici appelli d’aiuto, figurarsi la condizione di donne e uomini senza risorse economiche, senza il possibile sostegno di partiti d’opposizione e neppure delle associazioni dei diritti, da quattro anni a questa parte messe al bando con una diretta persecuzione di responsabili e attivisti. E’ accaduto al Centro El-Nadeem, al Centro Nazra, all’Istituto cairota per gli studi sui diritti, a decine di Ong locali meno note. Le sessantamila detenzioni, la cancellazione di trentamila siti web sono conosciute, eppure non accade nulla. Mentre s’impone l’Egitto dell’esistenza appesa a un filo, oscillante fra i giorni penzolanti verso una quotidianità posta sotto controllo e quelli bloccati dal respiro messo sotto chiave. Un Paese  definito normale.



martedì 10 settembre 2019

Afghanistan, dai colloqui al voto in un Paese senza pace


Chiarito che il colpo di scena e di spugna sui ‘colloqui di pace’ afghani è opera del presidente Trump, vengono fuori le tensioni che dividono il partito repubblicano statunitense. C’è chi, come il Consigliere per la sicurezza della Casa Bianca Bolton, non voleva e non vuole il ritiro dei militari dalla “lunga guerra” perché lo spettro dell’11 settembre, di cui ricorre  domani il diciottesimo anniversario, è sempre dietro l’angolo. E chi (il Segretario di Stato Pompeo) pensava e pensa che un accordo sia una soluzione utile non solo come medaglia da esporre nella teca delle stipule storiche firmate a Camp David. Eppure la vanità dell’attuale presidente Usa, che avrebbe sfidato quella dei meno permalosi Carter e Clinton s’è fermata, bloccando un percorso lungo un anno e più. La tela tessuta da Khakilzad, il diplomatico afghano che preserva gli interessi americani, resta incompiuta. In verità il tragitto potrebbe ripartire. I talebani ne sono allettati, sebbene abbiano voluto forzare la mano con attentati e morte che nel loro codice incentiva l’autostima e dice ai locali signori della guerra vecchi e nuovi, quelli idealmente vicini (Hekmatyar) e quelli buoni per tutte le stagioni (l’attuale vicepresidente Dostum): senza di noi non andrete lontano. Lo sanno tutti, ma tutto sembra perpetuarsi.
A cominciare dalla parvenza di democrazia incarnata dalle elezioni presidenziali del 28 settembre. Ora, attentato più attentato meno e non vogliamo con ciò apparire cinici, è questa la scadenza cui guarda chi è stato messo ai margini dalle trattative qatarine. Innanzitutto il presidente uscente Ghani, il cui ruolo è un tutt’uno col modello politico fallito. Uno schema imposto dall’Occidente in cui crede solo quel pezzo dell’Afghanistan volutamente o involontariamente legato a esso. Politici, governatori e funzionari spesso corrotti, burocrati d’un apparato costosissimo che si autoalimenta ma nulla fa per la nazione e la sua gente. Non a caso gli stessi due rami del Parlamento (Wolesi Jirga e Meshrano Jirga) sono riempiti di soggetti che perpetuano una conduzione politica tutt’altro che favorevole al popolo, e i pochi rappresentanti lontani da intrighi vivono in isolamento istituzionale. L’hanno testimoniato più volte. In queste ore nel rilanciare le possibilità elettorali, organi di stampa locali come Tolo News riportano le dichiarazioni di alcuni candidati. Pur in lizza i signori Ahmad Massud e Rahmatullah Nabil, credono poco alla trasparenza elettorale, temono quei brogli che si sono ripetuti nelle sedicenti elezioni libere dei tempi di Karzai e ancor più di Ghani. Dubbi alimentati dai giri di valzer d’un personaggio come Abdullah, che ha infilato conferme e smentite su una sua ennesima candidatura.
Costui, esponente dell’attuale diarchìa che condivide con Ghani, è un vecchio arnese della politica bifronte praticata dagli uomini del modulo democratico: la veste occidentale s’intreccia al tribalismo dei clan, i legami etnici e confessionali supportano quel parastato dei gruppi paramilitari dei warlords che controllano le province, rappresentando un contraltare alla matrice talebana con qualche principio fondamentalista più attenuato, ma con la medesima violenza. Tutto ciò non è un’opinione, è scritto in quanto di scarsamente popolare s’è fatto nel Paese dal 2003, dopo che il governo talebano era stato sostituito da figure garantiste per una sedicente democrazia. Una linea suggerita da Washington e dagli alleati occidentali che si comportavano, né più né meno, come i padri dell’imperialismo moderno che inventava il Medio Oriente con le spartizioni degli accordi Sykes-Picot-Sazonov. In certa storia che si ripete c’è anche del nuovo, ovviamente tecnologia e attuale economia stabiliscono sistemi di sfruttamento e controllo più sofisticati. Però nel caso della nazione cuore dell’Asia, verso cui si sono alimentati interessi e intrighi che hanno dato vita a un filone geopolitico definito “Grande gioco”, taluni meccanismi non tramontano. E la crudeltà nei confronti di cittadini, cui s’impedisce l’emancipazione, resta immutata.

domenica 8 settembre 2019

Trump congela l’accordo coi taliban


Irruento e umorale come sa essere, Donald Trump ha bloccato due incontri segreti da tenere a Camp David. Il primo con una delegazione talebana quindi col presidente afghano Ghani. Così il via libera alla sedicente pace atteso a ore, e guarda un po’ a cavallo dell’11 settembre, resta bloccato. Quel che non riuscivano a fermare le centinaia di vittime di attentati che insanguinano il cammino della gente comune, lo ferma il decesso d’un soldato statunitense straziato dall’ultima autobomba del fondamentalismo a Kabul. E’ questo il motivo ufficiale del blocco trumpiano. Sorpreso anche Ghani, tenuto sempre lontano dai tavoli dei colloqui per il diktat imposto dai turbanti che considerano la sua figura un’ingerenza nell’Afghanistan del futuro, mentre la delegazione talib di Doha ha dato notizia d’un prossimo suo vertice che punta ad agire non impulsivamente davanti alla mossa del presidente Usa. I negoziatori della Shura di Quetta forse non sono stupiti affatto, loro hanno continuato a puntare al caos, imponendo attentati su attentati in tante, troppe province. La sequenza degli ultimi giorni è stata impressionante: Takhar, Badakhshan, Balkh, Farah, Herat, Baghlan, Kunduz, Kabul.
Voleva ribadire la propria supremazia verso chiunque: gli americani trattanti e gli alleati delle truppe Nato di cui richiedevano il ritiro, inizialmente integrale poi concordato su cinquemila unità, i miliziani concorrenti del Khorasan, e pure l’esercito locale giudicato incapace praticamente di tutto. Agli Stati Uniti stava bene così perché, oltre a mantenere le basi aeree per controllo e possibili attacchi a obiettivi nemici (che non solo i jihadisti, ma soprattutto potenze regionali e mondiali), potevano proseguire e rilanciare l’azione armata dei reparti della propria Intelligence e delle varie agenzie mercenarie che da anni agiscono su quel terreno. Dovevano ricevere in cambio la promessa talebana di non fornire basi al terrorismo qaedista, una promessa tutta da verificare, ma ad accordo concluso vendibilissima in patria al cospetto dell’elettorato chiamato prossimamente a eleggere il 46° presidente Usa. La pantomima della “pacificazione” sta andando avanti da un anno e, ora che il traguardo era prossimo, giunge il colpo di scena. Nel gioco delle parti questa sospensione può avere lo stesso effetto impresso dai turbanti col loro “dialogo a suon d’autobomba”.
Trump ama sorprendere, quest’atteggiamento è il suo piatto forte in politica estera: l’ha usato con Kim, Rouhani e Zarif, col governo cinese nel tira e molla sui dazi. Ovviamente gli analisti si scatenano per decriptare il suo voltafaccia che fa più male ai taliban perché azzera un invito in un luogo simbolo per la diplomazia americana, divenuto celebre nella politica mondiale. Secondo alcuni commenti il Capo della Casa Bianca avrebbe ceduto al suggerimento di taluni consiglieri che ritengono fortemente squilibrato l’andamento della trattativa, coi turbanti da mesi fermi ad esempio nel rifiutarsi di riconoscere valore alle attuali istituzioni afghane, che sarebbe  un’anticamera per riproporre il loro Emirato. Mentre c’è chi sostiene che Trump sia solo pratico non etico e non si strappa le vesti per Ghani e il parlamento afghano, che se accordo ci dovesse essere dovranno subìre assieme l’intero Paese il ritorno talebano. E alla fine la stoccata del presidente americano sarebbe null’altro che un colpo di teatro al quale i talebani opporrebbero la ferrea logica delle motivazioni ultime. Se la “lunga guerra” non ha un vincitore, ha certamente uno sconfitto: l’invasore. E se quest’ultimo vuol conservare certi interessi in Asia, l’accordo non potrà essere rinviato all’infinito. 

venerdì 6 settembre 2019

Morsi junior, il buio e l’oblìo


Di notte. Al buio. Una bara circondata da poliziotti e mukhabarat che vigilano perché nessuno, proprio nessuno accompagni un giovane dal cognome ingombrante. Qualcuno invece c’è, pur tenuto a distanza e infila due scatti che girano sul web. Mostrano l’inumazione tenuta segreta di Abdullah Morsi, il figlio dell’ex presidente egiziano, morto come il padre per infarto, ma a venticinque anni. La notizia del decesso data dalle agenzie, segnalata da Al Jazeera e commentata soprattutto sui social - con grosse limitazioni nel Paese arabo dove la paura prima della stessa censura ha frenato tanti dal manifestare pensieri - ha anche visto parecchi sollevare dubbi su questa morte giunta improvvisamente a una verde età. In un ragazzo che, a detta dei familiari, non manifestava patologie cardiocircolatorie. La polizia non sembra aver predisposto indagini di nessun genere. Invece s’è organizzata per agli stessi parenti della vittima, di accompagnarla per l’ultimo saluto. Il rito funebre s’è svolto in piena notte e la mano pietosa e anonima che ha scattato quelle immagini, l’ha fatto a suo rischio, celandosi dietro altre persone. Se qualche funzionario avrà visto, ha lasciato correre, poiché l’intento governativo era stato raggiunto. Come per tante vicende egiziane la finalità di regime è volta a nascondere e cancellare, a realizzare quell’oblìo che vuol far dimenticare morti ammazzati e torture seriali, arresti di massa e persecuzioni personali.

Va avanti così da sei anni e la comunità internazionale non mostra imbarazzi. Ma dall’insinuarsi indebitamente nei cosiddetti “affari interni” d’una nazione, alla scelta d’ignorare la linea repressiva e la ripetuta violazione dei diritti umani che i militari del Cairo perseguono, ce ne passa. Se nessun Paese proferisce parola su quanto accade in quella società, e non lo fa neppure l’Italia il cui concittadino Giulio Regeni è finito martoriato con palesi e gravissime responsabilità dell’establishment al potere, la questione è preoccupante. Invece il nostro mondo politico è tutto infoiato dagli affari che si possono avviare e concludere con quel Paese governato da assassini. C’è una chiamata diretta che coinvolge due figure del neo formato governo: il premier Conte e il ministro degli Esteri Di Maio. Entrambi erano presenti nel precedente governo, il primo col medesimo incarico, il secondo allora come ministro dello Sviluppo Economico. Insieme all’intero Esecutivo uscente non hanno certo brillato per sostegno politico al lavoro giudiziario dei procuratori Pignatone e Colaiocco che indagavano sull’omicidio del ricercatore friulano. Da Conte e Di Maio, e da tutto un governo che afferma di nascere nel segno d’una “discontinuità”, i cittadini che domandano giustizia sul caso Regeni s’aspettano passi concreti: rottura diplomatica ed economica con un regime che sparge sangue innocente. E ostacola che un giovane infartuato che si chiama Morsi possa avere l’estremo saluto di parenti e amici.  

Turchia, l’emergenza rifugiati e l’Unione europea


Noi non apriamo i nostri confini a duecento rifugiati, come i Paesi occidentali” ha affermato ieri Erdoğan in un intervento fra le fila del suo partito riunito ad Ankara. Il riferimento risuona come monito per il presente e futuro, ma anche per le promesse che in passato i vicini europei non hanno mantenuto. Promesse pecuniarie, innanzitutto. A metà del 2016, quando l’emergenza migranti via terra e via mare angosciava il vecchio continente, la cancelliera Merkel a nome dell’Unione Europea accordò 6 miliardi di euro per finanziare i campi profughi che Ong turche organizzavano oltre i propri confini sud-orientali. Della cifra fu promessa nell’immediato la metà, dopo tre anni non solo mancano i restanti tre miliardi, ma pure una buona fetta di quelli che dovevano giungere dopo alcuni mesi dall’accordo. Gran parte del flusso migratorio di chi cercava riparo dallo spettro dello Stato Islamico erano siriani (circa 4 milioni risiedono attualmente in Turchia), ma fuggivano, e tuttora fuggono, tanti afghani dai disastri della propria terra marchiati dai talebani e da quei dissidenti che ora s’etichettano jihadisti del Khorasan. E poi iracheni, pakistani e altri popoli. Le migrazioni create dai conflitti e dall’instabilità economica sono la contraddizione con cui la politica globale s’interfaccia, e un uomo di mondo come il presidente turco lo utilizza e lo pone come merce di scambio.

Non che a Bruxelles abbiano fatto diversamente e meglio. Anzi. Così il sultano, che ha ingoiato pesanti sconfitte interne alle amministrative di marzo perdendo tutte le maggiori municipalità, con lo smacco ripetuto a giugno a Istanbul, cerca di gestire la questione che produce criticità su vari fronti. La linea dell’accoglienza scelta dall’Akp non ha pagato. Diversi analisti sottolineano come proprio nella ripetuta elezione sul Bosforo la posizione populista di İmamoğlu sui siriani che “devono tornare a casa loro” abbia trovato seguito e voti fra tanti istanbulioti, compreso  l’elettorato islamista di Fatih dove i siriani accolti dalla Mezzaluna Rossa sfiorano il milione. Erdoğan sulla questione non cambia posizione né faccia, ma chiede quel sostegno economico e politico che l’Europa ha promesso e non ha dato. Peraltro nel discorso di ieri ha ricordato come finora lo Stato turco abbia elargito più che incassato. Il denaro dedicato ai siriani ha superato i 40 miliardi di dollari e poiché negli intenti umanitari del governo di Ankara c’è il desiderio di offrire una condizione dignitosa ai profughi che vivono nelle aree di confine, tuttora nelle tendopoli, il suo progetto prevede di costruire e adibire per loro case in zone di sicurezza. Per questo piano servirà accordarsi oltreché con Germania e Gran Bretagna, anche con Stati Uniti e Russia.

Trattandosi di territori sensibili, dov’è ancora in atto il conflitto, come a Idlib, e anche di aree che vedono la presenza organizzata di forze quali le unità combattenti kurde del Rojava, il tutto risulta un tema delicatissimo di geopolitica mondiale. Il presidente turco, diversamente da omologhi occidentali, non mette la testa sotto la sabbia. Al contrario, le sfide più complesse ne stimolano le mai celate manìe di grandezza. In aggiunta il cinismo tipico dei giocatori d’azzardo lo conduce a rilanciare, tendendo la mano e minacciando. Dice alla Ue di poter continuare a tenere tanti profughi, ma vuole nuove condizioni per evitare il malcontento dei turchi più bisognosi che si sentono trascurati del governo. Perciò occorrono denaro per le case d’accoglienza e territori su cui costruirle. Lui suggerisce chi dovranno essere i pagatori e in quali punti collocare il rimpatrio di milioni di siriani. L’Unione Europea, vissuta per anni fra necessità ed emergenze, egoismi e spaccature interne, viltà e indecisioni, non sembra attenta alla gravità della situazione. Eppure una nuova rotta balcanica è già in atto da due anni, coi profughi sempre delle stesse nazionalità, bloccati e parcheggiati prevalentemente in Bosnia, in condizioni di abbandono ed  emergenza. I volontari e le Ong marginali che s’occupano di costoro spesso sono privi di quei fondi che i politici di Bruxelles maneggiano con una cura rivolta solo ai propri confini, tranne angosciarsi se vengono “violati”. La neo commissaria europea e pupilla della Merkel, Ursula von der Leyen, e i suoi retribuitissimi colleghi dovrebbero operare col pragmatismo richiesto da un simile dramma.

giovedì 5 settembre 2019

Egitto, muore anche Morsi junior


Un destino segnato quello di Abdullah Morsi, figlio venticinquenne del deposto, incarcerato e defunto presidente egiziano Mohammed. Anche il giovane è morto per un attacco cardiaco avvenuto ieri. Ne danno notizie alcune agenzie, fra cui la turca Anadolu, che riporta i comunicati dell’Oasis hospital di Giza e la versione fornita dal fratello Ahmed. Abdullah stava conducendo un’auto quando ha riscontrato improvvisi spasmi. Soccorso è stato condotto in ospedale, ma il personale sanitario non è riuscito a rianimarlo. Il decesso segue di tre mesi quello paterno, avvenuto sempre per un infarto mentre era in corso un’udienza nel Tribunale che giudicava l’ex presidente per “aver tramato contro la sicurezza della nazione”. Le condizioni fisiche del sessantottenne politico della Fratellanza Musulmana erano compromesse dalle disfunzioni cardiache e dal trattamento carcerario che, dal momento della sua rimozione nel luglio 2013, non era stato leggero. Come denunciato dai legali di vari leader del partito islamista, in alcuni casi finiti anch’essi in galera, il carcere duro e le torture non erano mancate per uomini che avevano superato sessanta e settant’anni d’età. Abdullah Morsi non s’occupava di politica. Certo, aveva assistito il padre durante il processo e s’era mostrato critico verso il regime persecutorio introdotto dal generale Al Sisi. Il ragazzo era stato recentemente fermato con l’accusa di uso di stupefacenti, però i difensori sostenevano si trattasse di un’accusa fabbricata ad arte per incutergli timore e tenerlo lontano da tentativi di sostegno della causa paterna e di quella del gruppo di riferimento. In alcuni interventi comparsi sui social network il giovane Morsi aveva additato Abdel Ghaffar, il ministro dell’Interno che ha gestito gli anni della repressione più dura nei confronti di oppositori e di cittadini egiziani e stranieri, che hanno conosciuto rapimenti, sevizie e  morte violenta come il nostro Giulio Regeni. E aveva citato anche l’attuale ministro Mahmoud Tawfiq, successore di Ghaffar e suo strettissimo collaboratore nella  National Security Agency, l’Intelligence che tanta parte ha avuto nelle operazioni più nere, peraltro non terminate. In ogni caso, il secondo figlio di Morsi è mancato per attacco cardiaco. Occorrerà vedere se seguiranno  indagini.

martedì 3 settembre 2019

Afghanistan, continua la guerra alla gente


Mister Khalilzad non solo sa, ma ha ampiamente messo in conto che mentre annuncia l’ormai certo ‘accordo di pace’ coi leader dei talebani dialoganti, i miliziani della stessa famiglia proseguono gli attentati per far salire le proprie quotazioni. La tre giorni di Kunduz-Balkh-Kabul (ieri sera un camion-bomba nell’area della capitale definita Green Village ha dilaniato sedici persone e ne ha ferite oltre un centinaio) non è frutto dello Stato Islamico del Khorasan. E’ opera dei turbanti di Doha che vogliono molto di più di quel che chiedono. Hanno compreso come l’accordo gli restituisce quanto l’invasione dell’Enduring Freedom gli aveva tolto, non solo quale presenza sugli scranni di Kabul, ma nei rapporti internazionali. Dall’altra parte del tavolo i servitori del cinico Trump, che pensa esclusivamente alle sue elezioni, gli confezionano un piano per l’elettorato: anziché svenarsi nella polvere afghana, interessi e spese americane vengono riconvertiti. E’ un giochino di prestigio, perché occhi e mani statunitensi restano in loco pur se diminuiscono i numeri. Infatti già si conteggiano 5.000 marines in meno, ma di fatto questo percorso rilancia il lavoro che da tempo la Cia pratica con la formazione di reparti antiterrorismo. Questi venivano addestrati già nei primi anni d’occupazione del Paese, ne facevano parte militari Nato di diversa nazionalità, fra cui nostri incursori del ‘Col Moschin’.
Quindi gli addestratori di Langley si sono spesi nell’organizzare milizie parallele di afghani le cui azioni andavano dal semplice pattugliamento di massima sicurezza per i capi militari Nato presenti in loco, a missioni  segretissime nei santuari del jihadismo e negli stessi territori della Fata, oltreché di ‘extraordinary rendition’. Da qualche tempo alcune di queste unità sono finite sotto la direzione dell’Intelligence afghana, seppure gli addetti ai lavori sostengano che simili interventi si sviluppano sempre e solo sotto la supervisione della Cia. I taliban hanno continuato a colpire questi reparti, disprezzandone gli appartenenti locali, fino a ucciderne alcuni responsabili di primo piano. Un caso clamoroso accaduto circa un anno fa è stato l’eliminazione del generale Raziq, freddato assieme al capo della sicurezza dell’Afghanistan meridionale in un compound di Kandahar, dov’era in corso un incontro di vertice. Il colpo fu realizzato da una guardia del corpo, un talebano infiltratosi nientemeno che fra i super agenti dell’Intelligence locale. Raziq era considerato, dalla popolazione che aveva subìto i suoi trattamenti, un torturatore seriale. E per questo era odiato. Attualmente  Trump sostiene la linea di diminuire la presenza delle truppe, incrementando il lavoro dell’Intelligence, ma i vertici militari insistono che occorre una precisa definizione di tempi e modi, non di una parata di numeri.
Anche perché secondo alcuni analisti un ritiro rapido delle truppe produrrà un collasso sulla sicurezza del Paese anche in quelle province, e sono un terzo del Paese, teoricamente sotto il controllo delle forze governative. Lo dimostra la crescente perdita quantitativa delle Afghan National Army, incapace di tenere il terreno senza il supporto dei marines e dell’aviazione americana. I taliban lo sanno e conseguire un accordo che li renda vincenti sui tavoli diplomatici è gioia anche maggiore dell’ampliamento del controllo di vallate e vie di comunicazione in ogni punto cardinale. Eppure una delle posizioni statunitensi, che ovviamente propende per il ritiro, sostiene che attacchi tramite droni, F35 e bombe supertecnologiche - come quella fatta esplodere nell’aprile 2017 nell’area di Nangarhar - siano sufficienti a garantire gli attuali interessi americani, appunto legati al mantenimento delle basi aeree per l’offesa e la supervisione dall’alto. Ciò che accade a terra è affare afghano, da risolvere fra coloro che devono “guidare” il Paese, nel modo conosciuto in due decenni coi presidenti Karzai e Ghani oppure alla maniera dei talebani, trasformati da nemici a interlocutori e mascherati con modi più congeniali alla diplomazia dalle loro dichiarazioni di apertura a una società dove ‘le donne possono studiare e occuparsi anche della vita civile’. Ma l’unica attenzione che gli studenti coranici, buoni e cattivi che siano, mostrano per la comunità sta nell’assegnarle un ruolo di vittima designata alle proprie bombe, al proprio progetto di dominio, al proprio fanatismo mai messo in discussione da nessun interlocutore a Doha e a Mosca.