giovedì 28 gennaio 2021

Biden, la pace obbligata del dossier afghano

Nei cento giorni con cui ogni presidente degli Stati Uniti cerca di farsi bello, Joe Biden, tramite il suo staff, avrà il suo da fare per smontare e riconvertire i quattro anni demolitori della politica trumpiana. Ma in alcuni segmenti del mondo globale, forse la linea di Washington non dev’essere proprio riscritta, semplicemente perché ha ripetuto schemi già tracciati in altre fasi da altre amministrazioni.
 
   

Fra questi il luogo dei conflitti per eccellenza - l’Afghanistan - dove un presidente figlio d’arte, George W. Bush, lanciò la vincente guerra-lampo che a lungo andare è diventata uno straziante buco nero per l’orgoglio statunitense. Perché da quell’intervento, che ha trascinato in tre missioni oltre cinquanta paesi Nato, non è scaturita una stabilizzazione militare dell’area, anzi i reparti occupanti hanno abbandonato gli scontri armati di terra che li vedevano in difficoltà coi resistenti locali, soprattutto talebani. Già la seconda presidenza Obama sceglieva un’uscita di basso profilo poi avallata da Trump, visto che gli armamenti usati, ben più sofisticati di quelli del Vietnam, i denari spesi, duemila miliardi fino a due anni or sono, l’investimento fatto con la politica e con l’esercito locali, da Karzai a Ghani passando per un reclutamento truppe giunto sino a trecentomila unità, non sono riusciti a creare uno Stato stabile, efficiente, sicuro. Tutto è rimasto come ai tempi della guerra civile pre-talebana, dunque a inizio anni Novanta, con gli stessi signori della guerra o i loro clan familiari, la corruzione corrente e il malaffare ai danni d’una popolazione assassinata, impoverita, costretta alla fuga fino alle porte dell’Europa che la respinge nell’inferno bosniaco di Bihaç e Lipa. Da quasi due anni - su impulso del Pentagono e della Cia - è in corso il progetto di pacificazione per il futuro afghano. Un piano travagliato, ma tuttora in piedi che il 46° presidente statunitense eredita e già ribadisce confermando mister Khalilzad, il diplomatico che da mesi guida le trattive, con la delegazione talebana e ultimamente col nucleo di rappresentanza afghana. Per l’importantissimo scacchiere asiatico Biden s’è affidato a Jake Sullivan, suo Consigliere alla Sicurezza, che lavorò con Hillary Clinton. Lui, per “contenere” l’espansione cinese, s’è scelto Kurt Campbell, uno che ha fama di duro. Invece il Segretario di Stato Blinken, sembra voler riavviare un dialogo sul tema del nucleare iraniano, lì dove il ciclo trumpiano aveva sferrato colpi mortali con l’eliminazione del generale Soleimani e dello scienziato Fakrizadeh. Ciò potrebbero introdurre novità anche su altre situazioni calde. E’ di questi giorni lo stop al sostegno saudita nella guerra in Yemen.

 

 


Trovare una dimensione, innanzitutto diplomatica nel Grande Medio Oriente, dove gli Usa conservano tutt’al più basi militari, com’è appunto in Afghanistan, e alleati assai inaffidabili, com’è per Islamabad, diventa un fattore centrale anche per l’intricata trattativa di pace coi talebani. Costoro discutono, trattano, vogliono superare i vent’anni di guerra, ma sono disposti a continuarla se non raggiungono l’obiettivo primario che è ritornare al governo. Negli storici rapporti aperti a 360° con nazioni amiche (Pakistan) o tatticamente tali (Iran) i turbanti possono essere condizionati, possono esserlo finanche dai potenti che si rapportano a loro (Stati Uniti e Russia) o che gli strizzano l’occhio (l’India di Modi). Però da quanto hanno mostrato in Qatar, gli studenti coranici non soffrono subordinazioni psicologiche. Fanno di testa propria e nei patteggiamenti hanno ben poco da perdere. Finora hanno indicato la via, escludendo il potere ufficiale di Kabul, principalmente il presidente Ghani, che Baradar e fratelli considerano un fantoccio. Pensiero condiviso da un’ampia componente afghana, di popolo e di vertice, e pure da alcuni che con loro colloquiano a Doha. Il gruppo definito di negoziazione della Repubblica Islamica dell’Afghanistan è guidato da Abdullah, il rivale-sodale di Ghani. Da tempo i due condividono odio e, più che amore, sopportazione. Durante la crisi della prima elezione a presidente si sarebbero scannati, ma John Kerry impose di mantenere la calma. I talebani, dalle sempre più numerose province sotto controllo, gongolavano. Tuttora non hanno posto il veto alla presenza d’un fanatico del potere come Abdullah, sanno che assieme all’immarcescibile Karzai costituisce un pezzo del passato che vive nel Paese, un pashtunwali clanista che detesta i tecnocrati di Ghani in odore di Banca Mondiale. I turbanti sono disposti a trattare coi primi per seppellire definitivamente i secondi e talune lobbies dove s’annidano gli uomini della forza, l’apparato della Sicurezza del vicepresidente Saleh, ex agente addestrato dalla Cia sin dall’epoca in cui calzava il pakol accanto a Massoud.


 

Di costoro chiedono metaforicamente la testa e la delegazione di Washington un anno fa annuiva. Tornare indietro per Biden non sarà semplice. Comunque fra i mujaheddin di vecchia data, i turbanti salvano talune presenze. Non solo l’altro sempreverde,  Hekmatyar, con cui condividono un bel tratto di fondamentalismo e che comunque guida uno dei gruppi che conta nella Loya Jirga, l’Hezb-I Islami. Ma anche altre figure che - alla stregua politica occidentale, soggiornano dietro le quinte, da noi nelle Fondazioni - mandando in scena le giovani leve. In Afghanistan e poi sui tavoli del Qatar, come fa sapere un noto network di analisti afghani, compaiono quattro figli di papà celebri. Bator Dostum, rampollo del signore della guerra uzbeko ch’è stato anche vicepresidente di Ghani. Kaled Noor, figlio di Atta Mohammad potentissimo e ricchissimo governatore di Balkh. Matin Bek, che è orfano perché il genitore mujaheddin Mutaleb venne assassinato. Fatima Gailani, anch’essa erede d’un capo mujaheddin Sayed Ahmad. Quest’ultima, passata per il vertice della Mezzaluna Rossa afghana, è una delle quattro figure femminili presenti nella delegazione. Anche le altre hanno respirato “politica” in famiglia: Habiba Sarabi, figlia d’un ex ministro hazara presente dalla monarchia al regime di Najimbullah, Fawzia Kufi, attivista dei diritti legata al partito Jamiat, Sharifa Zurmati, deputata pashtun, l’unica vicina a Ghani. L’attuale quadro politico di Kabul - di governo e d’opposizione - che la delegazione trattante talebana definisce di passaggio, non è affatto unito. Baradar e soci puntano a un esecutivo di transizione, non parlano più di Emirato. Pur di scalzare Ghani s’ammorbidirebbero anche su taluni passi dell’attuale Costituzione, e sui trascorsi dei papà Dostum e Noor che furono loro acerrimi nemici, così da avviare un percorso condiviso, col vecchio dai volti nuovi. Certo, difficilmente cederanno su diritti civili e di genere. Per ora il tavolo della pace è questo. Si può prender tempo, diversi analisti pensano che Biden lo farà, e confermare quanto finora è stato trascritto. Smentirlo riporterebbe tutto al 7 ottobre 2001 o addirittura al 'tutti contro tuttidegli anni Novanta.   

martedì 26 gennaio 2021

Erdoğan-MbS, la geopolitica oltre Khashoggi

Se non si stringono la mano come accadeva prima della rottura avvenuta nell’autunno 2017, a seguito della crisi sul Qatar, è solo perché in epoca di Covid non usa più. Ma Recep Tayyip Erdoğan e Mohammed bin Salman, due raìs che in Medio Oriente vorrebbero contare ancor più del tanto che contano, si sono nuovamente riavvicinati. E’ stata l’apertura d’inizio gennaio da parte delle petromonarchie verso il Qatar ad allentare la tensione anche con Ankara, facendo superare pure la scottante vicenda dell’omicidio Khashoggi che coinvolgeva il principe saudita e aveva visto il presidente turco esporsi chiedendo l’estradizione in del commando omicida. Ricordare brevemente gli episodi, ciascuno un vulnus che pareva irreparabile, può servire a comprendere il percorso ondivago, ma realistico della geopolitica dei due leader. A metà del 2017 Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, cui s’unì anche l’Egitto, crearono un embargo nei confronti della corona di Doha, colpendone gli scambi economici e il flusso turistico, adottando una zona interdetta al traffico aereo, controllata dai cieli, grazie agli F35 forniti dal Pentagono. E pure un isolamento navale e di terra. Dito puntato sui rapporti affaristico-militari con l’Iran che sostiene la ribellione Houti in Yemen e la resistenza di Hezbollah in Medio Oriente, contestazione di una base militare concessa alla Turchia che userebbe come testa di ponte l’emirato qatarino. Soprattutto accuse a quest’ultimo di sostenere il terrorismo islamico, e si gettava nel calderone da Qaeda alla Fratellanza Musulmana. Infine esplicito attacco ad Al Jazeera divenuta negli anni fonte d’informazione primaria nelle vicende mediorientali, additata quale motore delle Primavere arabe.

Lo scontro s’incarogniva anche sulla platea dei social per screditare il lavoro dello staff di Al Jazeera, finanziata certamente da Tamim Al-Thani, ma impegnata nella cronaca e nell’approfondimento geopolitico come poche altre televisioni al mondo. L’intento era screditarne la credibilità, sostenendone non solo finalità di parte, ma addirittura una falsità d’informazione. Una delle due voci ufficiali di Riyadh Sky New Arabia (l’altra è Al Arabya) dichiarava: “Il Qatar non è uno Stato, ma una piattaforma per Turchia e Iran e l’ufficio stampa di Al Qaeda”. Seguendo il protagonismo che lo contraddistingue Erdoğan non faceva mancare il sostegno allo Stato assediato. Nemmeno si trattasse dei palestinesi di Gaza all’epoca di Mavi Marmara, cercava di rompere l’embargo diventato addirittura alimentare. Il suo sguardo più che ai tre milioni di qatarini era rivolto al ruolo della minuscola ma ricchissima penisola del Golfo, sostenitrice d’un variegato Islam politico, propensa ad accettare una presenza militare turca sul proprio terreno (progetto ultimato nello scorso ottobre con una base che ospita 5.000 militari). Avveniva uno scambio: Al-Thani temeva azioni di forza dei sauditi e avere in casa reparti d’uno degli eserciti più strutturati del mondo poteva rappresentare un sollievo, almeno psicologico. Secondo scenario. Ciò che accadde il 2 ottobre 2018 al giornalista saudita Jamal Khashoggi, un tempo sodale di MbS e del suo capitalismo islamico, quindi divenuto un puntuto critico, è da commedia degli orrori. Entrato nel consolato saudita di Istanbul per chiedere un certificato di matrimonio (si sarebbe dovuto spostare con una cittadina turca) il giornalista ne sarebbe uscito tagliato a pezzi e fatto sparire in alcuni bagagli. La mattanza fu organizzata da Mukhabarat fidati vicini al principe, che trasferirono ‘il reparto dei macellai’ con un volo e lo fecero rientrare in patria. Il Mıt turco, che monitorava la struttura diplomatica sostenne di avere prove acustiche dello scempio, Erdoğan chiese di svolgere il processo in Turchia.

A contrasti e polemiche indirette, nei tre anni e mezzo, sono seguiti interessi geostrategici diretti. La smania militare di entrambi i leader ha dovuto fare i conti con il molto irrisolto saudita in Yemen, dove insiste l’altro incomodo dell’egemonia mediorientale, l’Iran. Mentre la competizione con la Russia nel caotico bagno di sangue siriano, ha visto gli eserciti esterni di Mosca e Ankara e quello interno di Damasco, accordarsi a danno della gente e del territorio autonomo del Rojava, soffocato e azzerato. Poi ci sono le economie. Alla continua ricerca di nuove e costosissime sfide quella saudita che insegue l’emancipazione dal ruolo di Stato redditiere, che fra l’altro la pandemia, col sensibile taglio della mobilità e della produzione globali, sta attualmente erodendo. Comunque il pallino della diversificazione era già il cuore pulsante della futuristica “Vision 2030” e dei suoi avveniristici derivati come Neom, la città ideale che stravolge millenni di natura matrigna. In terra turca la barcollante economia interna deve cercare d’invogliare finanziatori stranieri e costoro non possono essere solo cinesi, sempre più autosufficienti in ogni fase d’investimento. Dall’Occidente le chiusure aumentano in base ai passi strategico-militari proprio del presidente, cosicché gli analisti parlano esplicitamente d’un rischioso isolamento di Ankara. Del resto anche l’attuale quiete stabilita col Cremlino su questioni irrisolte: dove e con chi va la Libia, pone l’Erdoğan “economista” di fronte alla ricerca di alternative energetiche qualora i rapporti con Putin tornassero a incrinarsi. Sul gas russo i due autocrati hanno stipulato accordi e reciproci affari. Eppure… Il metano cercato nel Mediterraneo col piano ‘Mavi vatan’, quello azero che rilancia protezioni per il Karabakh, sono sprazzi di realismo che appartengono all’intuito e alla spregiudicatezza politica del presidente turco. Il punto d’incontro fra gli ex duellanti mediorientali passa anche da queste considerazioni. E dal fatto che il nuovo inquilino della Casa Bianca, più attento al tema dei diritti civili, potrebbe non vedere di buon occhio entrambi gli uomini duri. Così loro virtualmente s’abbracciano.

giovedì 21 gennaio 2021

India, fiamme nell’azienda mondiale dei vaccini antiCovid

Ore di fiamme e fumo intenso, cinque vittime al Serum Institute di Pune, nello Stato del Maharashtra, a 120 chilometri a sud-est di Mumbai. E mondo in apprensione per il vaccino anti Covid dell’azienda AstraZeneca, che lì viene prodotto in milioni di dosi da distribuire a gran parte dell’Occidente (l’Italia ne ha prenotate 40 milioni, sebbene questo farmaco sia tuttora in attesta del benestare dall’Agenzia Europea dei Medicinali). L’Istituto di Pune - un vero colosso della produzione farmaceutica che rifornisce il mercato globale - sta anche sviluppando un protocollo con la statunitense Novavax, sempre riguardo al vaccino anti Sars CoV2. Per ora non sono note le cause dell’incendio di stamane, la dirigenza della Serum s’è affrettata a tranquillizzare il mercato che attende le commesse, sostenendo che la produzione non subirà blocchi né fasi di stallo. All’inizio del mese la struttura indiana, che regola la realizzazione dei vaccini contro l’attuale virus, ha dato il benestare alla commercializzazione di due altri prodotti: Covishield, ad opera sempre di Serum Institute, e Covaxin, marchiato Bharat Biotech. Quest’ultimi vaccini entrano nella grande campagna d’immunizzazione che lo Stato-continente ha lanciato nei giorni scorsi, con cui New Delhi prevede d’immunizzare 300 milioni di cittadini. Sempre tali prodotti saranno indirizzati al mercato asiatico (Bangladesh, Nepal, Maldive), poi ci sono contratti per il sud-est asiatico, l’America Latina e svariati Paesi africani. Ultimamente l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha richiesto alla Serum 200 milioni di dosi per le nazioni più povere. Non è nota l’area geografica interessata.

martedì 19 gennaio 2021

Rabbia tunisina

Quindici anni. Al massimo venti. A lanciare pietre e bottiglie incendiarie, come ogni sacrosanta protesta sa fare. A respirare lacrimogeni e sfuggire cariche poliziesche, a prender botte per poi finire in una retata che ne blocca 632. Sono le note di tre notti di fuochi a el-Tadamen, Mnihla, La Manouba, suburbi di Tunisi. E a Kasserine, Sousse, Monastir, in un bel pezzo del Paese. Rabbia che si mescola alla protesta per un sistema rimasto eguale, incentrato sulla povertà e l’assenza di risorse, quello che i padri raccontano dell’epoca del boss Ben Ali. E che nel trambusto d’una Primavera araba che si diceva profumasse di gelsomini con le confuse promesse dell’islamismo di Ennahda, riproponeva un vecchio liberista, Caid Essebsi, per non cambiare nulla. Così il tempo s’è fermato fino al momento della sua dipartita, ultranovantenne. Lo si vedeva stringere mani ai potentati del mondo in visita di cortesia e affari, John Kerry, Houlin Zhao, ma quegli affari non aiutano tanta gente che vive lo spettro d’una disoccupazione da capogiro. Alcuni fratelli maggiori dei disperati di queste ore sono finiti anche a combattere nella Jihad, più esterna che interna, seppure l'assalto del Bardo e gli omicidi di Belaid e Brahmi hanno scavato ferite profonde. Ma la ‘guerra santa’ nel Paese ha lasciato spazio a una distensione fra partiti che s’erano ferocemente contrapposti. Questa coabitazione senza alternative per la povertà di molti, ha solo irritato gli animi e i sondaggi odierni dicono che più della metà dei cittadini non crede in nessuna possibilità che la classe politica sollevi le sorti nazionali. Certo, ad altri fratelli fra Maghreb e Mashreq è andata peggio: ai confinanti libici ridotti in guerriglia per bande dall’epoca della caduta di Gheddafi, e ora a scegliere fra due schieramenti che vantano il reciproco padrinaggio interessato di potenze mondiali; agli egiziani costretti a chinarsi all’ennesimo generale-presidente per non finire imprigionati senza tempo. Eppure l’attuale presidente tunisino Kais Saied - un giurista conservatore scelto come elemento di compromesso fra la transizione filoccidentale, di cui Essebsi da consigliere dell’ex presidente Bourghiba s’era fatto portavoce, e l’islamismo rivendicativo di Ennahda - non può solo additare i ragazzi delle strade come vandali. Purtroppo per loro nessuno li guida, se non l’istinto di non poter far altro che guardare il Canale di Sicilia per fuggire verso chi non vuole accoglierli. Oppure scagliare la collera contro chi non sa che farsene di loro. Uno Stato che non ascolta, non programma, non sa e non vuole farlo. E soprattutto che vorrebbe non esistessero.

domenica 17 gennaio 2021

Kabul, giudici-donne nel mirino

Due nuovi omicidi a Kabul, colpite due donne, giudici della Corte Suprema. Freddate da un commando che ha bloccato l’auto sulla quale viaggiavano, ferendo anche l’autista e un’impiegata dell’organismo presente al loro fianco. Il presidente Ghani denuncia: “Gli agguati talebani e di altri gruppi terroristi contro i difensori del popolo sono un attacco agli insegnamenti islamici e allo spirito di pace. Terrore, crimini e violenza non risolvono i problemi”. Valutazioni simili dalle maggiori ambasciate occidentali, britannica e statunitense. Come in altre circostanze nessuno ha rivendicato l’attentato. Ovviamente non la delegazione dei turbanti impegnata a Doha, dove quando la notizia s’è diffusa, è apparso un comunicato di condanna da parte del locale emirato. La delegazione guidata da Baradar e Hakim Haqqani (già giudice di Kandahar, da non confondere con Sirajuddin, rampollo dell’omonima Rete un tempo dissidente) pur essendo presente dallo scorso giovedì in Qatar, ha disertato il tavolo di trattative. Secondo il loro portavoce, non avrebbe mancato l’appuntamento, si sarebbe trattenuta in discussioni interne. Punti di vista diversi, che spesso risultano sostanziali. Dopo una sosta a fine anno, in cui si sono verificati diversi attentati con numerose vittime attribuiti dal vicepresidente afghano Saleh proprio ai taliban, il tavolo di trattative ha ripreso gli incontri. Negli ultimi giorni ne sono stati programmati tre, ma in due circostanze gli ‘studenti coranici’ non hanno presenziato. Un esponente dell’Alto Consiglio per la Riconciliazione ha chiosato che “la popolazione cerca pace e cessazione delle ostilità e simili battute d’arresto sono uon scialo di tempo ed energia”. Realisticamente il portavoce del Jamiat-e Islamic Party ha fatto presente che nessuna delegazione muoverà dei passi prima dell’insediamento di Joe Biden. E poiché Casa Bianca e Pentagono, pur nella precedente versione, sono stati i registi del ‘piano di pace’ i dialoghi slitteranno di alcuni giorni. O di qualche settimana, in attesa delle future mosse da svelare. Più dalla parte dello staff Democratico verso il ricercato accordo, che da quella talebana, rimasta intonsa e convinta delle proprie certezze. Comunque gli schieramenti dovranno studiarsi. Quindi bocche chiuse per un po’ e spazio a posizioni da circa due anni rimaste le stesse. Le bocche che non si placano son quelle di fuoco. Un richiamo alla voce delle armi giunge pure dall’Intelligence afghana, che col portavoce Mohib rivendica la recente retata e l’uccisone di alcuni miliziani nell’Helmand.

sabato 16 gennaio 2021

L’Egitto produttivo in smobilitazione

Una visita virtuale all’Egyptian Iron and Steel Company, fiore all’occhiello dell’impresa statale del Paese - che col ministero dei Lavori Pubblici detiene l’83% del capitale, il restante è diviso fra investitori, banche, azionisti e associazioni - fa brillare l’annuncio di benvenuto: “Siamo onorati della visita al nostro sito, speriamo di ottenere la tua fiducia. L’azienda segue gli standard di qualità internazionali eccetera“. Premesse coriacee, come la denominazione aziendale, che col materiale edilizio trattato ha fatto affari all’interno e all’esterno della popolosa nazione araba. Eppure il business che coinvolge in prima persona la lobby militare, e attualmente i sodali del clan Sisi impegnatissimi coi progetti faraonici del raddoppio di Suez e della nuova capitale in costruzione in pieno deserto, sembra non sostenere più la storica società nata nel 1958. Nei giorni scorsi, incredibile a dirsi, c’è stato l’annuncio di chiusura e quei verbi ormai si coniugano al passato. L’avviso d’un portavoce s’è srotolato laconicamente senza ascoltare le rimostranze sindacali, che lamentano 7.500 licenziamenti, mentre i lavoratori, ufficiali e precari, sono in subbuglio da oltre un mese. 

 

L’azienda accumulava perdite da due anni, hanno ripetuto in coro dirigenti e governo, che di fatto si sovrappongono. Nel 2020 registrava un bilancio di circa 52 milioni di euro, cifra che riduceva del 35% la quota del 2019, mentre un’altra porzione di ammanchi veniva ammortizzata vendendo terreni inutilizzati. La decisione di liquidare la struttura di Helwan, a 25 km dal Cairo, nella zona archeologica dell’antica Melfi, ha prodotto un braccio di ferro fra lavoratori e azionisti finito anche davanti ai giudici. Per incrementare l’estrazione di minerali ferrosi negli ultimi tempi era stata coinvolta una compagnìa ucraina, e nel 2018 lo stesso ministro degli Affari Pubblici, Hisham Tawfik, s’era interessato della faccenda. Attualmente il ministro sostiene che non tutto il settore è posto in liquidazione, anzi lui spera di rilanciarlo. In un’intervista su Al Arabiya proclama un piano di ripristino con cui  valuta di conservare le industrie da poter riconvertire e tagliare quelle definite senza futuro. La ristrutturazione dell’Egyptian Metallurgical Company (la Holding che raccoglie 14 filiali del settore metallurgico e minerario, fra cui la citata Iron and Steel) è costata 9 miliardi di lire egiziane (468 milioni di euro) ed è stata realizzata vendendo sei milioni di metri quadri di terreno. 

 

Ovviamente c’è chi non riceve garanzie per un domani che è già oggi, nell’Egyptian Iron and Steel Company la perdita dell’occupazione è macroscopica: viene conservata solo una linea estrattiva per 400 lavoratori, i restanti 7.000 vengono tagliati e non esistono ‘ammortizzatori sociali’. Per loro è prevista una sorta di elemosina - 728 euro per ogni anno di servizio - considerato dai manager un’offerta generosa. Il sindacato metallurgico l’ha respinta, incolpa di eventuali perdite la pessima gestione dirigenziale e l’incapacità governativa di sviluppare un adeguato sfruttamento delle risorse produttive. Insinua l’ipotesi d’una liquidazione d’un pilastro pubblico nazionale per avallare possibili riacquisizioni private. Da parte di chi? Per ora sono in corsa quattro aziende, tutte pubbliche secondo il ministro Tawfik, che ne rivela solo una: El Nasr Mining. Storica impresa mineraria del Paese, da sessant’anni in prima fila nei trasporti di carbone, ammoniaca, benzene con un molo ad Alessandria e uno sul Nilo, e per fosfati, talco e quarzi due porti sul Mar Rosso: Hamrawein e Abu Ghusun. Inseriti fra le due perle vacanziere del Paese: Hurgada e Marsa Alam.

 

Come nel 2018 con la chiusura della National Cement Company a causa delle perdite registrate, stiamo procedendo a svecchiare  quei settori dell’economia che non riescono a restare competitivi” enuncia il dicastero presieduto da Tawfik. Però c’è chi denota la stessa tattica attuata nell’era Mubarak, quando attività pubbliche,  di cui i militari avevano la diretta gestione o la supervisione, vennero liquidate per poi venir reimmesse sul mercato e acquisite a prezzi stracciati da personaggi dell’apparato. All’epoca della caduta di Mubarak si sollevò un caso che lo coinvolgeva, assieme ai propri figli, e al suo sodale politico e affaristico, quell’Ahmad Shafiq, che nel 2012 era opposto a Morsi nella corsa alla presidenza della Repubblica. Nello scorso autunno sono state introdotte modifiche normative per il settore pubblico in base alle quali  imprese statali possono appaltare consulenze e conduzioni private. E ancora: basta che il debito di un’azienda pubblica raggiunga la metà del capitale societario che è possibile chiuderla. I sindacati parlano di catastrofe: la metà, e forse più, delle aziende del Paese, sono passibili di vendita. Naturalmente finiscono in vendita posti di lavoro, perché nella conduzione privata, la flessibilità e l’assenza di tutele diventano normalità.   

giovedì 14 gennaio 2021

I conti neri dell’Egitto

Fa i conti con l’ennesimo anno vissuto repressivamente l’Arabic Network Human Rights Information divulgando un rapporto che raccoglie i numeri dello strazio egiziano. Si premette che nella stagione del Sars CoV2 nessuna scarcerazione motivata dal rischio pandemico è stata messa in atto, al più ci sono stati trasferimenti fra le prigioni propriamente dette e lo stazionamento nelle celle dei commissariati. Un nuovo tipo d’abuso è quello d’inserire gli indiziati in ulteriori inchieste che possono determinare successive pendenze in un incastro senza fine. Lo stato d’emergenza, protratto dal 2017, diventa il riferimento per ogni sorta d’addebito rivolto prevalentemente ad avvocati dei diritti, giornalisti, scrittori, opinionisti, intellettuali. Ma le accuse, pesantissime, possono coinvolgere ogni egiziano in patria e all’estero, come insegna il caso del dottorando Patrick Zaki. Nel 2020 si sono contate 364 manifestazioni. Lamentavano la sospensione dei diritti civili oppure riguardavano rivendicazioni lavorative, come quelle riprese dallo scorso novembre in varie aree industriali, alcune anche ai margini della capitale. In genere le contestazioni hanno ricevuto la ‘visita’ delle forze di sicurezza con le conseguenze del caso: battiture con sfollagente e fermi spesso tramutati in arresto. Il mese più caldo è risultato settembre con 68 episodi, di cui 50 repressi e quattro risolti con una mediazione. Utile sapere come la ‘cura Sisi’, che elargisce galera a gogò, stia dando i suoi frutti. 
 
Da quando il generale golpista ha preso il potere il numero delle manifestazioni è in caduta libera: erano 1515 nel 2014, 766 l’anno seguente, 1318 nel 2016, il periodo citato dei grandi scioperi nell’area industriale. Scendono a 779 nel 2017, quindi le norme che riportano tutto a “terrorismo” fanno il resto: 485 nel 2018, 491 nel 2019, 364 nel 2020. I dati statistici dell’ANHRI sono meticolosi e ricordano che fra le manifestazioni dell’anno appena concluso ce ne sono 11 favorevoli al regime. Dunque, le proteste scendono a 353. Fra esse 49 non sono classificate come politiche, ma 111 lo sono state traendo ispirazione e organizzazione da gruppi d’opposizione come la Fratellanza Musulmana e l’Alleanza Nazionale a Sostegno della Legittimità, attive nonostante i reiterati tentativi governativi di ridurle all’impotenza. Caparbiamente richiedevano: la rimozione di Sisi, reo del colpo di stato del luglio 2013, il rilascio di migliaia di attivisti detenuti, l’abolizione del fittizio ‘stato d’emergenza’. Ben 173 sono le azioni animate da questioni sindacali e sociali, sia contro una crescente disoccupazione, sia per richieste di aumenti salariali.  Dei 78 processi in corso, solo 5 sono esaminati dalle Corti militari, notoriamente più severe. Però l’emergenza sicurezza ha irrigidito sensibilmente anche le Corti civili. Le 73 azioni processuali trattate da quest’ultime hanno prevalentemente risvolti politici: 56 i casi esaminati che riguardano i citati partiti d’opposizione. 
 
In particolare i militanti della Fratellanza Musulmana devono rispondere ad accuse che concernono le proteste anti Mubarak, che proprio nel febbraio dell’anno scorso è passato a miglior vita, dopo essere sfuggito a una condanna a morte e al carcere. Comunque nei cinque processi intentati dalle Corti militari sono coinvolti ben 1132 civili. Sembrerebbe un controsenso, nell’Egitto iper militarizzato di Sisi non lo è. Anzi questi tribunali vantano una diminuzione di casi, ne contavano 1832 nel 2019, 1869 nel 2017, oltre 3000 nel 2016. Passi in avanti? Non proprio, visto che il regime sta proponendo le Corti civili per sentenze draconiane. Se le assoluzioni risultano ridotte 22 in totale, ma 13 anche per gli attivisti politici, le sentenze capitali si tengono “basse”. In tutto ce ne sono state 13, di cui solo una comminata da Corti militari. Hanno prodotto rispettivamente 68 e 10 impiccagioni. Si attribuivano agli imputati attentati e assalti a stazioni di polizia. E queste non rientrano nei casi di terrorismo puro. Per il quale c’è un capitolo a sé. Le operazioni di controterrorismo, 18, superano quelle classificate come terroristiche, 14, tutte concentrate nel nord del Sinai. Hanno causato la morte di 26 militari, 9 civili, 5 terroristi. Più svariati feriti. Anche qui i numeri sono in sensibile flessione: nel 2015 se ne contavano 400, l’anno successivo 259.

domenica 10 gennaio 2021

Egitto, il 25 gennaio di Hossam

Seduto in compagnìa di due giovani ai tavoli d’un caffè prospiciente la stazione del metrò Dar al Salaam, Hossam Al-Arabi viene perquisito in una giornata particolare: il 25 gennaio 2017. Sono passati sei anni dalla rivolta di piazza Tahrir, e l’anniversario che qualche attivista ha in animo di ricordare, è fuori portata per tutti a causa del controllo ossessivo operato dalle Forze dell’Ordine. In funzione preventiva prima che repressiva. La data è quella, e per i cairoti, soprattutto d’età e d’aspetto giovanile, diventa pericoloso anche solo sostare per via. Così Hossam viene avvicinato da una pattuglia e perquisito. La più accurata osservazione del suo cellulare rivela alcuni messaggi che il network Arabic for Human Right Information, da un quadriennio interessato al suo caso, definisce innocui. Sono sms rivolti ad amici che esprimono critiche pacifiste, niente a che vedere con le accuse rivoltegli dai procuratori, dopo il fermo tramutato in arresto: frasi pericolose e dannose alla nazione. Come migliaia di egiziani Hossam finiva nella vicina stazione di polizia, stessa denominazione Dar Al-Salaam, che in arabo sta per ‘Casa della pace’, e suonava come una beffa per Al Arabi, cui seguiva il danno del trattamento ricevuto nella sala definita il frigorifero, dove peraltro non entrava da solo. Una “rinfrescata” tanto per aver più chiare le accuse rivoltegli il giorno seguente: appartenenza a gruppi illegali come la Fratellanza Musulmana, condivisione di notizie false, disturbo della quiete pubblica e dimostrazione priva di autorizzazione. Tutto ciò per aver consumato una bevanda in un ahwa. 
 
Gli avvocati che inizialmente s’interessarono al suo caso facevano notare che in quella giornata non s’erano verificate manifestazioni né commemorazioni. Niente. Eppure, dopo giorni trascorsi nelle celle del “commissariato della pace” per Hossam s’aprirono le porte della famigerata prigione di Tora. Vestiti strappati e capelli rasati come accoglienza, cella dei nuovi arrivi, in attesa della destinazione nel reparto detenuti politici, raggiunto dopo una decina di giorni. Quindi inizia il circuito delle comparizioni davanti ai giudici e del rinvio ai seguenti 45 giorni, un periodo via l’altro… Storie ai più note dallo scorso febbraio, dalla detenzione di Patrick Zaki, situazioni già presenti, per definizione di legge, ormai da quattro anni. L’accusa: terrorismo. E il via vai da certi luoghi dove entrano in scena i ‘battitori’, guardie carcerarie e a volte, gli stessi informatori che servono il regime, dagli agenti della National Security ai picchiatori della microcriminalità locale. Hossam ha raccontato ai legali d’essere sopravvissuto a alcuni tentativi di suicidio con cui cercava di “uscire” da quel posto. Momenti di disperazione comunque condivisi con altri prigionieri, vittime d’una maledetta comune sorte, quella scritta per loro dal regime di Al Sisi. Poi il miraggio del rilascio: l’uscita dalla prigione di Tora e il ritorno nella stazione di polizia di partenza. L’incubo si ripeteva, con esso le accuse reiterate e rafforzate: direttamente terrorismo. 
 
Nuove presunte inchieste della procura e fermo forzato, dormendo a turno in celle di sicurezza sovraffollate, mangiando solo pane, temendo che qualche interrogatorio venisse svolto da agenti dell’Intelligence. Solitamente i più duri. Da lì passavano nuovi fermati, talvolta adolescenti di 14-15 anni, tutti accusati di terrorismo. Condizioni vissute per mesi, passando da una stazione di polizia all’altra - ognuna è dotata di celle di sicurezza dove poter tenere rinchiudi se decine persone -. Quindi l’angoscia dell’esecuzione. Una mattina giunge un agente della National Security, sceglie un gruppo detenuti, fra cui Hossam, li benda e li obbliga a salire su un furgoncino. Dopo un certo tragitto il veicolo si ferma e una volta discesi i rapiti si sentono dire “Vi facciamo fuori”. Quando le canne dei fucili d’un reparto di soldati che sono sul posto gli si piazzano dietro la schiena, ciascuno pensa che sia giunta l’ora. Chi crede, prega Allah di prendere le vite senza dolore. E’ una finta esecuzione. Tutto rientra, anche il gruppo riportato a Dar Al Salaam fra gli scherni dei poliziotti che ridono della loro paura. Dopo un rilascio giunto chissà per quale benevolenza celeste, Hossam ha pensato bene di entrare in clandestinità. Per difendersi più che per combattere. Lo annuncia  Gamal Eid, un noto avvocato dei diritti. Ma nella ‘Casa della pace’ il via vai di arresti prosegue, come proseguono i soprusi. Nei mesi invernali ricorrono i getti d’acqua gelata che lasciano i detenuti zuppi, in celle umide, senza materassi né coperte, in balìa di polmoniti al di là del Covid 19. Le ultime voci parlano di quattordici arrestati, è lì dal 26 novembre anche il giornalista Mohamed Salah.

venerdì 8 gennaio 2021

Universitari turchi, una voce nel deserto

Non vogliamo un fiduciario come rettore gridano gli studenti della prestigiosa università Bogazici, terza istituzione educativa di Istanbul. Le invettive sono rivolte al nuovo rettore, Melih Bulu, investito dell’incarico dallo stesso presidente Erdoğan, e ritenuto appunto uno dei tanti suoi sodali. Un uomo di fiducia posto a verificare che nella struttura che forgia un pezzo della classe dirigente del Paese non trovino spazio teste calde d’un antagonismo di sistema, prima che politico. Da parte loro gli universitari vogliono preservare la cittadella degli studi del Bosforo da quegli orientamenti e indottrinamenti che il governo rivolge all’intera società turca. Specializzato in lingue straniere, ingegneria, arte, economia e amministrazione finanziaria l’ateneo che conta tredicimila iscritti si vanta di tenere legami col sistema educativo occidentale, in particolare statunitense, un fattore afferente la tradizione del fondatore Robert College che l’istituì nel 1863. I giovani non mollano e proprio in occasione della ripresa delle lezioni in sicurezza si sono schierati sulla scalinata d’una delle facoltà, chiedendo le dimissioni di Bulu poiché quell’incarico risulta una “sfida alla democrazia”. Nella Turchia erdoğaniana non è la prima, e tanto per ribadire l’aria che tira sul Bosforo, da quattro giorni reparti antisommossa sono presenti nell’università e già s’è verificato qualche tafferuglio.  Il clima è teso e può ulteriormente scaldarsi, visto che gli iscritti alla Middle East Technical University e alla Marmara University, le altre accademie della metropoli, decidono di sostenere la protesta dei colleghi Bogazici. E rincarano la dose: “Non solo il vostro rettore, anche altri soggetti devono lasciare gli scranni”.

Nel proclama che gli universitari hanno indirizzato ai media turchi, ricevendo scarso seguito vista la ‘normalizzazione’ attuata da anni sulla stampa dal governo dell’Akp, ricorre il concetto di trasparenza: “Gli incarichi devono scaturire da una selezione fra più soggetti, non da investiture. E’ la stessa comunità accademica che può trovare la sua guida com’era costume fino al 2016. Questa nomina ci riporta al 1980, un periodo di dittatura” lamentano gli studenti. In effetti la vicenda rientra pienamente nella reazione e nel repulisti che il regime ha attuato nei confronti dell’ex alleato gülenista che per anni s’era occupato d’istruzione privata, col circuito di propri istituti, e d’infiltrazione accademica nelle università statali. I contrasti e la rottura fra Fethullah Gülen ed Erdoğan hanno portato, secondo la versione di quest’ultimo, al tentativo di golpe del luglio 2016. E trattandosi di ferreo controllo da quel momento l’apparato del partito di maggioranza (Akp) - associato agli inquietanti nazionalisti del Mhp, il partito dei ‘Lupi grigi’ - ha trasformato la stretta sulle libertà nel Paese in nodo scorsoio. I richiami studenteschi alla “straziante osservazione delle pratiche repressive negli atenei” sembra l’ultimo epicedio dopo mesi e mesi di soffocamento che hanno afflitto un’infinità di settori. Lo statuto del Senato accademico del 2012, sventolato quale simbolo, ricordando come la “libertà universitaria sia essenziale per il progresso sociale e scientifico” diventa carta straccia al cospetto del controllo che i nuovi nominati devono realizzare. Gli studenti denunciano: “le università non possono diventare strumenti della politica”. Purtroppo sta succedendo, e la loro voce è un grido nel deserto.  

giovedì 7 gennaio 2021

Capitol Hill, assalitori di casa

Li guardi e ne percepisci l’incertezza. Un’irruenza covata, allevata, allenata nelle caserme, nelle palestre e in quella palestra della prateria che gli avi hanno stravolto con ben più malvagia violenza. Gli assalitori della casa simbolo d’una democrazia malata vorrebbero ma non vanno oltre le intenzioni del proprio santone, che non è l’uomo-bufalo, perché a sterminare i bufali ci aveva già pensato un più infallibile assalitore, ma il santone in cravatta che li ha drogati di velenose bugie. Non sanno che farsene neppure delle armi – non molte – che si sono trascinati dietro, e che la democrazia che le diffonde nel mondo, gli permette di condurre con sé e, volendo, di utilizzare. Non le usano contro l’Istituzione nemica, molto più equipaggiata per la difesa del simbolo, ma non le usano perché non sanno cosa fare. Un assalto di disperazione più che d’azione. Un addio alle stesse armi con l’arma più volgare: la bestemmia contro la verità. L’affermazione infantile della demenza senile d’un narciso corruttore, diventato statua della propria libertà di seviziare quei cervelli che non amano pensare, preferendo schierarsi e vagare, così come sono stati immortalati da flash e telecamere nelle sale del Capitol Hill
 
Eppure taluni volti sono ben riconoscibili, quelli che hanno vestito e vestono altre mimetiche, che in qualche caso son le stesse, tenute per ricordo. Sono le facce che conducono la pace nel mondo, imbracciando più sofisticate armi d’ordinanza, che partecipano alle mission impossible cui ci ha abituato il “candore” diffuso dalla nota Casa e dallo stesso luogo simbolico ieri strattonato dalla masnada di fanatici assalitori. Medita l’anima riflessiva d’America sul suo corpo turpe che deforma l’immagine di tanti angoli del mondo per volere di certi suoi Presidenti e Congressi? Ne dubitiamo. Perché nella sua breve storia scritta anche col sangue fraterno, la nazione delle opportunità diventata superpotenza del sopruso continua a far versare sangue ad altre genti. Eventi decisi nelle stanze imbandite dalla rievocazione della propria potenza che cerca di rinnovare traguardi senza porsi domande sull’umanità presente e futura. Inseguendo quei sogni di vanagloria i molti fanatici dell’orgoglio d’America continuano a vagare per il mondo, in mimetica e in blazer, alla conquista d’altre colline e pianure, invadendo e rincorrendo conquiste che negli ultimi vent’anni si chiamavano Afghanistan e Iraq. E un tempo Vietnam e Corea. In un fanatismo e in un’ipocrisia senza limiti. 

 

domenica 3 gennaio 2021

Futuro afghano, pace forzata o guerra civile

Centosessantotto membri delle Forze di sicurezza e centotrentasei civili - quest’ultimi giornalisti, attivisti, magistrati - sono le vittime afghane eccellenti, registrate da statistiche ufficiose nell’anno appena concluso. A esse s’aggiunge la massa dei senza nome o quasi, i civili di città e campagna, crepati per ragioni religiose, perché hazara, la comunità più colpita da kamikaze e autobomba, o semplicemente perché transitavano nel posto sbagliato nell’infame attimo della deflagrazione o dell’assalto armato. E’ l’Afghanistan che reitera tale cliché da decenni, ma che negli ultimi due anni registra una variante. Il conflitto palese fra i taliban della Shura guidata da Akhundzada e i ribelli del Khorasan che hanno assunto il marchio dello Stato Islamico. L’incessante sequela di attentati contrapposti - e rivendicati - che s’era registrato nel 2018 in tante province per lo sciagurato primato dell’agguato mortale, è stato sostituito dallo scorso autunno da azioni anonime. Sangue e morte senza sigla e senza scopo, se non quelli di seminare terrore e orrore. Ovviamente è una tattica, che lascia spazio a ipotesi e interpretazioni. Alle imboscate seguono le congetture sui possibili esecutori da parte degli addetti alla sicurezza, un ossimoro nel Paese più insicuro del globo. Quindi le valutazioni di analisti, quest’ultime più orientate ma egualmente teoriche.
A ogni strage di gruppo, a ogni esecuzione mirata si cerca di dare un nome, d’individuare la matrice dei killer. Da circa un mese c’è un’ulteriore presenza che, comunque, potrebbe non figurare come terzo incomodo. Quella d’un ramo della Rete di Haqqani, gruppo talebano dissidente sin dall’epoca del mullah Omar, con a capo Jalaluddin. Solo dopo la sua scomparsa avvenuta nel 2018 i taliban di Haqqani, sotto l’impulso del figlio Sirajuddin, s’erano riavvicinati alla Shura ortodossa di Quetta. Con l’ennesimo attentato nei primi di dicembre, i Servizi di Kabul hanno messo le mani su un nucleo di fuoco, denominato Obaida Karwan, forte di oltre 250 aderenti. E’ stato arrestato anche il leader, tal Mutiaullah, e secondo il vicepresidente afghano Saleh che d’Intelligence s’è occupato per anni, quest’unità guerrigliera sta collaborando coi restanti jihadisti del Khorasan nel condizionare il Paese, conducendolo verso il caos. Nei mesi scorsi, quando Saleh in persona fu preso di mira da un’autobomba uscendone miracolosamente illeso, probabilmente per puro caso non per il filtro dei suoi 007, le supposizioni del vicepresidente sulla recrudescenza degli agguati mortali indicavano un unico responsabile: i talebani della trattativa. Sarebbero loro i principali artefici della destabilizzazione per far pesare sui tavoli di Doha il palese ricatto: senza un nostro governo la nazione è ingovernabile.

Al tempo stesso il ritornello dei turbanti, ripetuto a ogni colpo inferto alla cieca, resta il medesimo: “noi combattiamo militari e polizia non impiegati statali, addetti della società civile, gente comune”. Credergli non è scontato. Gli studenti coranici sentono avvicinarsi il profumo del potere, anche per il lasciapassare ottenuto dagli statunitensi in ritiro da una certa presenza sul territorio, e interpretano vari ruoli, da quello di pacificatori e stabilizzatori, a quello semicelato d’istigatori allo squasso esistenziale. Come e più di loro, gli ex sodali del Khorasan e i fratelli-coltelli di Haqqani diventano i guastatori assoluti che possono ricavare spazi dalla degenerazione dello scontro in conflitto aperto, come fu la guerra civile del periodo 1992-96. E prim’ancora il decennio di guerriglia antisovietica vissuto fra banditismo e rapimenti. Accanto al sostegno, più o meno minuto, che quest’ultimi possono ricevere da clan malavitosi, trafficanti d’oppio, contrabbandieri d’ogni sorta in combutta con militari e amministratori corrotti, resta l’ombra pesante e inquietante delle potenze regionali sempre impegnate a sgretolare l’Afghanistan per trarne vantaggi. I vicini d’Oriente di stanza a Islamabad, quelli d’Occidente allocati a Teheran, e gli invisibili che contano come la dinastia Saud. La quale, al di là della proclamata modernizzazione, ha occhio benevolo e cuore prossimo al jihadismo mondiale. Da Al Qaeda sino al Daesh e oltre.