lunedì 30 marzo 2020

Afghanistan, il contagio che viene da Occidente


Ha viaggiato da Occidente il coronavirus che s’è affacciato in Afghanistan. Come dappertutto nel mondo ha viaggiato con gli uomini, soprattutto lavoratori migranti che da metà marzo hanno attraversato il confine in direzione di Herat rientrando dall’Iran. Anch’essi avevano perso lavoro per la progressiva copiosa serrata di tante attività rurali di raccolta di frutta e ortaggi, di facchinaggio nei grandi centri di smistamento merci e nei bazar. Alla frontiera, che ora è stata chiusa, il flusso crescente è diventato una marea. Ammette il governatore della provincia di Herat, che il non numeroso personale sanitario di controllo, riusciva a mala pena a misurare la temperatura al 10% dei cittadini che rientravano. Il trasloco di per sé poteva essere fonte di contagio: i bus erano zeppi, così come le camere prese in affitto negli spostamenti di ritorno per un viaggio che, verso Kabul o ancora più a est a Jalalabad dura due-tre-quattro giorni. Sono state giornate di enorme calca e promiscuità, e ora che la dogana è stata chiusa c’è chi attraversa una frontiera porosa con propri mezzi, finanche a piedi e soprattutto senza controlli sanitari. Il bollettino dell’Organizzazione Mondiale della Sanità stima poco più d’un centinaio di casi, ma non è una statistica è solo un numero che rileva gli episodi eclatanti. Come altre situazioni critiche di Paesi mediorientali le carenze strutturali non consentono di arginare una pandemia, e se da una parte un certo isolamento delle persone è imposto da ragioni d’incolumità per la presenza di attentati da parte dell’Isil, la coabitazione nelle povere case delle città può infiammare eventuali focolai di chi porta il virus da fuori. Per ora l’epicentro del Covid-19 è Herat, che conta un milione e mezzo di abitanti stabili e dove la situazione della sicurezza è più calma che altrove. Fra l’altro quattro militari italiani del contingente Nato di stanza in città risultano positivi. Proprio quel che s’è visto nei giorni scorsi con gruppi di persone a contatto di gomito nelle moschee, nelle strade, nei parchi è l’esatto contrario d’un comportamento di prevenzione e contenimento epidemico.

Il ministro della Salute Feroz ha lanciato avvertimenti anche televisivi additando il pericolo d’una situazione simile a quella cinese. Ma finora nessuna città è stata bloccata, s’inizierà proprio da Herat dopodomani, con quali capacità di controllo è tutto da verificare. Quel che è accaduto dieci giorni fa in occasione della ricorrenza del Newroz non fa ben sperare. Il presidente Ghani aveva invitato a non riunirsi per ragioni di salute pubblica. Non è stato ascoltato, non si sa se per la sua totale mancanza di autorevolezza oppure per l’attaccamento della gente alla festa di primavera, che per tante etnìe ha risvolti religiosi o infine perché non c’è coscienza del pericolo pandemico. Del resto in molti sottolineano come un popolo sottoposto allo stress di conflitti infiniti da oltre quarant’anni abbia un atteggiamento talmente disincantato da sfiorare l’incoscienza. Vedere quotidianamente la morte, respirarla con la polvere di trinitrotoluene dei camion-bomba unita alla polvere delle strade porta la popolazione a un atteggiamento compassato, cosicché insinuare il concetto del rischio subdolo di questo virus non è affatto facile. E poi vediamo quanti problemi riscontrano nazioni della cosiddetta sfera del benessere, l’Italia per l’appunto, nel procurarsi il minimo presidio indispensabile della mascherine, nella capitale afghana può risultare impossibile anche trovare del semplice sapone per l’igiene delle mani, non i preziosissimi disinfettanti. Ma tornando ai dati dei cento infettati, e due decessi, concentrati al 70% nell’area di Herat il ministero della Salute, visti i presupposti prospetta situazioni che possono diventare tragiche con l’ipotesi di migliaia di morti. Per un Paese che soffre da tanto tempo c’è da sperare si tratti d’una indiretta scaramanzia, non d’un presagio.

sabato 28 marzo 2020

L’altra India fra coronavirus e povertà


L’India dei poveri, difficile da quantizzare e già in aumento per la recessione che negli ultimi tempi ha fatto scivolare il Pil a 4.7, il suo punto più basso da circa un decennio, allarga le file per il disastro del Covit-19. In dati di contagio sono tuttora bassi perché il monitoraggio della popolazione è scarsissimo, sebbene nell’ultima settimana si siano iniziati a registrare anche decessi (all’Organizzazione Mondiale della Sanità risultano 887 positivi e 17 vittime). Il governo Modi che, in bella compagnìa di ben più organizzati Paesi del mondo globalizzato, aveva sottovalutato il pericolo della pandemia sta affrettandosi a prendere qualche misura e ha devoluto 20.6 miliardi di euro a un primo contenimento. Negli ospedali delle maggiori metropoli la situazione è tutt’altro che agevole, mentre i presidi sanitari nelle località rurali di vari Stati sono semplicemente inesistenti. Alla nota difficoltà di applicare non solo un adeguato isolamento, ma anche il contenimento di possibili contagi tramite la distanza sociale, a causa dell’alta densità di popolazione, s’aggiunge la perdita del lavoro degli occupati in aziende che hanno dismesso l’attività per la momentanea serrata decisa dal governo. Si tratta di attività centrali e statali, che sicuramente hanno ripercussioni sull’indotto, pensiamo solo alla catena dei cosiddetti lunch boxes (i fattorini che trasportano milioni di contenitori di cibo preparato dalle famiglie per gli impiegati pubblici e privati) ora rimasti senza lavoro, ma è in difficoltà anche la catena del ”fai da te” che in questa fase si blocca e non si sa per quanto tempo. Il governo di Delhi ha anche fermato i trasferimenti interni, almeno tramite trasporti pubblici, soprattutto treni e autobus, cosicché giorni fa pendolari e migranti interni hanno dovuto rincorrere l’ultimo mezzo utile.

Ora si registra una trasmigrazione a piedi, perché chi non ha più lavoro, pur di rientrare verso i luoghi d’origine e arrangiare qualcosa, non tralascia questa soluzione. Una delle aree di maggior ritorno è l’Uttar Pradesh, lo Stato dei musulmani, un’area popolosa e povera che conta migranti d’ogni genere all’estero e all’interno. Chi ha assistito a questa marcia forzata la descrive come un’emergenza a sé, poiché realizzata anche da soggetti deboli, famiglie con donne e bambini. La polizia nei punti d’ingorgo interviene imponendo “quattro passi di distanza”, ma si capisce che si tratta di una formalità, tanto per dire che si fanno rispettare le direttive dell’Esecutivo. Come dimostrano i casi italiano, di altre nazioni d’Europa e degli stessi Stati Uniti, il coronavirus non conosce confini e non differenzia classi sociali. Ovviamente ben pochi dispongono come la regina Elisabetta, che per la veneranda età di rischi ne corre, d’un castello per l’isolamento. E se la situazione indiana non è quella dello sfruttamento imposto dal Raj britannico, la popolazione che da quell’epoca è triplicata diventa in casi simili una vera zavorra, visto che organizzare la prevenzione di 1.3 miliardi di cittadini tramite il distanziamento appare improbo. Comunque l’emergenza peserà maggiormente sugli strati più deboli, i milioni delle bidonville a cui le organizzazioni caritatevoli distribuiscono gratuitamente cibo, ma anche su 87 milioni di agricoltori ai quali la ministra delle Finanze Nirmala Sitharaman riserva 2000 rupie, mentre 1000 andranno a 30 milioni di anziani e portatori di handicap. Ciascuno riceverà rispettivamente 24 e 12 euro. Invece da inizio aprile è prevista la distribuzione di cinque kg di riso o grano e un chilo di lenticchie per 800 milioni cittadini. Così l’altra India esce allo scoperto.

venerdì 27 marzo 2020

Colloqui intra-afghani, presentata la delegazione


Il gruppo dei colloqui che stentano a partire per gli ‘stop and go’ imposti dall’estrema litigiosità dei presidenti-contro (Ghani e Abdullah), ma mai dire mai per le cose che riguardano l’Afghanistan, è stato formato e presentato alla stampa. Quindici uomini e cinque donne attesi al faccia a faccia coi rappresentanti talebani, una lista menzionata da Tolo tv che può dar luogo a considerazioni inesorabilmente sconsolanti. A guidarlo sarà l’ex capo dell’Intelligence locale Masoom Stanikzai, coadiuvato da un nucleo che potremmo definire tecnico-burocratico: Ayoub Ansari, ex comandante della polizia di Herat, Nader Nadery, della Commissione servizio civile, Matin Bek, capo del Direttorato della governance locale, Enayatullah Baligh, membro del Consiglio degli Ulema, Rasoul Talib, consulente del presidente (ma quale? si presume Ghani). Segue un nucleo  di politici. Coloro che hanno rivestito cariche ufficiali: l’ex ministro dell’Economia Hadi Arghandiwal, l’ex degli Esteri Ahmad Moqbel, il già deputato Hafiz Mansour. Quindi i rappresentanti dei più consistenti partiti islamisti, e fondamentalisti: Kalimullah Naqibi per Jamiat- e Islami (il partito che fu dei defunti warlord Rabbani e Massud), Amin Karim per l’Hizb-e Islami  (la formazione del “macellaio” di Kabul Hekmatyar, vivente), più un membro dell’ala giovanile del Jamiat-e Islami, tal Zainab Muahed. Non è finita. Poiché l’occhio dei Signori della guerra osserva sempre le evoluzioni dell’assetto nazionale, nell’assise è presente una coppia di figlioli d’arme: Khalid Noor, rampollo di Atta Mohammed, già governatore di Balkh e mujaheddin tajiko della vecchia guardia, vicino al comandante Massud. E Batur Dostum, figlio d’un altro papà sanguinario, Abdul Rashid, tuttora vicepresidente di Ghani. Per non farsi mancare nulla il vecchio Afghanistan trova un posto ad Amin Ahmadi, che è docente universitario, ma assai prossimo all’attuale antipresidente Abdullah Abdullah.

Giriamo pagina, si fa per dire, e vediamo qualche presenza femminile. Un’altra docente universitaria è Shahla Farid. Di lei non si sa molto. L’emittente di Kabul ne ha riportato una dichiarazione in cui afferma di non aver mai assistito a un incontro coi talebani, e di non conoscerli, assicura comunque che assieme alle altre donne della delegazione farà la sua parte. Più note sono invece Habiba Sarabi e Zakia Wardak. La prima è una veterana, deputata e capo dell’Alto Consiglio di pace, un’ematologa di etnia hazara dedicatasi alla politica già nel sedicente “nuovo corso” post talebano. Dopo aver ricoperto l’incarico di ministro degli Affari femminili, nel 2005 Karzai la nominò governatrice della provincia di Bamiyan, un’area del Paese che continua a essere fra le più povere e con elevato tasso di analfabetismo. Zakia Wardak, presidente della ‘Società afghana delle donne ingegnere’ è figlia del generale Ali Khan Wardak che ha combattuto contro l’Armata Rossa. Il fratello Zalmai egualmente generale, considerato un brillante analista strategico, fu assassinato. Anche il primo marito di Zakia era un militare e aveva combattuto contro i sovietici, morì in un incidente stradale. Con l’ultimo marito, Serajuddin, sempre del gruppo tribale Wardak da cui la famiglia di Zakia prende il nome, s’impegnò nel progettare orfanotrofi, almeno così recita la biografia che ha diffuso, ma maggiore enfasi la riveste la sua creatura, la Sawec (Society Afghan Women Engineering Construction) che riceve appalti direttamente dall’Esercito statunitense. Del resto la formazione di questa “donna manager” è prossima agli States. Dopo gli studi presso il Politecnico di Kabul, si è specializzata al Montgomery College in Maryland, instradando anche sua figlia Mariam, oggi trentaquattrenne, prima presso l’ambasciata statunitense a Kabul quindi verso il mistero che si occupa di narcotici. Forte di queste premesse nel 2018 Zakia s’è presentata per le elezioni alla Wolesi Jirga, la Camera bassa del Parlamento afghano.

mercoledì 25 marzo 2020

Kabul, lo Stato Islamico attacca i sikh


Mattina di fuoco nella Kabul storica, dove un commando dello Stato Islamico del Levante ha assaltato un tempio Sikh. E’ intervenuto l’esercito che, nella nota diffusa dal ministero dell’Interno, ha isolato il luogo dove si sono asserragliati miliziani armati, alcuni dei quali vestivano esplosivo. Notizie raccolte in loco dall’agenzia Reuters riferiscono di quattro vittime accertate e alcuni feriti, ma i numeri potrebbero aumentare perché a Gurdwara, la ‘Porta del guru’, l’attacco prosegue. Ad attuarlo, com’era accaduto di recente, l’Isil che vuole prendersi la supremazia delle stragi ora che la maggioranza talebana è ferma per il patteggiamento con gli Stati Uniti. Ma i cosiddetti accordi di pace non pacificano affatto il Paese e tantomeno la capitale che risulta sempre più vulnerabile a ogni genere d’agguato. Il fronte jihadista l’ha caratterizzato da tempo in senso religioso, colpendo senza pietà le minoranze, dalla più numerosa hazara di fede sciita, agli ormai poco numerosi sikh e hindu. Queste componenti, già all’epoca della guerra civile (1992-95), migrarono verso l’India, poiché erano oggetto di stragi frequenti, all’epoca perpetrate da Signori della guerra d’origine pashtun. Quando, l’anno seguente, i talebani presero il potere le famiglie sikh rimaste subirono, accanto a ostracismi sociali e politici, anche un’identificazione visiva, con l’obbligo d’indossare una fascia gialla sull’abbigliamento.
Le cose non cambiarono anche dopo l’allontanamento del governo talebano. L’amministrazione Karzai cercò di limitare la stessa rappresentanza simbolica sikh nella Loya Jirga e questo rappresentò un ulteriore motivo di loro migrazione a Oriente. In verità quando l’hazara e sciita Khalili fungeva da vicepresidente di Karzai, promise ai sikh di rispettare l’articolo 22 della Costituzione che proibisce le discriminazioni delle minoranze, ma fu una speranza inattuata. Ora a Kabul sono censite 300 famiglie sikh, dunque il numero della minoranza s’è ulteriormente ridotto dalle tremila unità conteggiate un quindicennio fa. Negli anni Settanta i sikh afghani, lì insediati dalla fine del XVIII secolo, ammontavano a centomila. Gli antropologi della geopolitica che si sono interessati alla loro situazione ricevevano come motivazione del malcontento non solo l’assenza di qualsiasi integrazione e il rispetto di un’identità personale, ma una vera persecuzione conseguente al marchio di “infedeli” attribuitogli dalla maggioranza islamica. Al di là di veri pogrom, la vita per gli appartenenti al gruppo resta difficile. Nella migliore delle ipotesi vengono derisi o insultati, spesso derubati per via anche di poveri averi, senza che le autorità intervengano a loro tutela. Gli episodi di aggressioni a bastonate da parte di altri cittadini non sono rari anche nei luoghi sacri dove i sikh praticano la cremazione dei defunti.

domenica 22 marzo 2020

Covid-19, primi due casi nella Striscia di Gaza


Lo divulga un servizio lanciato da Al Jazeera: il Covid-19 è penetrato a Gaza. Le autorità sanitarie, per bocca del ministro della Salute Youssef Abulreesh, hanno individuato due pazienti con evidenti sintomi (febbre e tosse secca) che sono stati posti in quarantena. Sono palestinesi che tornavano dal Pakistan entrando dal confine di Rafah. I quaranta chilometri della Striscia, dove vivono in altissima densità due milioni di gazawi, presenta annose criticità, già dall’epoca dei ripetuti attacchi militari israeliani, dalla criminale operazione denominata “Piombo fuso” (2008-2009) a quelle successive: “Margine di protezione” (2014) e oltre. Tali attacchi hanno deliberatamente e ripetutamente distrutto i servizi igienici (rete fognaria) e i già carenti servizi sanitari, impedendone la ricostruzione col rigidissimo embargo reiterato nel tempo. Così Gaza presenta un’ampia fascia della popolazione che vive in case tuttora disastrate o in abitazioni precarie che, in una fase in cui la pandemia del Coronavirus impone isolamento e distanza, risulteranno inadeguate per evitare i contagi. Le autorità politiche hanno presente la triste realtà, ma possono fare poco. Fra l’altro le ragioni sanitarie s’aggiungono a quelle d’un ferreo controllo militare dei confini,  Israele sta cancellando tutte le autorizzazioni per farli attraversare anche ai pur limitati soggetti che svolgono attività lavorative fuori dalla Striscia. Fra costoro i visti di medici e infermieri vengono esaminati caso per caso. La preoccupazione è elevatissima, e la chiusura di scuole e luoghi pubblici già attuata da giorni pur in assenza di casi, non attenua l’allarme. Ora che il virus s’è affacciato si tratterà di limitarlo. Il problema maggiore, come peraltro in tutte le situazioni di alta densità abitativa e di stazionamento sotto lo stesso tetto, è rappresentato dalla mancanza di spazio dove far vivere la gente per evitarne i contagi. I centri di quarantena dislocati a Rafah, Deir al-Balah e nella parte meridionale di Khan Younis potrebbero non essere sufficienti al possibile aumento di persone infette. Inutile ribadire come tutti gli strumenti riguardanti l’assistenza e la terapia intensiva come ventilatori polmonari e simili, che in queste settimane risultano deficitari anche in qualche ospedali di alcune località italiane, a Gaza diventano solo un sogno. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ribadito che la situazione in quel territorio è assolutamente insufficiente già alla normale assistenza per la popolazione, figurarsi davanti a una pandemia.

giovedì 19 marzo 2020

Coronavirus in India, l’impossibilità dell’isolamento


Tutti insieme pericolosamente. E’ la situazione che la popolazione indiana vive nei giorni in cui anche la nazione-continente è investita dall’epidemia del Covid-19. Alla densità delle sue megalopoli (Mumbai 19 milioni di abitanti, Nuova Delhi 17, Calcutta 15, Bangalore e Chennai 9 milioni ciascuna e ancora Hyderabad, Ahmedabad, Pune, Surat tutte metropoli che oscillano fra i sette e i cinque milioni di abitanti) s’aggiungono centri intermedi da centinaia di migliaia d’individui. Insomma fra i 400 e i 500 milioni d’indiani vivono ammassati in centri urbani. Non è una novità, ma in condizioni pandemiche e per un virus così infettivo l’isolamento delle persone diventa un indispensabile mezzo di tamponamento della diffusione. Il governo di Narendra Modi sembra non preoccuparsene. Alle carenze sanitarie, ovviamente sedimentate in decenni di conduzione statale insufficiente, s’aggiunge il pressappochismo dell’attuale premierato che usa il proprio autoritarismo per questioni politiche, non per far rispettare norme di salute pubblica. Sul fronte politico le contestazioni che fino a venti giorni fa avevano insanguinato le strade della capitale di altre città, con le bande di picchiatori hindu a caccia di cittadini musulmani al cospetto d’una polizia inerte, ora sono vietate. Anche per ragioni sanitarie. Però le linee ferroviarie, vie di trasporto indispensabili per raggiungere molte località, pullulano di persone che a malapena ostentano una mascherina di cotone.

Non c’è distanza, non sono stati emanati divieti per evitare rischio di contagi. Del resto il ministero della Salute ha diffuso un bollettino che riferisce 151 infetti da coronavirus, ma in realtà i test mancano e se l’Organizzazione Mondiale della Sanità si preoccupa e ribadisce di applicare misure restrittive per frenare l’infezione, gli organi preposti alla prevenzione attuano i test solo a coloro che provengono dall’estero e a persone che, essendo entrate in contatto con contagiati, manifestano sintomi dopo le due settimane di quarantena. L’agenzia Associated Press riferisce che, pur a fronte d’una capacità di 8.000 test quotidiani, ne vengono effettuati circa un centinaio. Finora a ieri risultavano testati 11.500 indiani. Le autorità sanitarie locali hanno beatamente risposto ai solleciti dell’OMS che quei test sono sufficienti perché la diffusione della malattia è stata minore che altrove. Addirittura il responsabile del Consiglio delle ricerche mediche ha parlato di “paure create, di paranoie e montatura”. Dal canto loro responsabili dell’amministrazione contabile fanno capire come l’ampliamento della cerchia dei soggetti testati presupporrebbe costi che lo Stato non si sente di affrontare (67 dollari a persona), già deve far fronte a infezioni di tubercolosi, Hiv e agli annosi problemi di malnutrizione.  

Certo, il “buon senso ministeriale” raccomanda alle persone di stare il casa, ma al di là delle decine di milioni di senzacasa, alle innumerevoli bidonville adagiate nelle immense periferie di tante metropoli, le stesse abitazioni prevedono la convivenza di decine di componenti familiari. Gli spazi urbani sono assolutamente sovraffollati. Comunque, per decisione governativa sono sospesi tutti i voli con l’Unione Europea, mentre chi arriva dai Paesi del Golfo è destinato a una quarantena di due settimane, come già lo erano i provenienti dalla Cina. Però chi è passato per i luoghi di quarantena, come certi studenti rientrati in patria dall’Occidente, testimonia della promiscuità (otto osservati in una stanza) e carenze igieniche nei bagni e nei letti. I testati in attesa dei risultati erano, neanche a dirlo, privi di mascherina e presidi igienici di base. Insomma mentre il governo cerca di guadagnare tempo, la nazione che può contare un letto ospedaliero per ogni mille abitanti (in Italia sono 3, nella Ue 5), è minacciata da un’espansione epidemica che non riuscirà a trattare come ha fatto la Cina. Interrogato dal quotidiano Le Monde l’endocrinologo Shashank Joshi dichiara “L’India è una bomba a orologeria, e se gli spostamenti non saranno completamente proibiti, il controllo del virus diventerà impossibile”. Mentre affidandosi alle preghiere, alla tradizione e anche alla superstizione qualche nazionalista hindu pensa che si possa provare a frenare il demone del virus con l’urina “sacra” delle vacche. L’India dai mille volti non si smentisce.   

martedì 17 marzo 2020

Il “Rimedio" contro Erdoǧan


Suona “Rimedio”, in turco Deva (Demokrasi ve Atılım Partisi), la sigla del nuovo partito con cui Ali Babacan s’appresta a curare l’odierna Turchia che, a suo dire, è malata, non morta. Dunque democrazia e progresso sono la via per la guarigione. Ma le “medicine” di progresso, sviluppo, giustizia ricorrono nelle denominazioni di formazioni politiche dai tempi di Özal, che con la crescita economica cercava di cancellare le ferite dell’ultima dittatura militare, e hanno disegnato una società più tecnologica non più libera. Babacan, già ministro dell’Economia dei tempi d’oro del consolidamento del potere di Erdoǧan (2009-2015), lo sa bene. Perché del progetto delle grandi promesse dell’Akp è stato uno dei pilastri, godendo del titolo di più giovane ministro del primo gabinetto del Sultano nel 2002. Se all’epoca Erdoǧan ai suoi occhi fosse un altro politico, può darsi. Non lo era per quei laici e democratici turchi che tremavano al suono del discorso rimasto celebre su “minareti, cupole e moschee quali canne di fucile, elmetti e caserme” per il suo progetto d’Islam politico. Dopo quell’arringa a una folla di attivisti-fedeli, Erdoǧan finì incriminato e scontò mesi di carcere, ma ne uscì rafforzato tanto da poter avviare la scalata al potere. Lo affiancavano Gül, Davutoğlu, Barbacan e altri sodali che ora non gli sono più accanto e, come quest’ultimo, meditano vie di salvezza per la nazione. Sebbene la tenuta interna del presidente sia reale e la sua considerazione internazionale concreta, nonostante scaltrezze e reiterati ricatti.

E’ contro la corazzata dell’Akp e contro l’ex mentore che Babacan lancia il piano del “Rimedio”. Considera la Turchia un Paese ampio, non un’isola-Stato da condurre centralisticamente. Un’idea bella, forse un sogno vista la storia recente della nazione, le sue crisi risolte o comunque rappezzate a suon di colpi di scena e di mano dall’uomo che vuol incarnare lo Stato ben più di Atatürk. E anche davanti agli attuali orientamenti autocratici della geopolitica. Eppure le sfide diventano tali proprio perché appaiono impossibili e l’ambizioso Babacan è troppo giovane per ritirarsi a vita privata. Dovrebbe sapere quel che rischia, poiché l’Erdoǧan presidente pratica quel populismo autoritario che non è esplicita  dittatura, ma ne raggiunge gli scopi usando gli strumenti costituzionali, plasmati a suo favore coi voti del Parlamento. Con questi negli ultimi anni piega gli avversari, fino a incastrarli con accuse di trame corruttive, sovversive, terroristiche. Così ha trasformato ex alleati e oppositori politici in nemici della patria, allontanandoli dal potere oppure incarcerandoli. Così tratta giornalisti, intellettuali, attivisti e avvocati dei diritti, oltre agli odiati kurdi dell’autodeterminazione politica, pur quando giungono nel Meclis con tanto di legittimazione elettorale. Se Babacan non cadrà nella rete d’una magistratura anch’essa “presidenzialista”, la sfida potrebbe arrivare con le elezioni del 2023. Elezioni doppie, parlamentari e presidenziali, cui peraltro Erdoǧan tiene come a una fase iconica, che lo collocherebbe alla guida della Turchia per un lasso di tempo pari a quello rivestito proprio da Atatürk.

Ostacolare la sua megalomanìa è possibile? e altrettanto lo è battere la macchina elettorale del partito di maggioranza? Il cinquantaduenne transfuga ritiene di sì, erodendo l’appoggio di quel ceto medio che le spinte centrifughe della politica estera del presidente mettono in subbuglio, come la stessa economia che ne risente le scosse. Insomma l’uomo che aveva buoni rapporti con l’Occidente sia d’Oltreoceano, sia dell’Unione Europea prospetterebbe la via del liberismo moderato senza strattoni e senza “problemi coi vicini”, quello che fu il mantra di Davutoğlu. Certo quella fase s’è chiusa. Ed è attraverso la polarizzazione del suo stesso popolo che Erdoǧan ha stretto attorno a sé un sostegno militante che gli ha acconsentito di rintuzzare il terrorismo, annullare un golpe, ottenere ‘comprensione' quando ha portato la guerra nelle case dei kurdi del nord-est, ai tempi dell’assedio di Cizre, e con gli attacchi esterni al Rojava dell’ottobre scorso. E’ vero che nelle ultime amministrative il regime ha dovuto ingoiare la perdita del consenso in tutte le grandi città, ma quella sconfitta ha sancito una risalita nell’urna del kemalismo repubblicano, non la nascita d’un nuovo soggetto politico. Chi lo aveva pensato fra i Lupi grigi, la deputata Akşener, uscita dal Mhp proprio contestando l’alleanza con l’Akp, non ha ricavato granché (7.3%). E un partito a una cifra oggi non va da nessuna parte, in Turchia e altrove. L’unica ipotesi diventa il fronte “anti-sultano”, ma questa scommessa è tuttora una nebulosa, gli attuali i partiti-pianeti appartengono a sistemi fra loro estranei.  

lunedì 16 marzo 2020

Hambastagi: “Il processo di pace non ha relazione col rilascio dei taliban”



Ashraf Ghani avrebbe formato una delegazione di una decina di persone per avviare i colloqui inter-afghani. Per ora non trapelano nomi, si sa soltanto che non ci sono rappresentanti di partiti e movimenti. Sarà anche per questo che immediato è giunto il disconoscimento della sua già scarsa autorità. Due figuri della politica interna come Hekmatyar del partito Hezb-e Islami e Noor di Jamiat-e Islami hanno rispettivamente fatto dichiarare dai portavoce: “Il presidente ha fallito nel creare politiche di consenso per la leadership del processo di pace e per istituire una delegazione” e “Nessuno può sedersi coi talebani e difendere i diritti del popolo”. Ciò vuol dire che la fronda interna al percorso di Ghani s'allarga, aggiungendo altri elementi all'auto proclamato antipresidente Abdullah. Ma nella gara delle dichiarazioni, il rappresentante del presidente ha rassicurato: “La formazione della delegazione è in corso, a breve si potrà procedere con l’avvio degli incontri”. Occorrerà vedere se la diplomazia talebana accetterà questo percorso, perché oltre al riconoscimento degli interlocutori, che non riconoscono né ufficialmente né formalmente, c’è di mezzo la questione del rilascio dei loro prigionieri nelle mani del governo di Kabul. L’escamotage di offrire 1500 scarcerazioni scaglionate, lanciata nei giorni scorsi da Ghani, è stata inizialmente rifiutata dai turbanti. Qualche osservatore sostiene che i “coranici”, per non far saltare l’intero castello delle trattative lungo ormai venti mesi, potrebbero anche adottare una linea più morbida. Però il ma è d’obbligo. I talib si sono anche riferiti all’emergenza sanitaria mondiale del Covid-19 per ricordare che uno sfoltimento della popolazione carceraria è opportuno visto che il governo non ha i mezzi per sostenere l’impatto epidemico in prigioni che sono, comunque, sovraffollate. Non è chiaro se il pronunciamento fosse generale o interessato e riferito solo ai propri prigionieri. In ogni caso mirava a rilanciare il concetto dei cinquemila subito fuori. Ma fra i politici c’è chi si esprime decisamente contro questa misura degli accordi. Il partito di attivisti democratici Hambastagi in una manifestazione tenutasi domenica nella capitale ribadiva che la liberazione dei combattenti islamici è un passo falso. “Il processo di pace non ha alcuna relazione col rilascio dei taliban” ha affermato un membro del partito, mentre la portavoce Selay Ghaffar rincarava “L’Afghanistan non conoscerà la pace con quest’accordo segreto”. La popolazione ne è cosciente, non ha la forza per imporlo. Così la partita resta aperta e gli interessi di parte continua a contare più della vita della gente e del loro futuro.

sabato 14 marzo 2020

Afghanistan, la pace di carta e il Coronavirus alle porte


Il Covid-19 s’affaccia anche in terra afghana. Si sono registrati vari casi a Herat e verso il confine occidentale con l’Iran, dove c’è un via vai di rifugiati. In quel Paese la diffusione del virus è grave come in Italia e in Corea del Sud, sebbene Teheran non lasci trapelare molte notizie sull’epidemia interna. Le autorità di Kabul hanno stanziato 25 milioni di dollari per i primi interventi, 7 milioni come primo pacchetto d’aiuti messi a disposizione dal ministero della Salute. L’ambasciata cinese si è offerta a prestare contributi di soccorso per frenare il virus. Eppure a Kabul l’establishment politico appare maggiormente preoccupato della propria destabilizzazione verso i firmatari dell’accordo di pace. E’ noto come Stati Uniti e rappresentanza talebana abbiano deciso come primo passo il cessate il fuoco e la liberazione di cinquemila miliziani prigionieri. Nessuno dei due è stato compiuto. Nei giorni scorsi in due occasioni ufficiali la capitale afghana ha registrato lo scoppio di bombe. Ordinaria amministrazione, per quella realtà. Però l’accordo prevedeva, appunto, il blocco delle ostilità. Gli attentati parevano d’avvertimento, non hanno provocato vittime, ma sono indicativi del clima. Perché se quegli ordigni non erano talebani, come gli indiziati si sono affrettati a dichiarare, stavano comunque a dimostrare che la loro frangia ribelle, da almeno un biennio aderente all’Isil, può continuare a colpire pur contro la volontà delle milizie taliban, oltre che dell’inefficace Intelligence governativa.

Sull’altro fronte, politico, gli statunitensi si sono impegnati a rilasciare detenuti che non controllano direttamente, visto che le chiavi dei luoghi di detenzione sono in mano agli uomini di Ghani. Ora il governo afghano avanza questa proposta: libererà subito 1500 combattenti, per far continuare a marciare il processo di pace che dal 10 marzo prevedeva l’avvio dei colloqui inter afghani. Lasciando intendere che il resto seguirà se i turbanti si dimostreranno collaborativi. Il portavoce di Kabul ha sottolineato come la rappresentanza talebana (il mullah Baradar che ha firmato l’accordo davanti a Khalilzad) può scegliere “se restare una parte del problema oppure contribuire a risolverlo”. Probabilmente quei rappresentanti non prenderanno bene il piccolo diktat. Sia perché non hanno in alcuna considerazione i “fantocci” di Kabul, sia perché i patti erano chiari: le liberazioni devono essere cinquemila, non una di meno. In realtà sia loro, sia gli americani hanno parzialmente bluffato. Lo dimostrano gli eventi. Lo scenario presenta altri soggetti, sia combattenti, i miliziani dell’Isil, sia politici, il governo di Kabul seppure ignorato dai colloquianti e diviso dalla rissosità fra Ghani, Abdullah e magari qualche signore della guerra loro momentaneo alleato. Tutto ciò non è una novità per nessuno. Ma il dialogo inter afghano riuscirà a partire solo ammorbidendo le rigidità delle parti. Certo, chi non può alzare la voce è il presidente dimezzato, ma mai dire mai. La pantomima prosegue. Se dalla presunta pace, ripartiranno venti di guerriglia non ci sarà da stupirsi. Intanto s’aggiunge il nemico Coronavirus, un nemico per tutti.

lunedì 9 marzo 2020

Taliban, i più stabili nella politica afghana


Persino la rissosa galassia talebana risulta attualmente più stabile e seria dei rappresentanti ufficiali del regime afghano amato e sponsorizzato dall’Occidente. Lo si è visto palesemente stamane nel corso della cerimonia di giuramento che il candidato vincitore delle presidenziali dello scorso settembre, Ashraf Ghani, ha affrontato in solitudine. Unico conforto d’apparato gli è giunto dal rappresentante afghano presso gli Stati Uniti, quel Khalilzad che ha condotto per un anno e mezzo i ‘colloqui di pace’ coi turbanti, e dal comandante delle truppe Nato nel Paese, il generale Scott Miller. Volutamente è mancato all’insediamento Abdullah Abdullah, il candidato giunto secondo, che come aveva fatto nel 2014 ha decisamente contestato anche quest’elezione accusando il vincitore di brogli. Anzi, stavolta ha addirittura predisposto una propria cerimonia in contrapposizione a quella dell’avversario. Abdullah, oftalmologo tajiko con buoni agganci fra i pashtun, è da tempo un eterno secondo. Si presentò anche in alternativa a Karzai, ma poco potè contro l’agguerrito clan Popalzay. Dovette, dunque accontentarsi di incarichi di ministro degli Esteri e di premier in pectore, durante la prima amministrazione Ghani. Di fatto l’establishment nazionale, che avrebbe dovuto avviare il colloquio inter afghano proprio con la delegazione degli studenti coranici, non c’è.
Esistono due tronconi: quello di Ghani, gradito a statunitensi e presumibilmente ai loro alleati che però non risultano interpellati. E quello di Abdullah, che raccoglie il benestare di personalità e signori della guerra locali. Un quadro sconfortante per la spesa elettorale affrontata e la prosopopea di offrire comunque un’amministrazione democraticamente eletta. Ora i già scarsi risultati dei pochi votanti appaiono per l’ennesima volta inficiati dai dubbi di brogli, che reali o presunti (in genere non si riesce mai a saperlo), lasciano un’amministrazione spaccata e debolissima incapace di interloquire col soggetto politico talebano che, peraltro, rifiuta di riconoscerle qualsiasi valore. Perciò in queste ore a Kabul è andata in scena l’ennesima farsa d’un governicchio asfittico che necessita di rianimatori peggio di qualsiasi vittima debilitata del Covid-19. A maramaldeggiare sugli zombie governativi ci si è messo anche l’Isil che ha rotto ulteriormente la ‘tregua di pace’, lanciando due missili sulla postazione predisposta per Ghani. Un attentato più blando di quello di qualche giorno addietro, dove l’obiettivo pareva Abdullah e comunque l’apparato che ricordava il defunto leader hazara Mazari. Avvertimenti del clima che la capitale e l’intera nazione potrebbero riprendere a vivere, visto che le autorità ufficiali nulla possono sul fronte della sicurezza.

venerdì 6 marzo 2020

Afghanistan, la pace dei sei giorni


Pace, pace hanno ripetuto tutti, ma chi la garantisce e chi la attenta? Stamane a Kabul ha rischiato di morire nientemeno che uno dei rissosi pretendenti alla presidenza, Abdullah Abdullah, che nelle scorse settimane aveva minacciato il vincitore ufficiale di elezioni praticamente senza votanti, Ashraf Ghani. L’attentato ha colpito la cerimonia che commemorava Abdul Ali Mazari, carismatico leader della comunità hazara e lui stesso signore della guerra ucciso venticinque anni fa, quando il fratricida conflitto civile non era ancora terminato. Nell’attacco odierno, che non ha provocato vittime ma solo diciotto feriti (un avvertimento per prossimo sangue?), erano presenti altri uomini delle Istituzioni della passata amministrazione: il vicepresidente di Karzai, Karim Khalili. Neanche a dirlo un altro signore della guerra. Immediatamente il dito indagatore su chi siano gli attentatori s’è rivolto sui talebani. Loro hanno sdegnatamente smentito ogni coinvolgimento, sostenendo che l’agguato colpiva anche l’accordo recentemente sottoscritto a Doha. E allora di chi è la mano? Esclusa la fantasiosa ipotesi del Capo di Stato come mandante - i ferri corti fra lui e Abdullah sono noti ma finora non si è passati a quelle congiure di Palazzo che pure la Kabul filosovietica ha conosciuto - i sospetti si rivolgono alla frangia talebana dissidente che dal 2017 rivendica attentati, taluni sanguinosissimi, a nome dell’Isil. Proprio nella stessa commemorazione un anno fa le bombe dell’Isil avevano ucciso diverse persone. Fra questi miliziani del sedicente Emirato del Khorasan e la componente maggioritaria della Shura di Quetta per due anni si è stabilito uno scontro a distanza a suon di camion-bomba per il controllo di molti distretti afghani. Ovviamente a danni della popolazione di tutte le etnìe che ha contato centinaia e centinaia di vittime. Dal 2018 la Shura ortodossa ha ricevuto anche il sostegno della rissosa Rete di Haqqani, passata nelle mani di Sirajuddin molto più moderato del patriarca Jalaluddin. Così, pur sotto la guida del chierico fondamentalista Haibatullah Akhunzada, la Shura di Quetta ha intrapreso col suo rappresentante Baradar la via della mediazione diplomatica richiesta dagli Stati Uniti. Chi è rimasto spiazzato è l’Isil, che dunque si rifà sotto. E riporta la guerra strisciante in un Afghanistan che non si pacifica. 

martedì 3 marzo 2020

Afghanistan, la pace di carta


Fra la pace stilata su carta e la pace reale, mister Khalilzad e mullah Baradar potrebbero trovare un ostacolo nell’attuale Afghanistan istituzionale che il primo perora, il secondo denigra. Certo già all’atto dell’accordo, sbandierato in pompa magna dal Segretario di Stato Usa Mike Pompeo, alcuni elementi sottoscritti rappresentano un’incognita. I militari statunitensi che prenderanno il volo verso casa saranno inizialmente 3.500, i restanti 8.500 dovrebbero rientrare entro la fine di quest’anno. In più gli americani rinuncerebbero a cinque basi aeree, non dicono quali ma ne resterebbero pur sempre sei. Che fine faranno? I taliban dovrebbero riabbracciare fra pochi giorni i cinquemila combattenti rinchiusi nelle carceri gestite dal governo di Kabul, così è scritto nel patto. Ma il presidente Ghani domenica scorsa è intervenuto sulla questione, sostenendo che questo regalo non è realizzabile, al più dovrebbe esserci uno scambio coi prigionieri detenuti dai talebani nelle province, e non sono poche, che essi controllano militarmente e politicamente. E qui l’intoppo è già palese. Riuscirà Khalilzad a rimettere in riga il “burattino” recentemente proclamato presidente? Peraltro con percentuali di voto bassissime e la contestazione del numero due Abdullah Abdullah, che in un giro stavolta nient’affatto scontato come nel 2014, non vuole fare il vice di Ghani e ne contesta l’elezione, riparlando di brogli.
Ecco il clima dell’Afghanistan istituzionale a sette giorni dall’avvìo del cosiddetto ‘dialogo inter afghano’, che rappresenta il secondo passo della pace or ora firmata. Una pace inseguita per diciannove anni soprattutto dalla popolazione che ha pagato con la vita, con le menomazioni da ferite fisiche di guerra e le incancellabili ferite dell’anima, in un numero altissimo. Centomila - e il calcolo è pur sempre limitativo per oggettive ragioni di verifica sul terreno – è la quota di morti e feriti, d’una interminabile “missione di pace” (Enduring Freedom, Isaf Mission, Resolute Support) che non ha risolto nulla. Ha incentivato i flussi migratori, che da anni vedono giovani afghani di sesso maschile, e ora anche giovani donne, cercare rifugio in giro per il mondo. Gli stessi organismi internazionali contano a mille miliardi di euro la cifra che i contribuenti statunitensi hanno sborsato per questa follìa geostrategica, seppure indagini alternative parlano dell’esatto doppio. Ma soffermiamoci su alcuni dettagli irrisolti che potrebbero far naufragare l’accordo già in questa seconda fase. Al di là dei contrasti fra Ghani e Abdullah, comunque da non sottovalutare visto che quest’ultimo sostiene di voler formare una rappresentanza istituzionale parallela a quella del presidente designato, occorre capire i ruoli che la componente talebana occuperà nel prossimo governo. Per quello che sinora avevano affermato non vorranno vedere né Ghani né altri politici-fantoccio.
Comunque il leader della Shura di Haqqani, Sirajuddin, figlio del defunto Jalaluddin a lungo capo indiscusso di questo ramo intransigente, ha dichiarato al New York Times di “lavorare e rispettare sinceramente un nuovo sistema politico inclusivo”. C’è da immaginare che i talib ne faranno parte e qui occorrerà vedere quale formula e quale sostanza avrà un Paese finora definito Repubblica Islamica, che però i turbanti vorranno trasformare in Emirato Islamico, retto da regole religiose anziché da rappresentanze elette più o meno limpidamente. E non osiamo pensare a quali prospettive verranno offerte alla metà della popolazione, i sedici milioni di donne, di cui peraltro i diciotto mesi di colloqui di pace non si sono affatto occupati. In verità le donne afghane accanto alla guerra d’occupazione condotta dalla Nato e quella di contrasto incarnata dai miliziani islamisti, hanno continuato a subìre le violenze private del pashtunwali e le violenze delle Istituzioni dove i “democratici” Karzai e Ghani hanno inserito sanguinari signori della guerra senza offrire contrasto al fondamentalismo oscurantista e maschilista. Le risolute attiviste di Rawa l’hanno denunciato ovunque hanno potuto. Negli stessi organismi rappresentativi dove, fra mille minacce, continuano a rivendicare una vera libertà sociale e di genere. Quell'Afghanistan davvero indipendente e tutto da creare, che non passa per l’asse Washington-Doha-Kabul. 

lunedì 2 marzo 2020

Il ricatto di Erdoğan e quello di certa Europa


Fa male ai nostri cuori (figurarsi ai loro) la condizione in cui filmati e foto li ritraggono infreddoliti, laceri, dolenti - da oggi anche cadaveri - comunque speranzosi d’una caritatevole apertura di frontiera. Migliaia di profughi siriani, afghani, iracheni, quelli della rotta balcanica che è ripresa da due anni ed è stata parcheggiata a Bihać (Bosnia), oltreché dentro il confine turco e di cui la geopolitica a orologeria ora si ricorda. Ovviamente perché teme “un’invasione del sacro suolo” come, non solo i sovranisti globali ma pure gli opportunisti democratici, adesso temono. Da anni questi civili sono bersaglio dei conflitti che signori della guerra, ufficiali e ufficiosi, combattono a nome di Stati fantasma che non hanno più popolazione. Perché è morta, fuggita, riparata altrove. Lo speculatore per eccellenza della politica mediorientale, il presidente turco Erdoğan, lancia l’ennesima richiesta pecuniaria al sepolcro imbiancato di Bruxelles, quel Parlamento europeo che dovrebbe rappresentare 28 nazioni. Altri tre miliardi di euro per contenere i profughi già parcheggiati in 3.5 milioni sul suolo turco, con l’aggiunta di 900.000 che il contrasto fra lui e Asad sta producendo da settimane nell’area di Idlib. Un ricatto. Certo, ma correlato all’accordo che lesti i leader europei di riferimento per i restanti membri – Angela Merkel ed Emmanuel Macron – s’erano apprestati a sottoscrivere nel 2016. Per non ricevere e neppure vedere quelle genti orientali costrette a fuggire da territori di guerra (Afghanistan, Iraq) dove l’Unione Europea invia le sue missioni di polizia internazionale al servizio degli Stati Uniti.
Erdoğan, dunque, mercanteggia: soldi (che alle non benevoli finanze di casa fanno comodo) in cambio di campi profughi. Che le poche inchieste giornalistiche attuabili in questi anni hanno valutato insufficienti, avanzando a seri dubbi sulle reali spese rivolte a quel genere di assistenza da parte del governo turco. Fra l’altro quest’ultimo ha in tante occasioni limitato, se non proprio ostacolato, l’azione di Ong interne e internazionali accusate di “collusione con terrorismo”. Di Erdoğan si può dire tutto il peggio che la sua politica speculativa e autoritaria ha manifestato in questi anni. Non è, però, il solo. Riguardo all’ultima ondata di profughi divide le colpe con l’omologo presidente guerriero Asad, un uomo che per sete di potere da sette anni fa massacrare il suo popolo. Rivolgendo le armi dei lealisti non soltanto contro l’infamia jihadista, ma verso il popolo sunnita di quella che era la Siria. Poi c’è la vergogna tutta europea o di una parte di quell’Europa che più ha ricevuto e meno ha concesso. Aggregata inizialmente sotto l’ombrello della Nato in funzione anti russa, quindi entrata a pieno titolo nell’Unione continentale, conservando l’alleanza faziosa, marchiata a Visegrád col famoso accordo di trent’anni fa. Il quartetto polacco, ungherese, ceco, slovacco pratica da tempo il suo ricatto al Parlamento di cui fa parte. Dal 2017 ha intrapreso azioni di boicottaggio delle misure disposte a maggioranza da quell’organo in fatto d’accoglienza e redistribuzione di migranti e rifugiati, con quote pro capite fra i membri Ue in base a Pil e tasso di disoccupazione (per la quaterna di Visegrád i più vantaggiosi del continente).
E’ la questione che Erdoğan tratta in maniera sporca per conto e contro un’Europa refrattaria alla disamina del dramma umanitario che la sua stessa geopolitica scatena da almeno due decenni. Facciamo parlare qualche dato, relativo appunto al 2017, anno seguente al patto Ue-Turchia. Il flusso di migranti extracomunitari, fra cui tanti profughi, in alcune nazioni esaminate è stato il seguente: Germania 391 mila, Gran Bretagna 320 mila, Spagna 314 mila, Italia 240 mila, Francia 167 mila, Grecia 63 mila, Polonia 53 mila, Repubblica Ceca 30 mila, Ungheria 25 mila, Slovacchia 0.6 mila. Nel biennio seguente il gruppo di Visegrád ha chiuso ulteriormente le porte, tanto da ricevere procedure d’infrazione per aver rifiutato le direttive Ue. Per contro solo nel 2017 questi Paesi hanno beneficiato dei seguenti aiuti europei: Polonia 8.6 miliardi, Ungheria 3.1, Repubblica Ceca 2.5, Slovacchia un miliardo. Fece scalpore, ma non seguirono censure, la creazione del muro di 175 km sul confine serbo che il premier ungherese Orbán portò a termine, predisponendone un altro sul confine croato. Eguali dimenticanze riguardano gli attacchi e le limitazioni alla libertà di stampa e finanche di espressione subìti dalla società civile ungherese. Silenzi simili agli agguati del governo polacco verso l’indipendenza della sua magistratura L’Unione Europea ignava, e a diverse velocità di democrazia, non è meno preoccupante del laboratorio autocratico che si sviluppa lungo il confine turco-siriano.