martedì 26 gennaio 2021

Erdoğan-MbS, la geopolitica oltre Khashoggi

Se non si stringono la mano come accadeva prima della rottura avvenuta nell’autunno 2017, a seguito della crisi sul Qatar, è solo perché in epoca di Covid non usa più. Ma Recep Tayyip Erdoğan e Mohammed bin Salman, due raìs che in Medio Oriente vorrebbero contare ancor più del tanto che contano, si sono nuovamente riavvicinati. E’ stata l’apertura d’inizio gennaio da parte delle petromonarchie verso il Qatar ad allentare la tensione anche con Ankara, facendo superare pure la scottante vicenda dell’omicidio Khashoggi che coinvolgeva il principe saudita e aveva visto il presidente turco esporsi chiedendo l’estradizione in del commando omicida. Ricordare brevemente gli episodi, ciascuno un vulnus che pareva irreparabile, può servire a comprendere il percorso ondivago, ma realistico della geopolitica dei due leader. A metà del 2017 Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrein, cui s’unì anche l’Egitto, crearono un embargo nei confronti della corona di Doha, colpendone gli scambi economici e il flusso turistico, adottando una zona interdetta al traffico aereo, controllata dai cieli, grazie agli F35 forniti dal Pentagono. E pure un isolamento navale e di terra. Dito puntato sui rapporti affaristico-militari con l’Iran che sostiene la ribellione Houti in Yemen e la resistenza di Hezbollah in Medio Oriente, contestazione di una base militare concessa alla Turchia che userebbe come testa di ponte l’emirato qatarino. Soprattutto accuse a quest’ultimo di sostenere il terrorismo islamico, e si gettava nel calderone da Qaeda alla Fratellanza Musulmana. Infine esplicito attacco ad Al Jazeera divenuta negli anni fonte d’informazione primaria nelle vicende mediorientali, additata quale motore delle Primavere arabe.

Lo scontro s’incarogniva anche sulla platea dei social per screditare il lavoro dello staff di Al Jazeera, finanziata certamente da Tamim Al-Thani, ma impegnata nella cronaca e nell’approfondimento geopolitico come poche altre televisioni al mondo. L’intento era screditarne la credibilità, sostenendone non solo finalità di parte, ma addirittura una falsità d’informazione. Una delle due voci ufficiali di Riyadh Sky New Arabia (l’altra è Al Arabya) dichiarava: “Il Qatar non è uno Stato, ma una piattaforma per Turchia e Iran e l’ufficio stampa di Al Qaeda”. Seguendo il protagonismo che lo contraddistingue Erdoğan non faceva mancare il sostegno allo Stato assediato. Nemmeno si trattasse dei palestinesi di Gaza all’epoca di Mavi Marmara, cercava di rompere l’embargo diventato addirittura alimentare. Il suo sguardo più che ai tre milioni di qatarini era rivolto al ruolo della minuscola ma ricchissima penisola del Golfo, sostenitrice d’un variegato Islam politico, propensa ad accettare una presenza militare turca sul proprio terreno (progetto ultimato nello scorso ottobre con una base che ospita 5.000 militari). Avveniva uno scambio: Al-Thani temeva azioni di forza dei sauditi e avere in casa reparti d’uno degli eserciti più strutturati del mondo poteva rappresentare un sollievo, almeno psicologico. Secondo scenario. Ciò che accadde il 2 ottobre 2018 al giornalista saudita Jamal Khashoggi, un tempo sodale di MbS e del suo capitalismo islamico, quindi divenuto un puntuto critico, è da commedia degli orrori. Entrato nel consolato saudita di Istanbul per chiedere un certificato di matrimonio (si sarebbe dovuto spostare con una cittadina turca) il giornalista ne sarebbe uscito tagliato a pezzi e fatto sparire in alcuni bagagli. La mattanza fu organizzata da Mukhabarat fidati vicini al principe, che trasferirono ‘il reparto dei macellai’ con un volo e lo fecero rientrare in patria. Il Mıt turco, che monitorava la struttura diplomatica sostenne di avere prove acustiche dello scempio, Erdoğan chiese di svolgere il processo in Turchia.

A contrasti e polemiche indirette, nei tre anni e mezzo, sono seguiti interessi geostrategici diretti. La smania militare di entrambi i leader ha dovuto fare i conti con il molto irrisolto saudita in Yemen, dove insiste l’altro incomodo dell’egemonia mediorientale, l’Iran. Mentre la competizione con la Russia nel caotico bagno di sangue siriano, ha visto gli eserciti esterni di Mosca e Ankara e quello interno di Damasco, accordarsi a danno della gente e del territorio autonomo del Rojava, soffocato e azzerato. Poi ci sono le economie. Alla continua ricerca di nuove e costosissime sfide quella saudita che insegue l’emancipazione dal ruolo di Stato redditiere, che fra l’altro la pandemia, col sensibile taglio della mobilità e della produzione globali, sta attualmente erodendo. Comunque il pallino della diversificazione era già il cuore pulsante della futuristica “Vision 2030” e dei suoi avveniristici derivati come Neom, la città ideale che stravolge millenni di natura matrigna. In terra turca la barcollante economia interna deve cercare d’invogliare finanziatori stranieri e costoro non possono essere solo cinesi, sempre più autosufficienti in ogni fase d’investimento. Dall’Occidente le chiusure aumentano in base ai passi strategico-militari proprio del presidente, cosicché gli analisti parlano esplicitamente d’un rischioso isolamento di Ankara. Del resto anche l’attuale quiete stabilita col Cremlino su questioni irrisolte: dove e con chi va la Libia, pone l’Erdoğan “economista” di fronte alla ricerca di alternative energetiche qualora i rapporti con Putin tornassero a incrinarsi. Sul gas russo i due autocrati hanno stipulato accordi e reciproci affari. Eppure… Il metano cercato nel Mediterraneo col piano ‘Mavi vatan’, quello azero che rilancia protezioni per il Karabakh, sono sprazzi di realismo che appartengono all’intuito e alla spregiudicatezza politica del presidente turco. Il punto d’incontro fra gli ex duellanti mediorientali passa anche da queste considerazioni. E dal fatto che il nuovo inquilino della Casa Bianca, più attento al tema dei diritti civili, potrebbe non vedere di buon occhio entrambi gli uomini duri. Così loro virtualmente s’abbracciano.

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