Se non si stringono la mano come accadeva prima
della rottura avvenuta nell’autunno 2017, a seguito della crisi sul Qatar, è
solo perché in epoca di Covid non usa più. Ma Recep Tayyip Erdoğan e Mohammed
bin Salman, due raìs che in Medio Oriente vorrebbero contare ancor più del
tanto che contano, si sono nuovamente riavvicinati. E’ stata l’apertura
d’inizio gennaio da parte delle petromonarchie verso il Qatar ad allentare la
tensione anche con Ankara, facendo superare pure la scottante vicenda
dell’omicidio Khashoggi che coinvolgeva il principe saudita e aveva visto il
presidente turco esporsi chiedendo l’estradizione in del commando omicida.
Ricordare brevemente gli episodi, ciascuno un vulnus che pareva irreparabile,
può servire a comprendere il percorso ondivago, ma realistico della geopolitica
dei due leader. A metà del 2017 Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein,
cui s’unì anche l’Egitto, crearono un embargo nei confronti della corona di
Doha, colpendone gli scambi economici e il flusso turistico, adottando una zona
interdetta al traffico aereo, controllata dai cieli, grazie agli F35 forniti
dal Pentagono. E pure un isolamento navale e di terra. Dito puntato sui
rapporti affaristico-militari con l’Iran che sostiene la ribellione Houti in
Yemen e la resistenza di Hezbollah in Medio Oriente, contestazione di una base
militare concessa alla Turchia che userebbe come testa di ponte l’emirato
qatarino. Soprattutto accuse a quest’ultimo di sostenere il terrorismo
islamico, e si gettava nel calderone da Qaeda alla Fratellanza Musulmana.
Infine esplicito attacco ad Al Jazeera
divenuta negli anni fonte d’informazione primaria nelle vicende mediorientali,
additata quale motore delle Primavere arabe.
Lo scontro s’incarogniva anche sulla platea dei social per
screditare il lavoro dello staff di Al
Jazeera, finanziata certamente da Tamim Al-Thani, ma impegnata nella
cronaca e nell’approfondimento geopolitico come poche altre televisioni al
mondo. L’intento era screditarne la credibilità, sostenendone non solo finalità
di parte, ma addirittura una falsità d’informazione. Una delle due voci
ufficiali di Riyadh Sky New Arabia
(l’altra è Al Arabya) dichiarava: “Il Qatar non è uno Stato, ma una piattaforma
per Turchia e Iran e l’ufficio stampa di Al Qaeda”. Seguendo il
protagonismo che lo contraddistingue Erdoğan non faceva mancare il sostegno allo
Stato assediato. Nemmeno si trattasse dei palestinesi di Gaza all’epoca di Mavi
Marmara, cercava di rompere l’embargo diventato addirittura alimentare. Il suo
sguardo più che ai tre milioni di qatarini era rivolto al ruolo della minuscola
ma ricchissima penisola del Golfo, sostenitrice d’un variegato Islam politico,
propensa ad accettare una presenza militare turca sul proprio terreno (progetto
ultimato nello scorso ottobre con una base che ospita 5.000 militari). Avveniva
uno scambio: Al-Thani temeva azioni di forza dei sauditi e avere in casa
reparti d’uno degli eserciti più strutturati del mondo poteva rappresentare un
sollievo, almeno psicologico. Secondo scenario. Ciò che accadde il 2 ottobre
2018 al giornalista saudita Jamal Khashoggi, un tempo sodale di MbS e del suo
capitalismo islamico, quindi divenuto un puntuto critico, è da commedia degli
orrori. Entrato nel consolato saudita di Istanbul per chiedere un certificato
di matrimonio (si sarebbe dovuto spostare con una cittadina turca) il
giornalista ne sarebbe uscito tagliato a pezzi e fatto sparire in alcuni
bagagli. La mattanza fu organizzata da Mukhabarat
fidati vicini al principe, che trasferirono ‘il reparto dei macellai’ con un
volo e lo fecero rientrare in patria. Il Mıt
turco, che monitorava la struttura diplomatica sostenne di avere prove
acustiche dello scempio, Erdoğan chiese di svolgere il processo in Turchia.
A contrasti e polemiche indirette, nei tre anni e mezzo,
sono seguiti interessi geostrategici diretti. La smania militare di entrambi i
leader ha dovuto fare i conti con il molto irrisolto saudita in Yemen, dove
insiste l’altro incomodo dell’egemonia mediorientale, l’Iran. Mentre la
competizione con la Russia nel caotico bagno di sangue siriano, ha visto gli
eserciti esterni di Mosca e Ankara e quello interno di Damasco, accordarsi a
danno della gente e del territorio autonomo del Rojava, soffocato e azzerato. Poi
ci sono le economie. Alla continua ricerca di nuove e costosissime sfide quella
saudita che insegue l’emancipazione dal ruolo di Stato redditiere, che fra l’altro
la pandemia, col sensibile taglio della mobilità e della produzione globali,
sta attualmente erodendo. Comunque il pallino della diversificazione era già il
cuore pulsante della futuristica “Vision 2030” e dei suoi avveniristici derivati come Neom, la città ideale che stravolge millenni di natura matrigna. In terra turca la barcollante
economia interna deve cercare d’invogliare finanziatori stranieri e costoro non
possono essere solo cinesi, sempre più autosufficienti in ogni fase
d’investimento. Dall’Occidente le chiusure aumentano in base ai passi
strategico-militari proprio del presidente, cosicché gli analisti parlano
esplicitamente d’un rischioso isolamento di Ankara. Del resto anche l’attuale
quiete stabilita col Cremlino su questioni irrisolte: dove e con chi va la
Libia, pone l’Erdoğan “economista” di fronte alla ricerca di alternative
energetiche qualora i rapporti con Putin tornassero a incrinarsi. Sul gas russo
i due autocrati hanno stipulato accordi e reciproci affari. Eppure… Il metano cercato
nel Mediterraneo col piano ‘Mavi vatan’, quello azero che rilancia protezioni
per il Karabakh, sono sprazzi di realismo che appartengono all’intuito e alla
spregiudicatezza politica del presidente turco. Il punto d’incontro fra gli ex
duellanti mediorientali passa anche da queste considerazioni. E dal fatto che
il nuovo inquilino della Casa Bianca, più attento al tema dei diritti civili,
potrebbe non vedere di buon occhio entrambi gli uomini duri. Così loro
virtualmente s’abbracciano.
Nessun commento:
Posta un commento