martedì 31 maggio 2022

Islamabad-Tehreek-i-Taliban, un colloquio scottante

 

Fortemente criticato per le aperture verso i Tehreek-i-Taliban, gruppo da tempo fuorilegge in Pakistan, l’ex premier Imran Khan non è stato l’unico a trattare col fondamentalismo armato. Il Capo di Stato Alvi e l’ex ministro degli Esteri Qureshi sostenevano la linea del dialogo, iniziato lo scorso settembre e interrotto a fine novembre perché le richieste del TTP apparivano onerose. Domandavano soprattutto la scarcerazione di militanti accusati di sanguinosi attentati. Solo i due mesi di trattative avevano interrotto le azioni del gruppo che durante il 2021 ha inanellato oltre quaranta attacchi, conclusi con l’uccisione di 79 persone. Fra le vittime anche inermi cittadini, sventrati da bombe o finiti dentro sparatorie che colpivano membri di polizia ed esercito. Ora l’attuale premier Shehbaz Sharif e il ministro degli Esteri Bhutto Zardari pensano di rilanciare colloqui col gruppo armato, simili a quelli che criticavano a Khan, sempre inseguendo una pacificazione tutt’altro che semplice. Già nei mesi scorsi ‘facilitatore’ degli incontri era stato Sirajuddin Haqqani, leader dell’omonimo clan afghano, e dallo scorso settembre ministro dell’Interno dell’Emirato talebano. Lui e i suoi parenti stretti - fratello, zii, cugini - già accusati di rapportarsi alla mai morta rete di Al-Qaeda, potrebbero continuare a tener vive le relazioni con questa componente, sebbene dalla data della presa del potere i vertici dell’Emirato afghano smentiscano ogni relazione col noto gruppo terrorista. Però i ‘coranici’ del secondo Emirato di Kabul affermano diverse cose, messe in discussione dalla realtà. Le più clamorose la nuova linea di condotta verso le donne, finite ancora una volta sotto il burqa e fuori dalle scuole. Soggetti inattendibili, dunque. E pur volendo ribadire la difesa del progetto nazionale, strategia ben diversa da quanto perseguono sia Isis, sia Qaeda, l’impatto decisionista del clan Haqqani sul Gotha dei turbanti afghani, non è nuovo e potrebbe ripresentarsi. 

 

Verso i taliban pakistani proprio Sirajuddin, il più cinico fra i miliziani diventati ‘statisti’, s’era speso in un momento di duro scontro fra TTP ed esercito di Islamabad. Quando il Waziristan del nord è stato rastrellato via terra dai soldati pakistani e bombardato dall’aviazione, i Tehreek sono riparati a ovest, nelle province afghane controllate dai turbanti fratelli. E’ la storia dell’ultimo decennio e Haqqani diventava ambasciatore di tale accoglienza. Nel ventennio trascorso lo Stato pakistano ha guardato il disastrato vicino come un terreno di conquista, rappresentava l’altra faccia dell’occupazione occidentale, con la differenza d’usare l’arma dell’economia anziché l’economia delle armi. Col ritorno al potere dei talebani a Kabul un riavvicinamento ai turbanti esterni e interni può far mutare la tattica, non la strategia di Islamabad. Lavorare sulla sicurezza con l’azzeramento degli attentati può servire a chi governa entrambi i Paesi, così da poter lasciare spazio a quegli investimenti progettati da tempo. Il gasdotto Tapi - dal Turkmenistan all’India, attraverso Afghanistan e Pakistan - è uno di questi. L’instabilità prodotta dagli attentati dell’Isis Khorasan nelle due nazioni di mezzo può avvicinare i due esecutivi, se appunto si portano dalla propria parte soggetti con cui lo Stato Islamico realizza alleanze di comodo. Fra questi proprio i Tehreek-i-Taliban con cui, dopo Khan, Sharif rilancia il piano di pacificazione. Le richieste talebane saranno sicuramente quelle di sei mesi fa: ritiro delle truppe dai territori delle aree tribali (Fata), rafforzamento di una propria versione della Shari’a tramite il Nizam-i-Adl, un atto che nel 2009 il governo pakistano approvò per placare uno scontro interno sempre contro i TTP. Quel regolamento coinvolge vari distretti nord-occidentali del Paese, conosciuti come la Divisione Malakand, abitati da almeno 35 milioni di persone. Per il governo della Lega Musulmana-N e dei suoi alleati s’apre una fase rovente e incerta.

mercoledì 25 maggio 2022

Morte a Teheran, un intrigo da spy story?

E’ l’israeliano Amos Yadlin, generale dell’aeronautica in pensione e poi esperto del Washington Institute per la politica mediorientale, a togliersi qualche sassolino dalla scarpa e parlare dell’assassinio dell’iraniano Hassan Sayyad Khodaï. Lo fa di sua sponte, lo fa guidato da una regìa politica, comunque umilia la stessa vittima che “non è più fra noi”, così ha detto alla stampa, riferendosi al colonnello delle Guardie della Rivoluzione, freddato domenica sotto la sua abitazione nel centro di Teheran. Secondo Yadlin  Khodaï avrebbe dovuto vendicare l’onta dell’eliminazione del super capo di Al Qods Force, Soleimani, e pure di Imad Moughnieh, punto di riferimento delle operazioni di Hezbollah. Entrambi obiettivi del Mossad, il primo ucciso in combutta con la Cia e il benestare del presidente Donald Trump nel gennaio 2020, il secondo fatto fuori dall’Intelligence di Tel Aviv nel 2008 a Damasco. Rivelazioni o vanterie che siano i riferimenti partono dalla bocca d’un elemento posto ai vertici dei Servizi dell’Aeronautica che fornivano supporto alle missioni sporche del suo Paese. Probabilmente non è solo il ‘vecchietto Yadlin’ che smania nel voler rivelare, e con questo rivendicare. E’ l’approccio che l’intero Stato sionista sta tenendo sulla vicenda, con un ex degli apparati spionistici e tramite la stessa stampa interna che fa da grancassa. L’ultima azione di fuoco in terra iraniana colpisce al cuore l’organizzazione dei Pasdaran, nel cuore della capitale, non era mai accaduto finora. La strage degli ingegneri nucleari nel 2010, e pure l’articolato assassinio con l’uso d’un drone dello scienziato Fakhrizadeh, a fine 2020, tutti compiuti sul territorio iraniano non attaccavano membri delle Guardie della Rivoluzione. L’attuale guanto di sfida, sa di sfregio: il Mossad sa dove e come colpire, riesce a farlo dentro l’altrui casa, insinuando il germe dell’insicurezza assoluta.

 

Insomma i corpi speciali della Rivoluzione Islamica vengono umiliati nei propri santuari, neanche fossero una micro cellula jihadista della Striscia di Gaza. E non finisce qui. Per rendere più scottante il quadro anche agli occhi dei compassati politici di Teheran, sempre Yadlin “rivela” che l’azione contro Khodaï va a punire un’operazione tentata dai Pasdaran a inizio anno, quando costoro avevano cercato di eliminare un impiegato consolare israeliano in Turchia. Un presunto killer, tal Mansour Rasouli, veniva prelevato e interrogato dal Mossad in terra iraniana, affermano alcuni rapporti ripresi da media israeliani in cui si sostiene che l’iraniano, appartenente ad Al Qods Force, avrebbe dovuto colpire un generale statunitense in Germania e un giornalista francese. Si tratta di propaganda volta a mortificare il regime degli ayatollah e i suoi apparati? Non è chiaro. Si sa, invece, che l’iraniano in un video pubblicato su Istagram ha affermato d’esser stato costretto a rilasciare dichiarazioni menzognere per via delle minacce di morte rivolte ai suoi parenti. Le trame delle Intelligence non sono nuove e non sono prive d’intrecci anche romanzati, certo è che gli apparati israeliani si sono creati ampi varchi d’azione in territorio iraniano. Difficile dire se con l’appoggio di quell’opposizione al clero che gli antagonisti alle forze di governo vantano all’estero. Il Mossad è notoriamente sospettoso di chiunque, agisce con uomini fidati e controllati per non essere indotti in tentazione di doppiogiochismo. Ma è decisamente pragmatico. Dunque sa usare ogni appiglio per raggiungere lo scopo. E’ probabile che tragga vantaggio da basisti locali acquistati a suon di dollari. Da decenni in innumerevoli azioni sporche mediorientali è andata così. Le Guardie della Rivoluzione dovranno attrezzarsi per la concione, stanno subendo colpi letali all’efficienza degli apparati e all’immagine.

domenica 22 maggio 2022

Teheran, tornano i motociclisti della morte

Pomeriggio di sangue a Teheran, in pieno centro. Mentre rientrava verso casa sulla sua auto, presso Mojahedin-e-Islam Street, è stato assassinato con cinque proiettili Hassan Sayad Khodaei, un colonnello dei Pasdaran. 
L’uomo era un responsabile di alto rango di Quds Force, secondo alcune fonti, aveva rimpiazzato Qassem Soleimani alla guida del reparto d’élite. La dinamica dell’agguato: rapida comparsa d’una moto dalla quale sono stati esplosi i colpi, ricorda gli attentati messi a segno contro sei ingegneri impegnati nel programma nucleare iraniano all’epoca della presidenza di Ahmadinejad. E quello più recente nel novembre 2020 con cui venne eliminato lo scienziato Mohsen Fakhrizadeh, secondo Israele cervello dell’arricchimento dell’uranio per la fabbricazione dell’arma atomica. Per quegli omicidi i sospetti sono tutti rivolti al Mossad. Il comunicato ufficiale dell’Islamic Revolutionary Guard Corps, diffuso anche dalla tivù di Stato, parla di attacco terroristico da parte di nemici della rivoluzione. La vittima è indicata come un martire proteso alla “difesa del santuario” che nel politichese locale, neppure tanto criptico, fa riferimento all’impegno delle forze speciali iraniane in Siria e Iraq. L’assalto al colonnello avviene in un momento in cui l’Iran è nuovamente attraversato da proteste di piazza infiammate dal crescente carovita. La crisi nel reperimento dei cereali che si riversa pesantemente in Medioriente, trova nel Paese ulteriori difficoltà anche per altri generi alimentari primari, l’olio su tutti, e va ad aggiungersi a un’inflazione che negli anni dell’embargo occidentale ha fatto salire alle stelle l’inflazione con una svalutazione del riad dell’80%  sul dollaro americano.  

lunedì 16 maggio 2022

Elezioni in un Libano sempre più condizionato

 

Aumentano i candidati, 718, e le liste, 103, quattro anni fa erano rispettivamente 597 e 77, ma la partecipazione dei libanesi alla consultazione elettorale di ieri sembra diminuita. Il ministro dell’Interno Mawlawi ha indicato un afflusso del 41%, che potrà aumentare di poco, senza eguagliare il 49% del 2018. Dunque l’effetto volano - che una settimana fa aveva visto un’accresciuta, seppur di poco, adesione dei libanesi residenti all’estero il cui voto s’attestava al 63% - non c’è stato. E fra le disperate speranze di qualche giovane intervistato dalla stampa locale che afferma d’essersi recato alle urne per senso civico e per senso pratico, la via d’uscita dalla profondissima crisi d’una nazione implosa resta ferma al desiderio. La speranza di azzerare un ceto politico che difende il suo status, non lo Stato libanese né i cittadini, resta tale nonostante l’abbandono di alcuni uomini-simbolo del fallimento e della corruzione. Non c’è più Saad Hariri, il Movimento Futuro non rinnova la leadership e perde colpi, voto e seggi, scegliendo di fatto un boicottaggio. Alcuni suoi membri hanno partecipato in proprio con liste locali, lo spoglio delle schede ne verificherà l’impatto. Calano i consensi del Movimento Patriottico Libero del quasi novantenne presidente Aoun, eppure queste realtà politiche, con inevitabili fluttuazioni nei seggi parlamentari, non spariranno dai vertici decisori delle sorti del Paese. Come non sparisce il sistema politico-confessionale che garantisce a maroniti, ortodossi, armeni, sunniti, sciiti percentuali di rappresentanza e ruoli istituzionali, una regola diventata dogma. C’è da giurare che i battitori liberi dell’urna - che esistono, non tutti gli eletti appartengono ai maggiori partiti nazionali - se presenti nel Majlis saranno contattati e magari cooptati dalle sigle note per perpetuare il meccanismo che blocca un diverso percorso della politica. L’ideale inseguito dalla rivolta dal basso dell’autunno 2019 consisteva nella laicizzazione della rappresentanza, affinché fossero le questioni sociali, economiche, amministrative a orientare il governo e i suoi ministri, come dovrebbe fare la politica di tutto il mondo. Che questo spesso non accada, un po’ ovunque, è una magra consolazione, visto che in Libano l’interferenza politico-confessionale s’è tradotta in carenze spaventose per la popolazione locale, impoverita per oltre il 70% da un’assenza di economia che rende la cittadinanza inattiva, bisognosa di sussidi alla stregua del milione e mezzo di rifugiati siriani e dei 400.000 palestinesi dei campi profughi. L’ennesima tragedia del mare, registratasi a fine aprile davanti alle coste di Tripoli, fra cadaveri ritrovati e individui che risultano tuttora dispersi, mostra come gli stessi libanesi siano costretti alla migrazione forzata per non morire di fame. Così fra uno speculatore locale trasformatosi in trafficante, manovre sciagurate  delle motovedette che hanno speronato la malandata imbarcazione di fortuna, anche gli abitanti degli slum tripolini sono diventati disperati del mare. Chi ancora sopravvive sulla terraferma può segnare sulla scheda il nome del concittadino Mikati, premier uscente e miliardario d’un Libano spolpato da un ceto a lui simile? Il resto del sistema di potere ruota attorno a padrinaggi geopolitici che sauditi e iraniani, ciascuno sulla propria sponda che siano Forze Libanesi ed Hezbollah, offrono con petrodollari e consiglieri alla sicurezza. E anche Parigi non sta solo a osservare, agisce in maniera meno appariscente di due anni or sono, ma pensa a un ritorno al protettorato. Come un secolo fa.


 

giovedì 12 maggio 2022

Shireen, uccisa perché palestinese


Pensare che l’assassinio della giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Akleh da parte dell’esercito di Israele possa venir denunciato come crimine, secondo quanto chiede l’Autorità Nazionale Palestinese, è una speranza che si schiude e appassisce appena viene pronunciata. E non perché il premier di Tel Aviv Bennett abbia già schermato i suoi militari, accusati da molti testimoni di aver fatto fuoco a freddo sulla troupe televisiva, sostenendo che si tratta di “accuse senza fondamento”. Ma perché da decenni la politica d’Israele è basata sulla certezza dell’impunità nell’uso della forza su tutti i Territori occupati della Cisgiordania, sulla Striscia di Gaza, finanche fra gli arabo-israeliani di casa. Insomma su ogni palestinese si presenti al cospetto della sua polizia e dell’Israel Defence Forces durante operazioni di ordine pubblico. Shireen volto notissimo, non solo perché appariva su un’emittente che segue la geopolitica di ogni angolo del mondo, era conosciuta dagli stessi militari israeliani, fossero pure giovani di leva, perché era spessissimo presente di persona nei momenti caldi, com’era ieri nel campo profughi di Jenin dove le truppe di Tsahal compivano un raid. Non sono bastati l’elmetto, il giubbotto antiproiettile su cui era evidenziato a caratteri cubitali la scritta “Presse” a salvarle la vita. E’ stata proditoriamente colpita al volto, per chiuderle la bocca per sempre, come in un delitto di mafia, come quei gesti criminali compiuti dai mafiosi della geopolitica. Assassinata perché era una palestinese, nota, ma pur sempre palestinese, dunque passibile di esecuzione sommaria, come tanti conterranei diventati da settantaquattro anni senza terra. In più era una comunicatrice, puntuale, rigorosa, appassionata - questo dichiara chi l’ha conosciuta e amata come collega, come autrice di reportage, in genere segnati da sangue e dolore - o anche chi l’ha incrociata quale semplice spettatore, magari distaccato e disincantato. Anche il più lontano dal sostegno alla causa palestinese, le riconosceva impegno e ardimento in un territorio quotidianamente lacerato se non apertamente martoriato. Shireen è diventata una martire in quel luogo, non lontano dalla nativa Bethlehem, sezionata, come peraltro tutta la West Bank, dal muro dell’apartheid. Lei lavorava non certo per morire, evidenziava quel che da decenni è sotto gli occhi del mondo della geopolitica e della stessa informazione, senza che la maggioranza dei suoi attori se ne preoccupi. Quel sistema del doppio livello, che discetta su aggressori e vittime secondo convenienze e preferenze. Stamane Abu Akleh ha ricevuto gli onori da quello Stato di Palestina, costretto a non essere tale dalle usurpazioni dalla geopolitica, da vessazioni e soprusi quotidiani che la sua gente subisce da truppe d’occupazione, lasciando da settantaquattro anni cadaveri su una terra santa, maculata di sangue.

martedì 10 maggio 2022

Elezioni in Libano, l’illusione del cambiamento

 

Se nel Libano devastato dalle famiglie della politica e dal sistema della partizione, prima che dalla conseguente corruzione e dalla pandemia di Covid, va in scena tutto il già visto trentennale, gli elettori della diaspora hanno offerto una scossa. Hanno votato nel fine settimana con un’affluenza al 60% che è appena un po’ più dell’ultimo 56% di quattro anni or sono, ma esprime una speranza. Passionalmente di un ritorno a casa che qualsiasi concittadino rimasto a Beirut, Tripoli o nella Bekaa, sconsiglia vivamente. Proprio perché l’afflizione generale è data dall’impossibilità di cambiare e scrollarsi di dosso non il fatalismo levantino, ma l’aria ferma e fetida d’un ceto politico che “democraticamente” decide a priori per la cittadinanza. Eppure qualsiasi politologo ripete la verità sacrosanta della necessaria ripartizione prevista dal sistema interno che, offrendo garanzia alle maggiori comunità religiose, islamica e cristiana, ne tutela cittadini sunniti e sciiti da una parte, maroniti dall’altra, con tanto di etnìe e minoranze, alawite, druse e pure armene. Il tutto per non rivivere l’incubo della guerra fratricida fra chi, pur non considerandosi parente, è comunque convivente. Il meccanismo sarebbe passabile se la politica non ci mettesse lo zampino di usare la spartizione per favorire i più ossequioso fra gli adepti.  Così il libanese d’ogni fede e censo fuori da logiche di partito, si sente abbandonato se non proprio turlupinato dai clan familiari, sempre gli stessi che da due decenni hanno congelato potere e affari. Aumentando per sé il primo e limitando sempre più i secondi contro ogni logica d’interesse diffuso. Qualcuno è saltato: Saad Hariri, che a gennaio ha annunciato un definitivo ritiro dai vertici dello Stato e non rinnova pretese, provocando nello schieramento che guidava, Movimento Futuro, sollievo e preoccupazione. La prima sensazione è legata all’ingombrante figura che era diventato, ereditando tutto il peggio del liberismo paterno fatto d’intrighi e corruttela, senza però un briciolo di slancio e carisma del genitore, fattosi largo sugli appalti edilizi e i finanziamenti sauditi del dopo guerra-civile. Saad è stato solo un burattino saudita, in un quadro mediorientale mutato da conflitti spostatisi più a est, con l’inquietante presenza del fondamentalismo del Daesh. 

La preoccupazione – non solo del maggior gruppo politico sunnita – è data dalla sfiducia degli elettori verso le garanzie create dalla ripartizione. Le ribellioni di strada del 2019 indicavano questo, e dopo la pessima gestione di beni comuni e dell’ordinaria sicurezza messa in ginocchio dall’esplosione nei magazzini del porto della capitale del 4 agosto 2020, con morti, feriti, mutilati, sfollati e disperati tuttora in corso d’opera, in tanti hanno giurato odio e disprezzo a qualsiasi politico di professione. Ci si attende, dunque, la protesta del voto, una grande astensione sebbene l’anticipo di consultazione all’estero non l’abbia registrato. Fra gli espatriati hanno agito giovani volontari della cittadinanza attiva che, tramite la tecnologia e il tam-tam sui social,  hanno sospinto coetanei e loro parenti verso i seggi allestiti nei Consolati. Del resto anche la gioventù, soprattutto beirutina, aveva animato l’ottobre di protesta di tre anni fa e il desiderio di cambiare rotta, cui ciascun partito aveva promesso di prestare ascolto. Per poi tradirlo. Dalla crisi sunnita puntano a ricavare vantaggi in aree a loro più congeniali il Partito di Dio e le Forze Libanesi, sempre militanti, sempre armate, sempre contrapposte, come quando hanno dato vita (ottobre 2021) a sparatorie nel quartiere Tayouneh, con vittime e ospedalizzati. Del resto come il Majlis, l’Assemblea Nazionale, i cui 128 seggi sono in ballo nelle elezioni del 15 maggio, seppure ciascuna componente avrà una rappresentanza, certi quartieri beirutini restano presidiati come caserme secondo le appartenenze: ad Ashrafiyyeh sventolano i vessilli con la croce,  Dahiya è impavesata di giallo. E’ in altri grandi centri come Tripoli, che fu l’ultima tradotta palestinese, che la disillusione giovanile per i partiti funziona meno o per nulla. La necessità di appartenere a qualcuno cammina nel quotidiano, serve per lavorare, per nutrirsi in fase di borsa nera e crisi alimentare, spettri che nessuno avrebbe immaginato. Poi la politica fa i suoi giri di valzer. Nella seconda città-porto Hezbollah sostiene l’ex ministro Karami, figlio e nipote di altri ministri, tutti sunniti, lui è l’ennesimo affarista di governo. Un’apertura che avrà un ricambio di favori. “Mesci al-alhal” dice un proverbio che suona più o meno “le cose vanno avanti”. Dove, l’elettore non sa.

lunedì 9 maggio 2022

Bharatiya Janata Party, la strategia del caos


Nelle elezioni concluse un mese fa in cinque Stati indiani, il premier Narendra Modi e Amit Shah, ministro dell’Interno e della Cooperazione, alla testa del Bharatiya Janata Party, hanno mostrato tutto il loro livore verso la componente musulmana infiammando i comizi coi princìpi più razzisti dell’hindutva (la dottrina del fondamentalismo hindu). I loro proclami aggressivi servono a offrire protezione ideologica, e spesso anche legale, ai picchiatori e provocatori delle squadracce di vari gruppi (Bajrang dal, Sri Ram Sene) che attaccano gli islamici, distruggendone abitazioni e rivendite. In tal modo l’azione violenta diventa tutt’uno con le teorie politiche rivolte a milioni di famiglie hindu che per proprio conto non usano violenza, però indirettamente aderiscono a una radicalizzazione di mentalità e comportamenti. Esasperare il comunalismo, creando contrapposizioni confessionali è diventato l’elemento costante del partito di maggioranza che con questa modalità cementa l’aggregazione. In tanti casi le celebrazioni hindu, momenti gioiosi da festeggiare, diventano occasioni di contrapposizione e attacco ad altre comunità religiose. Il mese scorso, l’ultima ricorrenza di Ram Mavami, il compleanno del dio Rama, ha prodotto nel Gujarat processioni terminate con la vandalizzazione della moschea Gebanshah Takiya. Distrutti anche numerosi dargah (mausolei islamici), case private e rivendite di cittadini musulmani. Devastanti scene simili si sono verificate a Jahangirpuri, l’area a nord-est di Delhi. Testimoni, sfuggiti alla furia hindu, hanno raccontato alla stampa d’opposizione che la polizia lasciava fare e accompagnava i picchiatori che hanno fatto un morto e parecchi feriti. |


A chi voleva denunciare l’accaduto è stato consigliato di lasciar perdere: la polizia in certi casi rovescia i ruoli e accusa le vittime di provocazione. Taluni esponenti dell’hindutva, hanno dichiarato che “la folla si è ribellata a coloro che deridevano il dio Ram”. Un copione già visto in tante occasioni. C’è chi come il premier rieletto proprio ai primi di aprile nell’Uttar Pradesh, Yogi Aditynath, il monaco fondamentalista in predicato a rimpiazzare Modi al vertice del Bharatiya Janata Party e della nazione, ha lanciato accuse alla “plebaglia rissosa” che infanga il suo disegno di “legge e ordine”. E’ uno specchietto per le allodole. Gli squadristi arancioni che innescano gli scontri, non finiscono mai puniti, fra l’altro portano disordini negli Stati dove la stessa opposizione al Bjp è forte. Così i leader del partito hindu possono ribadire alla gente d’essere l’unica garanzia d’una vita tranquilla davanti al rischio del caos. Un bersaglio di tale strategia è Ashok Gehlot, premier del Rajasthan, il grande Stato nord-occidentale confinante col Pakistan. Le risse innescate in quel territorio dai seguaci dell’hindutva hanno prodotto una campagna del Bjp contro di lui, capo locale del Partito del Congresso, accusandolo di non saper gestire l’ordine pubblico e di non garantire la sicurezza. Una ripetizione di quanto dal 2013 il partito di Modi ha fatto nel popolosissimo Uttar Pradesh, lanciando la presa del potere nazionale che tuttora detiene. L’erosione, tramite la guerriglia strisciante, d’una normale quotidianità ha avuto uno stop solo nei primi mesi della pandemia, nella primavera-estate 2020. Già dopo lo sbandamento sociale, conseguenza delle chiusure e della crescita della disoccupazione, la strategìa del caos è tornata a insidiare i luoghi non governati dagli arancioni. 

sabato 7 maggio 2022

Secondo Emirato, tempo di burqa

Torna il burqa, non volontario ma obbligatorio dice il portavoce della guida talebana Haibatullah Akhundzada e la sterzata al fondamentalismo formale e sostanziale diventa completa. Da mesi la condizione femminile subiva restrizioni: l’accompagnamento maschile obbligatorio per via, la limitazione chilometrica agli spostamenti entro un raggio di 45 miglia erano stati segnali in aperto contrasto con le rassicurazioni estive dei vertici dell’Emirato propensi a un nuovo corso rispetto al loro precedente governo. Bugie. La verifica c’è stata alla riapertura delle scuole dopo la pausa invernale. Il ministero dell’Istruzione accampava pretesti: non sono giunte le divise, le studentesse non possono entrare in classe senza uniforme. Ora forse non rientreranno neppure con la stuola blu che le copre dalla testa ai piedi, perché il machismo talebano vuole impedirne libertà di vestiario, di movimento, di apprendimento. La donna torna in casa, prigioniera della famiglia patriarcale orientata secondo pastunwali e Shari’a. Il decreto diffuso stamane d’indossare il burqa per donne e giovani le rimette in condizione subordinata come accadeva a metà anni Novanta. E perché la nuova regola abbia immediata attuazione i maschi di casa diventano i primi controllori della misura misogena. Dovranno rispondere in prima persona con fermo e arresto se mogli, figlie, madri, parenti saranno sorprese da controlli del ministero della Virtù e Prevenzione del Vizio prive del niqāb locale, che copre anche il volto. E’ l'orientamento più reazionario del gruppo dei taliban afghani a spingere per la reintroduzione di tale misura, rispetto ai turbanti mostratosi finora più tolleranti. Naturalmente può esserci un gioco delle parti, dunque anche i Mujahid e Baradar qualora le promesse passate fossero state vere, a compattarsi sull’ordine oscurantista del mullah diventato Guida Suprema. Che torna pesantemente a limitare gli sguardi e gli orizzonte femminili da Kabul alle periferie.


venerdì 6 maggio 2022

India, la raffineria del petrolio sanzionato


La linea dell’embargo a gas e petrolio russi decisa dal Parlamento di Bruxelles, su ‘suggerimento’ della Casa Bianca, è diventato il mantra politico-mediatico delle ultime settimane. Però le notizie che provengono da altri angoli del mondo rivelano trasferimenti di prodotti petroliferi non rispondenti a premesse e decisioni. Il caso dell’India è emblematico. Il colosso asiatico si è ampiamente smarcato dai solleciti provenienti da Washington, non solo in occasione delle assemblee delle Nazioni Unite del 2 e 24 marzo scorsi, astenendosi dalla condanna dell’invasione russa dell’Ucraina, ha proseguito una politica di equidistanza fra le potenze  mondiali dettata da opportunità e interessi. Senza scomodare settant’anni e oltre di storia recente, che hanno tenuto vicine Russia e India dall’epoca dell’indipendenza di quest’ultima dal giogo coloniale britannico, la nazione indiana tuttora in crescita, non può permettersi il lusso di rinunciare a riserve energetiche a prezzi ribassati. Un maggiore accostamento a Mosca il governo Modi l’aveva mostrato nell’ultimo biennio, quando le contrapposizioni con la Cina nella freddissima area di confine del Ladakh s’erano scaldate al punto di provocare risse all’arma bianca fra reparti di frontiera in cui non erano mancate le vittime, peraltro quasi tutte indiane. Pur attento agli equilibri geopolitici l’esecutivo del Bjp, il partito hindu, ha vissuto l’affanno della crisi economica conseguenza della pandemia, del crescente tasso di disoccupazione, delle pesanti proteste contadine, e dallo scorso autunno la volontà di rilancio del Pil fa i conti con una frenetica ricerca di approvvigionamenti energetici per le proprie industrie. Pur rifornendosi dalle petromonarchie, il rapporto con Mosca diventa indispensabile. Se prima del conflitto (dicembre 2021) l’India acquisiva 300.000 barili al giorno di greggio, a marzo 2022 gli acquisti sono più che raddoppiati (700.000 barili), in barba a qualsiasi embargo. Le recenti elezioni interne in alcuni importanti Stati della Federazione, l'Uttar Pradesh su tutti, favorevoli al partito di maggioranza consolidavano l’idea di surclassare le indicazioni dell’amministrazione Biden. Del resto gli out-out per le sanzioni sugli idrocarburi di Mosca prospettano ampi svantaggi per Delhi, visto che ora il greggio russo può essere comperato sul mercato mondiale a un costo competitivo. Dice il ministro delle Finanze indiano Sitharaman: “Se il petrolio è disponibile a prezzi addirittura scontati (anche 30 dollari in meno al barile, attualmente prezzato 105 dollari, ndr) perché non comperarlo?” Nessuno in patria gli dà torto.


Dopo l’ennesimo boicottaggio lanciato dall’Unione Europea il mercato internazionale dell’oro nero si affolla di nuovi acquirenti, specie asiatici.  L’India è in prima fila e non vuol lasciare campo libero alla concorrenza cinese. E, a dimostrazione che la globalizzazione confligge con la politica delle guerre e degli embarghi perché i mercati prevalgono su tutto, diventa di pubblico dominio la notizia che cospicue quantità di greggio russo acquistate dall’India, raffinate dalle mega aziende locali Reliance o Nayara,  raggiungono l’Europa. In che modo? Semplicissimo: come prodotti raffinati - diesel e simili - che il mercato indiano esporta ai clienti occidentali. Dunque chi pratica l’embargo delle riserve energetiche di Putin ne diventa indirettamente  acquirente. Il governo Modi segue la sua strada, ha trovato nei prezzi ribassati del greggio e nelle entrate delle esportazioni della sua raffinazione un sostegno finanziario che, finora, gli ha permesso di non aumentare il prezzo degli idrocarburi ai suoi cittadini, un welfare tutt’altro che trascurabile. D’altra parte nei rapporti geopolitici a est la Casa Bianca non forza la mano come fa con gli alleati occidentali. Il colosso indiano, restìo a seguire le volontà americane, viene tenuto buono perché può servire in funzione anticinese. Per altro anche le relazioni diplomatiche indiane con gli Stati Uniti tengono alta la barra contro l’espansionismo economico delle cento ‘vie della seta’ in Oriente.  Il rapporto mercantile sviluppatosi nei mesi più difficili della pandemia di Covid ha visto i ministeri del Commercio indiano e russo trovare vantaggi dall’esportazione di derrate alimentari e medicinali in cambio di petrolio. Ultimamente i due Paesi trattano anche carbone, quello russo verso l’India. Sebbene quest’ultima non sia affatto carente, la sua produzione interna è pari a 777 milioni di tonnellate annue e in quello in corso è previsto un aumento per altre 100 milioni di tonnellate. Le proiezioni per il biennio 2023-24 mirano a superare addirittura la soglia del miliardo di tonnellate annue. Affinché gli altiforni della siderurgia brucino a pieno ritmo, alla faccia di qualsivoglia contenimento dell’inquinamento atmosferico causato dai combustibili più pericolosi. 

giovedì 5 maggio 2022

Falchi e colombe nell’Emirato afghano

Un paio di settimane fa il governo talebano ha bloccato l’accesso alla piattaforma TikTok per i possessori di cellulari, che a Kabul e nelle maggiori città afghane non sono così pochi. Anni addietro dati, pur parziali, raccolti attraverso i gestori della telefonìa mobile (due sauditi, uno iraniano, uno statunitense, nessuno afghano) contavano sedici milioni di utenze. Sicuramente sono aumentate, perché quelle latitudini pur carenti di cibo da mesi, non mancano di microtecnologìa portatile che consente i contatti minimi, di fronte all’insicurezza degli incontri in presenza. E non per cause pandemiche… Insomma il ministero della Promozione della Virtù e quello delle Telecomunicazioni ritengono che i giovani non debbano impegnarsi in passatempi dai “contenuti immorali”. Che taluni intrattenimenti della piattaforma in questione, singoli o di gruppo, siano un modo insulso per trascorrere minuti od ore può essere vero, certo vietarli non è sinonimo di larghezza di vedute. Infatti l’andamento della vita pubblica e privata del secondo Emirato Islamico prende sempre più una deriva simile alle tendenze di venticinque anni or sono, un’epoca che gli attuali padroni di Kabul dicevano d’aver archiviato. Le scuole femminili riaperte per il periodo primaverile il 23 marzo e richiuse dopo qualche giorno con l’alibi della mancanza di divise adeguate per le alunne, rappresenta un segnale oscurantista, sempre negato dal portavoce governativo Zabihullah Mujahid. I reparti del nuovo esercito locale, formato dai manipoli di miliziani vestiti ora di tutto punto e ispezionati dal ministro Sirajuddin Haqqani in persona, hanno trovato stoffe per uniformi impeccabili, mentre gli istituti femminili sono chiusi perché “le divise non sono ancora pronte”. In tutto questo “contenimento” anche serie televisive estere vengono oscurate. A detta di osservatori internazionali dell’Onu, l’ago della bilancia dell’attuale potere, oscillante fra una linea moderata e una oltranzista, sta pendendo sempre più verso quest’ultima per iniziativa del mullah investito d’una funzione simile alla Guida Suprema iraniana: Haibatullah Akhundzada. 


L’uomo è leader della famiglia talebana ormai da sei anni, ma solo dalla scorsa estate è investito d’un ruolo mai ricoperto da nessun turbante. Con esso offre spazio alla tendenza più conservatrice sostenuta dal presidente della Corte Suprema Hakim Sharai, dal ministro degli Affari religiosi Mohammed Saqeb e dai fa rigidi operatori del famigerato organismo della virtù. Akhundzada ha cercato di spiazzare i colleghi che maggiormente si sono spesi nella pacificazione con gli statunitensi, su tutti Abdul Baradar, e l’attuale ministro degli Esteri Muttaqi impegnato da mesi in incontri con rappresentanti occidentali e orientali per far fronte alla terribile crisi alimentare interna. Il subdolo affondo di Washington, che ha bloccato i 9.5 miliardi di dollari di fondi afghani nelle banche statunitensi, è stato parzialmente superato per l’intervento dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica, fornitrice di derrate alla popolazione. Un merito dei buoni uffici ricercati da Mattaqi anche con confinanti meschini e interessati come il Pakistan. Con taluni soggetti politici presenti in quei territori - nelle aree tribali denominate Fata, nel Waziristan settentrionale dove i taliban locali conducono il proprio Jihad contro Islamabad - ha flirtato per decenni il clan Haqqani. Questo gruppo è l’altra figura detentrice dell’attuale potere afghano, incentrato sugli ex combattenti, per nulla disposto a concessioni politiche verso etnìe diverse da quella pashtun, né a ex amministratori che vorrebbero riproporsi (Karzai, Abdullah) o giovani-simbolo senza radici (Massud junior). La Shura di Quetta, il maggior Consiglio talebano, è da sempre variegata e rissosa, l’attuale contrasto fra un ‘possibilismo riformatore’ e l’ala dura che guarda al passato riproponendolo senza ripensamenti, è in corso col suo enorme bagaglio di spettri e le angoscianti incognite.  

domenica 1 maggio 2022

Nell’Emirato afghano l’aiuto arriva dalla Umma islamica

 


Dove aveva lasciato l’Afghanistan, ridiventato Emirato, il circo mediatico globale dopo le calde e affannose giornate dello scorso Ferragosto? 

Più o meno appeso al fagottino, che poi era un bimbo, sollevato fra muro e filo spinato dell’aeroporto Karzai, fra le migliaia di corpi pressati sognando la fuga. Tanti flash, decine di servizi sensazionali, come per le cento storie da raccogliere, usare e dimenticare. Sohail - così si chiama il piccino, coccolato per qualche ora da un marine quindi lasciato sul marciapiede per ordini superiori, mentre i genitori inutilmente lo cercano e s’infilano senza di lui sul volo che decolla, prendere o lasciare - non è stato abbandonato dal destino. Da tanta stampa sì. L’atto secondo della sua storia, che pure ha un lieto fine, in pochi l’hanno narrato. Acchiappava di più l’umanità del suo passaggio dalle braccia angosciate di chi scappava a quelle del soldato salvatore. Per chi vuol sapere: Sohail nell’afa d’agosto è stato recuperato da un tassista che ha cercato inutilmente i genitori, quindi l’ha condotto nella sua casa di Kabul sistemandolo fra moglie e figlie. In questa vicenda la forza dei social ha superato quella della grande informazione, perché una foto di Sohail, che il padre putativo ha nominato Mohammad Abed, finisce su Facebook, è riconosciuta dai parenti volati in Texas che giustamente lo reclamano. Viene coinvolta la polizia (talebana) che non accusa il tassista di rapimento, ratifica l’accordo fra la famiglia naturale e quella accogliente, peraltro ripagata dalla prima con un migliaio di dollari. Poi mette il “fagottino” nelle mani di un’assistente, facendolo accompagnare negli States. Se l’epilogo - degna trama d’un reality - è stato tralasciato dai più, figurarsi come l’occhio si possa concentrare sulle tristi contraddizioni della vita afghana dopo il 15 agosto. Nelle settimane seguenti l’obiettivo ha oscillato fra i voli della speranza e alcune manifestazioni di donne reclamanti ciò che i taliban vietano: l’autodeterminazione femminile. Questione, peraltro, irrisolta davanti al fondamentalismo tollerato e presente nei governi salvifici di Karzai e Ghani che hanno sotterrato la nazione. 

 

Certo, ora tutto è nuovamente in pericolo: istruzione, diritti, rappresentanza, lavoro. Professioniste e giornaliste continuano a gridarlo anche per le sorelle povere impossibilitate a farsi ascoltare. Vogliono smascherare le promesse talebane rimaste sulla carta. Ma non possono essere le ex parlamentari di Karzai come Shukria Barzakai o Fawzia Koofi a sostenere il movimento. Troppa la connivenza coi malfattori, troppa la corruzione personale. Non lo diciamo noi. L’hanno ripetuto per anni le attiviste Malalai Joya, Selay Ghaffar. La senatrice Roshan lo sottolineava in interventi pubblici, infatti tutte e tre erano bandite da qualsiasi commissione governativa. Chi lavorava davvero per le donne era tenuta lontana dalle leve d’un potere che è stato maschilista e intollerante anche quando tante voci occidentali sentenziavano: “L’Afghanistan sta cambiando”. Come? Quando? Da un Paese abbandonato a sé si scappava ben prima dell’agosto scorso. Lo raccontano i rifugiati nelle nostre città – da coloro che ce l’hanno fatta a chi vive tuttora in una bolla di precarietà –: ci si dileguava nel 2003 quando si moriva sotto i bombardamenti Nato, e nel 2018 per scantonare i camion-bomba che Isis e talebani facevano brillare per dimostrare la propria potenza di fuoco. Quindi l’ultima fuga, per i fortunati che potevano sedere sui voli dallo scalo di Kabul. Erano persone a rischio: militanti antifondamentalisti, collaboratori di Ong grandi e piccole, facevano l’interprete, l’impiegato, l’autista, il cuoco, il tuttofare. C’era chi aveva lavorato presso strutture governative, nelle ambasciate estere, con gli organismi delle Forze Armate interne e della Nato, c’erano individui bollati come ‘collaborazionisti’. Quindi atlete, calciatrici e cicliste, considerate un’eresia per i  deobandi. Queste categorie hanno avuto accesso ai cosiddetti ‘corridoi umanitari’ sostenuti da associazioni di volontariato che hanno condotto in Italia cinquemila rifugiati. Nello scorso novembre Unhcr, Organizzazione per le Migrazioni, Istituto Migrazioni e Povertà, Arci, Cei, Comunità di Sant’Egidio, Chiesa Valdese hanno firmato un protocollo d’intesa col Viminale per accogliere altri 1.200 afghani provenienti dai campi di Pakistani e Iran. E gli altri? 

 

In molti non sono stati altrettanto fortunati, non hanno potuto o voluto partire. Ma l’esodo è una soluzione? Dal punto di vista personale magari sì. Come popolo non proprio. E’ possibile pensare di far trasmigrare 39 milioni di afghani? Accanto alla guerra, insieme alle illusioni di trasformazione istituzionale i vent’anni di occupazione occidentale hanno compiuto lo scempio di non avvìare nel Paese nessuna economia. I duemila miliardi di dollari spesi dal 2001 al 2018 dalle missioni Enduring Freedom, Isaf, Resolute Support non hanno prodotto né investimenti né un briciolo d’infrastrutture. Servivano a pagare militari e civili occupanti. Le uniche occasioni di lavoro per i locali sostenevano un apparato che si sapeva sarebbe volato via assieme alle truppe. Poi in cauda venenum. Come uno scorpione del deserto l’Occidente ha deciso di affamare la gente dell’Hindu Kush, già colpita dalla sensibile diminuzione degli aiuti internazionali registrata nel 2020. E’ la vendetta del presidente Biden che vuole punire l’Emirato per la mancata applicazione di diritti umani e di genere, bloccando i fondi afghani (9.5 miliardi di dollari) presenti nelle banche statunitensi. L’ONU ha avvertito: si sta creando una catastrofe umanitaria, 23 milioni di persone sono malnutrite, 3 milioni di bambini rischiano di morire di fame. Eppure l’allarme è inascoltato dalla Comunità Internazionale impegnata su altri scenari e dall’informazione infoiata dalla cronaca, pur drammaticamente legata a nuovi conflitti e ultime emergenze. Gli afghani in rotta autogestita, scorticati dalla tratta ma giunti sotto la Fortezza Europa, hanno conosciuto solo le spranghe degli ustascia del Terzo Millennio. E quando, per le porcherie di certa geopolitica, sono finiti nelle foreste bielorusse a ridosso del confine polacco a pietire un ingresso, i poliziotti li hanno minacciati coi mitra e respinti. Ora questi figli d’un dio minore guardano esterrefatti la ‘culla di democrazia’ UE che accoglie secondo il colore della pelle e blocca i loro corpi dolenti. 

Fra le potenze regionali che avvinghiano i confini afghani - l’Iran a ovest, il Pakistan a est - Islamabad ha più possibilità d’infilarsi nei nuovi orizzonti dell’Emirato, proseguendo l’ambiguo dialogo con gli studenti coranici tornati statisti. Peraltro anche i vicini del nord - uzbeki e tajiki, le cui etnìe sono presenti in territorio afghano - mostrano un’apertura ai turbanti. Su quest’orizzonte è viva l’attenzione delle potenze che restano dopo il disimpegno americano: Russia e Cina. La prima si muove condizionando ex satelliti sovietici come Kazakistan e Turkmekistan, due ‘Stati redditieri’ il cui sottosuolo ricco di gas, petrolio, uranio è appetibile anche all’immensa fabbrica cinese. Pechino in Afghanistan ha le mani su rame e terre rare e le conserverà fino al 2037, con la prospettiva di proseguire. 60 milioni di tonnellate del primo, 1.4 milioni del cocktail dei diciassette minerali-base indispensabili per l’Hi-tech, e ancora ferro, oro, alluminio, litio. Il popolo afghano ha sotto i piedi un patrimonio stimato mille miliardi di dollari, ma come altri Paesi colonizzati finora l’ha ceduto al più forte o al più scaltro, anche per gli interessi privati di suoi politici. L’ultimo episodio, lontano ormai un quindicennio, ha riguardato la miniera di rame Mes Aynak, non lontana dalla capitale e da un sito archeologico datato cinquemila anni fa. Tre miliardi e mezzo di dollari il corrispettivo pagato dai cinesi per lo sfruttamento e incamerato da Watan Group di cui la famiglia Karzai è socia. Nessuno ha mai visto l’ex presidente versare neppure qualche spicciolo di quella cifra nelle casse dello Stato. E di ruberia in ruberia tre generazioni si son dovute arrangiare facendo guerre o scappando da esse. La Cina guarda al territorio afghano anche per il tracciato di un’ennesima via della seta che attraversa l’ostile Xinjiang srotolando le merci a ovest. Se uno sviluppo della medesima sale verso Kirghizistan e Uzbekistan, via Osh e Buchara, il tratto nell’Emirato da Balkh punta verso il  Turkmenistan (Merv), entra in terra iraniana, va da Mashhad a Tehran e prosegue. Se i cinesi non bluffano, pagheranno dazi, il problema è chi li gestirà e per fare cosa. 

 

Nei primi mesi dell’anno i talebani sono stati molto attivi sul versante diplomatico. Cercati e aviotrasportati a Oslo hanno incontrato rappresentanze di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e poi un altro blocco: russi, cinesi, iraniani, pakistani, qatarini. Il ministro degli Esteri Muttaqi ha tessuto un’ampia tela di relazioni. Il tentativo d’uscita dall’isolamento l’ha portato ad aprirsi pure coi rifugiati all’estero di altre fasi della travagliata storia del Paese. Questo il mantra: “Gli Accordi di Doha rappresentano una buona base per un rilancio delle relazioni col mondo. Gli afghani meritano di vivere dignitosamente nella loro terra, non devono essere forzati a migrare da questioni economiche”. Un lamento rivolto al fabbisogno alimentare, tralasciando il tema delle libertà. E se l’ovest non vuol rispondere, la Umma islamica sembra aprire braccia e tasche. Da inizio marzo è presente a Kabul l’ufficio dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica, oltre un cinquantennio di vita e 56 membri, l’Afghanistan vi aveva aderito nel 1969. La sede locale, posta sotto la direzione di Muhammad Saeed al-Ayash, coordinerà gli sforzi dei musulmani per sostenere le difficoltà finanziarie del Paese. Sono in discussione piani per agricoltura e assetto viario, utili alla collettività per possibili sbocchi lavorativi. Qatar, Emirati, Kuwait quali finanziatori ne hanno discusso col viceministro dell’Economia Din Hanif. La diplomazia orientale non si ferma. Il Pakistan ha ospitato una sessione del Consiglio dei ministri degli Esteri dell’OIC, ponendo al centro l’offerta di recupero economico, stabilità e sicurezza in terra afghana. Annunciato un prossimo intervento dell’Accademia Islamica del Diritto per favorire comportamenti tolleranti verso l’educazione e la tutela delle donne. In prima fila come sostenitore d’un approccio inclusivo, il premier Khan. Autore d’un moto d’attivismo con cui cerca di tamponare le contestazioni per una disastrosa gestione della politica economica interna, cui ha aggiunto lo scioglimento del Parlamento che stava per sfiduciarlo. Questo blitz istituzionale apre un’ulteriore crepa nella labile democrazia pakistana che può riportare l’esercito a decidere sul futuro d’un Paese lacerato.