sabato 30 novembre 2019

Iraq: piazza, sangue e Sistani fanno dimettere il premier


Dopo due mesi di proteste represse nel sangue di quattrocento vittime il discusso primo ministro iracheno Adel Abdul Mahdi lascia l’incarico. Lo fa a seguito della predica del venerdì della massima autorità sciita del Paese, l’anziano ayatollah Ali Sistani, che ha “suggerito” al Parlamento di riconsiderare quel mandato. Forse una spinta ulteriore giunge anche dal furore con cui gruppi di dimostranti il giorno precedente hanno assaltato e incendiato il consolato iraniano a Najaf. Una furia geopolitica della gioventù sunnita che non sopporta l’ingerenza dei consiglieri iraniani nei confronti d’un governo a trazione sciita. In realtà Mahdi non appartiene a quella cinghia di trasmissione che in passato aveva prodotto come guida nazionale al-Maliki. Mahdi avrebbe dovuto mediare e proporre riforme, ma ormai testimonianze lo indicano prigioniero di consiglieri cooptati direttamente da Teheran, con l’uomo di ferro iraniano, il generale Soleimani, a far da sponda fra le due nazioni per tutto l’anno in corso. Eppure, per ora, il timore d’una spaccatura etnico-confessionale deve aver percorso la mente di un’autorità che conta nella copiosa componente sciita della società irachena: Muqtada al-Sadr, che col suo partito sosteneva il governo. Sadr, dopo la prima settimana d’una protesta che portava in strada anche i suoi ragazzi, s’era smarcato dall’appoggio a un Esecutivo sempre più traballante che ha cercato prima il contenimento della piazza,  usando l’arma di promesse vaghe, poi è passato all’uso delle armi per conservare un potere contestato su più fronti. Quello economico delle carenze addirittura alimentari, oltre ai servizi e  al lavoro. Quello delle libertà personali e collettive praticamente inesistenti, congelate da una politica divisa fra clan e ingerenze di potenze regionali, fino all’utopistica speranza giovanile d’un domani diverso da quanto è invece rimasto bloccato dall’occupazione statunitense all’attuale caos, che da tempo costituisce l’elemento più apprezzato dagli Usa in Medio Oriente.  
Non era solo la componente sciita, organizzata nel partito Sairoon, a sostenere l’impasse incarnato da Mahdi; anche i kurdi dell’amministrazione regionale nel nord iracheno lo volevano. Sicuramente irretiti dalla promessa di risolvere a proprio favore la questione delle quote estrattive del petrolio e dei proventi delle vendite in quella parte del Paese. Ma dalla ricchezza del sottosuolo le finanze nazionali, da anni, non forniscono conforto ai molteplici bisogni della popolazione che vive stremata in un sistema corrotto. Parecchi analisti ribadiscono che trovare un’alternativa di premierato oggi appare  impossibile. Una delle soluzioni poteva essere indire nuove elezioni e vedere se uno dei blocchi politici più consistenti fosse uscito dai seggi con appoggi maggiori tanto da lanciare un governo forte. Però con le città in rivolta, e il rischio di scontri interconfessionali ed etnici, l’ipotesi tramonta. Le cronache hanno fatto notare che proprio le ripetute presenze del responsabile della sicurezza iraniana a Baghdad - da lui giustificate come supervisioni per la sicurezza del suo Stato, in effetti agitato da contestazioni nel mese di novembre - avevano incrementato la linea durissima del governo sui manifestanti. Con decine le uccisioni nei giorni scorsi, anche facendo uso di cecchini, proprio com’è accaduto in alcune località iraniane. Intanto impazzano notizie, mezze notizie, informazioni segrete che sono rimbalzate sino ai grandi media internazionali su operazioni giocate, ciascuno sul suo versante dai “tutori” della situazione irachena: l’Intelligence statunitense e quella iraniana. Entrambe in azione nel gestire a proprio favore l’orizzonte dintorno. Conservando il caos per Washington e orientando il vicino e un tempo nemico establishment di Baghdad verso una sorta di tutela da parte iraniana, un po’ come accade per la Siria. E prima che l’Iraq, che pure dal 2003 non conosce pace e ha vissuto in casa il dramma Daesh, non scivoli in un simile fratricidio. Ma si tratta di tutele pericolose, animate da interessi di parte. Quelli che ricorrono dalla caduta di Saddam Hussein, che in fatto di manipolazione e oppressione del popolo ne aveva fatte tante e sporche.

mercoledì 27 novembre 2019

L’Iran della vera gente fra propaganda e disincanto


Abbasso gli autori della sedizione ha gridato la vera gente. La “vera gente” secondo il portavoce del ministero degli Esteri iraniano è il popolo fedele alla Guida Suprema, all’apparato dei basij che nei giorni scorsi ha spazzato il Paese e spezzato la protesta in maniera decisa. Il governo ha ammesso venti decessi (compresi quelli di due agenti) nel corso degli scontri seguiti ai raid contro stazioni di polizia e banche sviluppatesi da nord a sud; Amnesty International aveva denunciato duecento vittime. Forse i morti sono la metà, la conta fra un regime che insabbia e un’opposizione che accresce i numeri della repressione risulta ondivaga. Di fatto vari apparati istituzionali e politici a Teheran ammettono il malcontento dopo l’aumento del prezzo del carburante, che è solo la punta dell’iceberg di quel che parecchia gente non sopporta più. Già, ma chi sono costoro? Gli sbandati che seguono la linea antiraniana, secondo l’agenzia Irna. Mentre la gente perbene, pensa altro. Eppure anche una fetta di quest’ultima menzionata dal governo - dunque anche da quella presidenza Rohani un tempo speranza di riforme, di mutazione d’indirizzo dallo strapotere della componente più conservatrice che ruota attorno a certi anzianissimi ayatollah - constata che trasformazioni positive non se ne vedono. Anzi. Sulla condizione femminile, sulla libertà di espressione e critica, sui diritti civili, l’aria che tira è più o meno quella respirata all’epoca di Ahmadinejad. Quando una parte del partito dei Pasdaran appoggiava il sogno laico dell’ex presidente di ridurre l’ingerenza di Khamenei sulle scelte politiche, non per mutare orientamento ma per acquisire più potere.
Fu la fine non solo di Ahmadinejad, che concludeva con due mandati la sua presenza nelle stanze della politica che conta, ma anche di un distacco fra clero tradizionalista e militari. Le due lobby si sono trovate riunite di fronte alla rinnovata sfida innovatrice che riversava i voti sul diplomatico Rohani, anziché su candidati alla Mousavi messi fuorigioco dal peso dell’apparato repressivo. Eppure l’amministrazione Rohani, che non poteva certo gestire la nazione contro i pareri vincolanti della Guida Suprema e dell’organizzazione della forza gestita dalle Guardie della Rivoluzione, non ha raggiunto i risultati favorevoli sperati col clamoroso accordo sul nucleare iraniano. Il terribile embargo che soffoca l’import-export e che doveva cadere dopo quella firma non è mai finito, ha assunto i contorni subdoli delle molteplici difficoltà di transazione attuate dagli organismi mondiali della finanza tutti in mano a quell’Occidente che vuol colpire il regime di Teheran. Quindi, nel maggio 2018, Trump ha riportato la situazione indietro di dieci anni. Eppure il mantra del capitalismo mondiale, del nemico sionista che assedia il Paese della Rivoluzione Islamica non ha più la presa degli anni Ottanta sulla popolazione. O perlomeno sulla gioventù, non importa se urbana o rurale, che si pone in ottica diversa dalla “gioventù del fronte” che difendeva la patria contro l’invasione di Saddam. Sebbene l’apparato militare iraniano continui a difendere gli oppressi sciiti in vari angoli mediorientali, ma a farlo sono fedeli non solo del martire per eccellenza, Hussein, ma di quell’organismo politico, uno Stato nello Stato, che dall’epoca khomeinista detta legge nella vita interna.
Peraltro, come ogni comunità sa, le spese militari pesano sul Pil nazionale e un’economia vacillante, in un Paese con fasce di popolazione prevalentemente giovanile, oggi disoccupata a più del 30%, fa già fatica a tenere in equilibrio bisogni e aspirazioni. Proprio perché assediato da un panorama geopolitico avverso, l’Iran necessiterebbe d’un establishment più favorevole all’ascolto dei suoi tanti volti e non convinto della giustezza di modelli che appartengono al vincente passato, ma non per questo eterni. E’ assolutamente vera, in carne e ossa, quella gente che lamenta un’inflazione che vola al 40% e oltre. E il commercio che ha avuto nei famosi bazari un’arma potente nell’organizzazione prima l’opposizione alla dinastia Pahlavi, poi il sostegno al sistema khomeinista, da questa guerra economica lamenta danni irreparabili. Molti piccoli e medi imprenditori vedono ferme le proprie attività, chi può vola all’estero, ma non è facile per chi non ha prossimità con l’apparato di potere. Del resto i mercanti vicini alle bonyad istituzionali vedono gli affari garantiti da commesse preconfezionate, seppure tarate da tangenti e corruzione. E’ l’altro mercato a soffrire maggiormente e il suo mugugno cresce. Anche tutto l’indotto del turismo, che proprio la distensione dell’accordo sul nucleare del 2015 aveva avviato, risente del clima internazionale e della precarietà socio-politica con cali consistenti. Uno straziante circolo vizioso che porta tanti iraniani a guardare all’estero e svuotare il Paese d’una rivoluzione che, come altre, appare tradita.

martedì 26 novembre 2019

Libano, la cecità della politica


La speranza e la paura sembrano viaggiare a fianco nel Libano ribelle. Il primo sentimento è risuonato sin dai primi passi della protesta, nata per una tassa sulla messaggeria Whatsapp presa da molti ragazzi come un’usurpazione e per i meno abbienti per uno dei tanti balzelli del governo Hariri. Quindi giorno dopo giorno, a nord e a sud, sunniti, maroniti, drusi, sciiti alzavano la voce contro il sistema della spartizione che accontenta etnìe e partiti, non una larga fetta della popolazione. Quella che inevitabilmente appartiene all’uno o all’altro fronte, ma non necessariamente a un clan e dalla stessa militanza - come avviene in tutto il mondo - osserva come non ci sia parità di vantaggi. Nel tuo stesso gruppo, nel tuo partito puoi scoprire che c’è chi trascina il carro e chi ci sta comodamente seduto. Per questo la protesta, nel dolce autunno libanese che sa di primavera, ha chiesto le dimissioni di Hariri junior e il superamento della partizione del Paese, col suo meccanismo delle quote che doveva aiutare a superare gli asti della guerra civile e il liberismo sfrenato di Rafiq Hariri, sgradito alla parte povera della popolazione. In realtà quest’orientamento non è mutato, a tal punto da incrementare divari sociali. Certo, le bandiere gialle di Hezbollah, un tempo nemiche giurate del clan Hariri (tanto da essere sospettate dell’attentato del 2005 in cui il capostipite venne assassinato), accrebbero rispetto e peso grazie al contributo alla resistenza armata contro la seconda invasione di Israele, quindi con ‘la dimostrazione’ del 7 maggio 2008, quando i suoi reparti paramilitari esibirono kalashnikov, squadre e tattiche di controllo delle maggiori città libanesi, mettendo in crisi lo stesso esercito e i politici che da quel mondo provengono. Uno di questi è l’attuale presidente Aoun, ex generale auto esiliatosi per tutti gli anni Novanta e rientrato in Libano nel caldo 2005. Durante il critico biennio seguente, già si proponeva come Capo di Stato, ma non avendo appoggi da maroniti e sunniti guardò al fronte sciita.
Una vicinanza che s’è consolidata nel tempo quando, pur presente nell’agone politico quale capo del Movimento Patriottico Libero, nel 2016 venne eletto presidente della Repubblica. Fu uno sblocco collettivo cui contribuì la leadership d’ogni etnìa coi partiti di riferimento. Ora, pur sotto la storia recente legata a spettri noti: l’ingerenza armata israeliana e siriana, e quella più subdola di aiuti esterni sauditi e iraniani, indorati da finanziamenti bancari e missilistici, oltre alla presenza di profughi (non più solo il quattrocentomila palestinesi, ma i quasi due milioni di siriani) la vita ordinaria libanese sembra soffocare per la cecità della classe politica. L’ottimismo di stirpi che ne hanno viste tante chiede a essa, a certi politici di farsi da parte, di far circolare speranze e progetti nuovi. Ma quel che accade in queste ore, rinnova visioni “rassicuranti”, cercate da alcuni nell’inneggiare alle Forze Armate, rimaste peraltro finora lontane da qualsiasi frenesia di protagonismo e tantomeno di volontà repressiva verso i manifestanti oppure creare spaccature fra quest’ultimi. Questo l’atteggiamento di chi li pensa oggetto di speculazioni alimentate dall’esterno, come fa il leader del Partito di Dio Nasrallah oltre agli alleati del gruppo Amal. Diventano costoro i più rigidi assertori della conservazione d’un sistema che non va archiviato per non offrire il fianco ai nemici. E quando com’è accaduto domenica notte a Tiro, le tende della protesta antigovernativa vengono attaccate e incendiate da attivisti delle due fazioni che inneggiano a se stessi, alla propria forza, alla loro egemonia sul Libano di oggi e di domani riappare una regìa settaria che rischia di risultare controproducente per la popolazione. L’egemonia che Hezbollah è riuscita a sviluppare sulla scena interna, assai più dei chiusi orizzonti di Amal, era basata sull’autorevolezza d’un patriottismo unitario, sull’attenzione all’azione sociale, sulla lungimiranza d’una politica che deve evitare l’isolamento. Bollare il malcontento popolare come reazionario, soffiare sul fuoco della polarizzazione non sembra una mossa garantista neppure per il potere. Può solo riavviare il distruttivo tribalismo politico già conosciuto, e prestare il fianco a vere ingerenze mai morte.

sabato 23 novembre 2019

Turchia, taglia sul 'golpista' Dahlan


Criminale in lista rossa. Così il quotidiano turco Daily Sabah indica l’ex responsabile della sicurezza di Fatah il palestinese Mohammad Dahlan. Il politico, espulso dal partito sin dal 2011 con l’accusa d’aver provocato la morte di Arafat, ebbe un braccio di ferro col leader dell’Autorità Nazionale Palestinese Mohamoud Abbas, contro il quale avrebbe tramato. Da quel momento ha scelto l’esilio volontario negli Emirati Arabi Uniti, anche per non incorrere nelle sanzioni dell’ANP. Ora la politica turca, nella persona del ministro degli Interni Soylu (e certamente nell’onnipresente presidente Erdoğan, ispiratore d’ogni mossa di Ankara) l’addita come uno dei punti di riferimento del movimento gülenista Fetö per il tentato golpe del 2016. Nella fattispecie Dahlan avrebbe trasferito fondi a quel gruppo. Inoltre, secondo l’agenzia d’Intelligence Mıt il palestinese sarebbe stato anche l’anello di connessione d’una rete di spie emiratine in Turchia, per attuare un piano d’Israele volto a destabilizzare Turchia, Iran e Qatar. Il ministro Soylu stabilisce il prezzo del “wanted” per Dahlan in 4 milioni di lire turche, circa 700.000 dollari. In realtà l’accusa da para golpista Dahlan l’aveva già ricevuta anni addietro, indicato come uno dei consiglieri stranieri di Al Sisi per quello che nel 2013 fu il “disarcionamento legale” del presidente egiziano Morsi.

Certo, si tratta di dietrologie mai provate, però frequenti nella vita di Dahlan definito dai detrattori ‘sicario’ per le torture fatte infliggere dai suoi uomini sui militanti di Hamas imprigionati e per alcune sparizioni di avversari interni. S’è fatto il suo nome perfino per il macabro omicidio del giornalista Khashoggi, avvenuto a Istanbul, dove appunto agirebbe una rete della Sicurezza delle due più fosche petromonarchie. (Arabia Saudita ed Emirati Arabi). Simili coinvolgimenti assumono contorni da spy story che, nei mesi immediatamente successivi al tentato golpe, ha fatto registrare sul territorio turco episodi inquietanti e misteriosi: dall’assassinio dell’ambasciatore russo nel dicembre 2016, all’attentato di Capodanno al Club Reina. Una sequenza che può avere più regie e vedere Dahlan nel ruolo di ennesimo nemico della nazione da agitare per confermare l’estensione ad libitum della linea securitaria di Erdoğan. Di fatto Ankara, per inseguire avversari reali o presunti, lancia da mesi taglie milionarie da far riscuotere a chiunque aiuti le Forze dell’Ordine a colpire il terrorismo diffuso. Ma più dell’imprendibile volpone Dahlan, l’obiettivo resta quello di oppositori interni, kurdi e non, oltre ovviamente a giornalisti e intellettuali. Il caso Altan è eclatante, l’ultimo verso cui la Turchia attua la linea dello ‘stop end go’ carcerario, proprio come fa Sisi che di pratica repressiva se ne intende. Con o senza l’aiuto di mister Dahlan.

martedì 19 novembre 2019

Afghanistan: Ghani libera tre taliban per il suo posto al sole


Lo scambio di prigionieri: due professori dell’Università americana di Kabul sequestrati tempo addietro dai taliban e condotti probabilmente in Pakistan, in cambio di tre comandanti della rete di Haqqani (Anas Haqqani, Mali Khan, Hafiz Rashid) detenuti nella prigione di Bagram, viene presentato da Ashraf Ghani come un passo utile alla “sicurezza del Paese”. Forse produrrà qualche attentato in meno, ma non è affatto certo. Potrebbe introdurre, e da una porticina di servizio, il presidente afghano nei colloqui fra Stati Uniti e talebani. Ma questo avverrà se l’intera Shura di Quetta, dunque non solo il clan Haqqani, ne accetterà la presenza. Per mesi i turbanti che, sotto la regìa di Khalilzad, hanno trattato a Doha e a Mosca con ambasciatori di Trump e Putin e i capi dei rispettivi Servizi, hanno negato al governo di Kabul presenza e ruolo. Tanto che Ghani s’è attaccato all’unico percorso di riconoscimento per lui possibile: un’ennesima tornata elettorale. Non gli è andata malissimo. Il 28 settembre le elezioni si sono tenute, seppure limitate nella partecipazione (20% di elettori), numero di seggi aperti (2000 reali rispetto ai 5000 dichiarati), classiche accuse di brogli da parte del concorrente e alter ego alla presidenza Abdullah. In piccolo un remake delle presidenziali del 2014, allora concluse con l’investitura di entrambi in cariche distinte: presidente e premier.
Cariche che contano solo nei consessi esterni al Paese, anzi, com’è accaduto per l’apertura politica statunitense ai talebani, non nei contesti più significativi che disegnano un domani che abbandona il modello del passato. La speranza di Ghani, davvero una virtù ultima a morire, di reinserirsi nel patteggiamento sul futuro afghano assume i toni della ricerca della benevolenza dei nemici. Un passo da realismo disperato che presuppone l’accettazione del nuovo assetto istituzionale, atto a riportare un buon pezzo della famiglia talebana in quella Kabul da cui era stata espulsa dall’invasione statunitense. Nonostante la narrazione della stampa mainstream non sono mai stati spazzati via dalle 36 province afghane, lo testimonia la tragedia dell’Enduring Freedom, quindi Isaf, negli ultimi anni Resolute support “missioni di pace” che non hanno sconfitto i talebani, né hanno formato un esercito locale. Hanno solo mantenuto la macchina bellica Nato (che ha comunque gettato al vento l’esistenza di suoi 3.232 militari) con oltre 1000 miliardi di dollari ufficialmente spesi (secondo fonti alternative la cifra raddoppia). Mentre la nazione dell’Hindu Kush diventava un enorme cimitero: 140.000 i morti, secondo le cifre Onu, ovviamente limitate dalla precarietà delle statistiche sul campo. Quest’esercito di cadaveri conta una buona fetta (50.000) di vittime talebane che si presentano come resistenti, 30.000 morti fra i militari afghani e almeno 50.000 vittime civili. Su questa necropoli proseguono i balletti di potere e Ghani cerca di conservare il suo posticino al sole. Un sole grondante di sangue. 

domenica 17 novembre 2019

L’aumento del carburante incendia l’Iran


Il prezzo del carburante iraniano è fra i più bassi del mondo, ma l’aumento deciso dal governo, guidato dal presidente riformista Rohani, sta infiammando gli animi e le strade. In molte città, compresa la capitale, da venerdì pomeriggio giovani, e non solo, hanno bloccato il traffico, acceso copertoni, gridato slogan contro il potere. Si sono anche scontrati con la polizia e ci sarebbero alcune vittime. Per ora l’agenzia interna Isna cita un morto a Sirjan, nel Kerman (centro-sud del Paese) ed era già noto il decesso d’un poliziotto, colpito durante un attacco a un commissariato. Dai social, che venerdì e sabato mattina avevano diffuso immagini e video degli scontri, non s’apprende di più nulla dopo il blocco imposto dal sistema di sicurezza informatica. Insomma la benzina da qualche giorno costa 15.000 rials, non impressionino gli zeri poiché l’inflazione monetaria è altissima a causa dell’antico embargo sul nucleare, quello in vigore dai tempi della presidenza di Amadinejad che neppure l’accordo fra Rohani e Obama era riuscito a cancellare.

In occasione del secondo mandato presidenziale per il chierico riformista nel 2017, si sperava che la situazione delle transazioni finanziarie internazionali che penalizzano fortemente l’economia iraniana, potesse normalizzarsi, ma la salita alla Casa Bianca del presidente dei dazi e dello scontro muscolare non ha giovato alle speranze di Teheran. Anzi. Ora quel governo per sostenere, a suo dire, la condizione dei ceti più poveri (che sono aumentati per un’economia in fortissima frenata) ha pensato di aumentare il costo d’un genere di consumo diffusissimo per trasporti e vita quotidiana (gli idrocarburi). L’incremento, che farebbe sorridere i consumatori di tante nazioni (sei centesimi di dollaro), diventa esplosivo in Iran. Infatti l’attuale corrispettivo dei 15.000 rials, tredici centesimi di dollaro, comporta pur sempre un aggravio del 50% del prezzo finale. Da qui le proteste generalizzate che s’inseriscono in un contesto di diffuso malcontento e in pregresse contestazioni avvenute proprio nel tardo autunno di due anni or sono.


Sebbene all’epoca sembrarono pilotate dal chierico conservatore Raisi, il concorrente di Rohani alla massima carica politica (Guida Suprema a parte) sconfitto nelle elezioni del maggio. Proprio Ali Kamenei, riunendo ieri chierici e commentando gli avvenimenti di queste ore, ha puntato il dito contro i ‘sabotatori’ esterni ed interni, definendoli banditi. Il discorso, trasmesso dalla tivù di Stato, ha cercato d’imbonire la popolazione spiegando che gli esperti di finanze ed energie prendevano questa decisione che consentirà di raccogliere annualmente 2.5 miliardi di dollari da destinare ai settori popolari maggiormente bisognosi.  Però diversi strati della popolazione, già da tempo critici verso le copiose spese militari imposte dalla geopolitica della nazione impegnata nel confronto-scontro con la monarchia saudita, dovranno fare i conti anche col pesante taglio di approvvigionamenti di carburante passati da 300 a 60 litri mensili. E i tafferugli di strada, che per ora la cittadinanza moderata osserva senza partecipare, assieme a tutto il contorno di un’emergenza economica cronicizzata potrebbero avere un peso per il futuro. 

giovedì 14 novembre 2019

Pakistan, deobandi in strada


Si attivano anche le piazze pakistane. In questa fase le strade, dove da due settimane il capo dell’Assemblea dei chierici islamici, nonché leader del partito JUI-F, Fazl-ur Rehman sta guidando un sit-in di protesta contro il governo. Così in migliaia gli aderenti al gruppo hanno bloccato la più importante autostrada verso la capitale. Ora il chierico afferma che entra in vigore una successiva fase di cui non è stato esplicitato il tipo di contestazione, l’obiettivo sì: far dimettere il premier Imran Khan. In un discorso pubblico Rehman tramite metafore ha parlato di attacco alle radici del sistema, mentre ora si passerà a sezionaren il tronco. Sic! Il suo gruppo nella protesta sta usando grandi camion articolati per le merci, trovando evidentemente l’appoggio dei trasportatori del settore, ne scaturisce un blocco quasi totale della comunicazione su gomma in varie zone del Paese. Ad esempio risulta paralizzata l’autostrada fra Quetta e Chaman e con essa la direzione verso l’Afghanistan, oltre all’afflusso di generi di consumo principalmente alimentare. Accanto ai lavoratori dei trasporti in cui Jamiat Ulema Islam-Fazl, che ha comunque un limitata rappresentanza parlamentare (15 seggi su 272), sta raccogliendo consensi per il dissenso antigovernativo, il gruppo ispirato al fondamentalismo deobandi ha un buon seguito fra insegnanti e studenti. Poiché quest’ultimi sono studenti coranici, il rapporto con chi si estremizza e abbraccia il Jihad armato non è automatico, ma è possibile. I grandi partiti pakistani, la Lega Musulmana e il Pakistan People Party, pur in contrasto fra loro hanno annuito alla protesta senza parteciparvi. Il fatto che sia colpito il Movimento per la giustizia di Khan gli fa gioco, ma finora restano a guardare.

Rehman accusa il primo ministro d’aver prevalso nelle contestate elezioni del 2018 grazie all’aiuto dell’esercito, da sempre il convitato di pietra della politica nazionale. L’altra eminenza grigia è l’Isi, l’agenzia dell’Intelligence interna. Potrebbero esser queste, in tutti i sensi, le armi dell’ex campione di cricket salito ai vertici della politica “per pacificare la nazione”. Certo la contraddizione risulterebbe palese, ma occorrerà vedere quali saranno i livelli del conflitto. Poiché i manifestanti non hanno accettato gli incontri proposti dal premier, ribadendo la linea delle dimissioni e di nuove elezioni; lui interdice alle proteste l’area istituzionale di Islamabad, dove cinque anni addietro guidò un sit-in durato oltre quattro mesi. Per ora il barricadero Rehman non s’è inimicato l’esercito, in fondo non gli conviene, ne ha definito errate alcune prese di posizione. Le stesse critiche alla situazione economica nazionale non hanno davanti un quadro devastante: l’economia indubbiamente rallenta anche lì, dati del Fondo Monetario indicano una flessione dal 3.3 al 2.4 Pil, poi si sono stagnazione nel lavoro e inflazione a doppia cifra, seppure in quote simili ad altre nazioni (11.4%). Il braccio di ferro è prevalentemente politico, anzi ideologico. Troppo laico, troppo borghese Khan agli occhi dei fautori dell’Islam puro deobandi. Proprio l’ispirazione al padre della nazione pakistana Ali Jinnah, che a sua volta pensava per il Pakistan indipendente un modello simile alla Turchia kemalista, non rientra certo nella visione deobandi, molto conservatrice legata al cosiddetto Taqlid, ogni genere di tradizione tramandata nei secoli. Il sunnismo deobandi è seguìto nel Paese da un quarto della popolazione, oltre cinquanta milioni di pakistani, che magari non manifesteranno tutti per via, ma son molti di più degli aderenti al partito di Rehman, e nel globalismo della politica confessionale un suo possibile incendiario serbatoio.  

lunedì 11 novembre 2019

Iraq, il bagno di sangue dei ragazzi del Tigri


Mentre nel Kurdistan iracheno venivano gravemente feriti cinque militari italiani dall’esplosione di uno Ied, a Baghdad prosegue la mattanza della gente. Ieri sei vittime per le strade che dall’inizio delle proteste, il 1° ottobre, raggiungono quota 319 con 15.000 feriti. Immagini d’agenzia al vaglio delle forze dell’ordine mostrano persone in borghese che sparano ad altezza d’uomo, aspetto confermato dai sanitari intervenuti a presta soccorso ai feriti: in genere i colpi d’arma da fuoco mostrano una traiettoria orizzontale, altri fori, quelli degli spari dei cecchini, provengono dall’alto. Il portavoce militare ha affermato che si sta indagando sugli sparatori in borghese, parecchi manifestanti non hanno dubbi: si tratta di elementi infiltrati dalla stessa polizia, visto che agiscono indisturbati al loro fianco. L’intento è diffondere paura e morte, di far rientrare la popolazione nella case, di rilanciare l’insignificante esistenza quotidiana priva non solo di prospettive e lavoro, ma sempre più anche dei generi di necessità primaria, cibo e acqua compresi. Una caduta libera prodotta dai fallimenti dei governi a conduzione sciita, con al-Maliki nel decennio 2005-2014, e ora con la discutibile alleanza fra il chierico Muqtada al-Sadr e Hadi al-Amiri, capo dell’Organizzazione Badr, un organismo più paramilitare che politico. Il tutto maldestramente celato sotto la premiership di Abdul Mahdi, un ex comunista passato negli anni Ottanta all’islamismo khomeinista.
E’ proprio contro la camaleontica casta politica che ha mutato millanta colori e bandiere che protesta da quaranta giorni la cittadinanza irachena, perché essa ha depredato il Paese, giocando sulla divisione etnica e confessionale e lasciandolo in un comatoso abbandono nonostante le invidiabili risorse petrolifere. Queste restano appannaggio dei colossi dell’estrazione mondiale cui gli amministratori statali forniscono contratti e incamerano capitali senza curarsi di reinvestire in opere pubbliche le risorse ricavate. E’ la piaga di tante nazioni controllate da dittature mascherate da democrazie parlamentari, con l’aggiunta per l’Iraq del passaggio dalle manìe di grandezza di Saddam Hussein, procacciatore di disastrosi conflitti, all’invasione “liberatoria” statunitense. Dal conseguente caos, che peraltro la Casa Bianca (non fa differenza se a trazione Repubblicana o Democratica) incentiva da tempo come sua politica strategica nel Medioriente, ne consegue l’ingresso degli interessi più vari: l’egemonia iraniana indirizzata a più realtà regionali e contrapposta a  quella saudita, i piani del sedicente jihadismo prima di Al Qaeda, ora dell’Isis. Quest’ultimo col defunto al-Baghdadi mirava a un insediamento territoriale, il famoso Califfato del Daesh. Tutta questa macropolitica, seminatrice di morte e terrore, si mescola alla conduzione del quotidiano, finora svolto sotto quel disegno o quell’altro padrino-padrone.
I ragazzi del 2019 questa realtà la conoscono, ma non l’hanno scelta. Se è per questo non l’hanno scelta e la subiscono anche le famiglie di provenienza, sciite o sunnite poco importa, per non parlare delle minoranze yezide, zoroastriane e spesso pure cristiane. Ovviamente fuorigioco, in tali divisioni confessionali del potere, anche i laici, i kurdi ne sanno qualcosa. Laddove quest’ultimi si sono ricavati, pur sotto ricatti e compromessi della propria locale leadership clanista, un territorio autonomo, il resto è una nazione che non c’è. Tenuta su da una cricca in combutta con l’economia internazionale degli idrocarburi, così le compagnìe occidentali dei petroli fanno affari e la cricca si spartisce i guadagni dello Stato redditiere. Di contro alcune decine di milioni di persone (il censimento del 2015 assegna all’Iraq 37 milioni di abitanti) arrangiano la vita nella sfacelo dintorno. Eppure nei collegamenti diffusi in questi giorni drammatici da network come Bbc e Al Jazeera appaiono scorci anche gioiosi. La gioventù che protesta e crepa tanto somiglia, non solo nei tratti somatici, ai ragazzi conosciuti nelle piazze egiziane e tunisine. Giovani che inseguono il sogno di vivere non di sopravvivere. Già sopravvivono alle carenze strutturali e alle armi da fuoco con cui i clan potentati cercano di stroncarne i palpiti di rinnovamento. Loro corrono, s’agitano, discutono e trovano pure il tempo per suonare un clarinetto. I vecchi e nuovi signori del terrore omologato per ora non li hanno schiacciati. Ma chi aiuta i ragazzi del Tigri a scalzare un potere che vuole perpetuarsi?   

domenica 10 novembre 2019

Militari italiani in Iraq: una gamba per difendere la Difesa


Ci rimettono chi una gamba, chi un piede, altri hanno ferite meno gravi. Riportano a casa la vita, ma a quale prezzo. Sono i cinque militari italiani (tre incursori della Marina, due parà) colpiti da uno Ied a Palkan, a sud di Erbil, nel Kurdistan iracheno. Appartengono alla missione ‘Prima Parthica’ che dal 2014 concentra un buon numero degli attuali 868 appartenenti all’operazione a preservare la diga di Mosul, sul fiume Tigri, mentre duecento addestratori sono impegnati a Baghadad e a Erbil. E’ il tragico epilogo di un pattugliamento in un’area controllata dai ‘peshmerga’, i locali combattenti kurdi che ricevono supporto militare, logistico e addestrativo dalle forze Nato. Sebbene la zona sia sotto la loro giurisdizione, la cacciata e la rotta dei miliziani dell’Isis dai territori denominati come Daesh non esclude possibili loro infiltrazioni e ritorni. Se siano stati costoro a piazzare le bombe è tutto da verificare. L’uso degli ordigni esplosivi improvvisati (traduzione dell’acronimo Ied) in territori di guerra è da tempo appannaggio di combattenti d’ogni tipo, anzi la resistenza diffusa utilizza simili strumenti di fabbricazione artigianale che risultano particolarmente subdoli quando vengono, ad esempio, celati in utensili o camuffati in pietre. Proprio diversi militari italiani ne sono rimasti vittime durante la missione Isaf in Afghanistan. Uno degli episodi più gravi accadde nell’ottobre 2010, l’anno orribile degli scontri a fuoco con la resistenza talebana. Provocò la morte di quattro alpini del 7° reggimento Belluno, fulminati dall’esplosione di Ied nel distretto del Gulistan, nella provincia di Farah.
Il nostro Paese continua a inviare militari in un numero sempre crescente di missioni di polizia internazionale. Attualmente le operazioni sono 37 (quasi la metà concentrata nel continente asiatico) e contano attorno ai settemila soldati dislocati in ‘aree calde’. Alcune risultano di aperto conflitto: schieriamo 868 soldati in Iraq, 800 in Afghanistan, 300 in Libia. Altre manifestano tensioni alterne, come il Libano, dov’è il raggruppamento più corposo: la missione Unifil che impegna 1.134 uomini e donne in divisa e risulta fra le spedizioni più costose assieme a quelle di Afghanistan e Iraq. Seguono la missione in Kosovo con oltre 500 soldati, quindi interventi minori sotto il centinaio di unità e l’operazione “Mare sicuro”. Settemila unità in divisa sono impiegate nei pattugliamenti sul territorio nazionale, quelli che osserviamo presso luoghi sensibili (ambasciate, uffici pubblici, fino alle stazioni ferroviarie e dei metrò). Non tutte lasciano la medesima percezione nei luoghi dove sono effettuate, non tanto verso un nemico conclamato (com’è il caso dell’Isis), bensì sui civili locali in certi casi avvertiti come avversi. E da questi talvolta ricambiati, a conferma d’una visione univoca di tali operazioni. Nell’ultimo biennio i costi deliberati dal Parlamento italiano per le missioni militari nel mondo sono cresciuti. Nel bilancio 2019 ammontano a un miliardo e quattrocento milioni di euro, con oltre un miliardo per la voce militare e 370 milioni di spese amministrative e di supporto. Una tendenza in esplicito rialzo che, al di là della partecipazione a piani politico-militari soggetti ai continui ordini dell’alleanza Nato, diventano l’alibi e un oggettivo puntello per conservare un apparato di difesa che - come sottolinea il Rapporto Milex sulle spese militari - risulterebbe non sostenibile.

mercoledì 6 novembre 2019

Štajerska Varda , cacciatori di migranti


The game, come profughi e rifugiati di tutte le rotte definiscono il passaggio oltre il confine, acquisisce ulteriori players. Siamo nell’area slovena, quindi entro i confini dell’Unione Europea, dove Lubiana e dintorni sono approdati da un quindicennio. Qui possono, potrebbero filtrare i protagonisti della nuova rotta balcanica che s’è aperta dallo scorso anno, ma dopo le repressioni del 2015 questa gente ha trovato blocchi eccezionali, oltre a filo spinato, cavalli di Frisia, pattugliamenti finanche dell’esercito. Attualmente i miseri parcheggi della speranza sono collocati in Bosnia. Bihać è il purgatorio di chi sogna di volare nel paradiso europeo, ma trova i suoi inferi fra il fango e la precarietà dei campi che tracimano incerte esistenze che s’accumulano, un giorno via l’altro. Perché le terre di provenienza dei dannati: Afghanistan, Iraq, Siria, Iran nel miglior caso rappresentano luoghi scomodi oppure vere aree di tormento e dolore. Il gioco dei fuggiaschi è beffare chi dà loro la caccia, che non sono più solo i poliziotti bensì milizie paramilitari. Per ora il governo di Lubiana nulla dice della sua Štajerska Varda. Volendo, su questo fronte purtroppo nulla di nuovo.

Il laboratorio del radicalismo sovranista europeo che rincorre la purezza della “razza” aveva trovato nel governo ungherese del premier ultraconservatore Orbán la tolleranza verso gli esperimenti del partito Jobbik. Di per sé condiscendente verso ideologie neonaziste e antisemite, questo raggruppamento sull’onda del successo elettorale del 2014 (con oltre il 20% dei consensi) attrezzò una milizia paramilitare molto zelante nell’estate 2015, quella del grande flusso migratorio attraverso i Balcani, nel dar la caccia con ogni mezzo a migranti e rifugiati. E’ di quel periodo la creazione dei 175 chilometri di sbarramento lungo il confine serbo atto a impedire ingressi di clandestini che Orbán e il suo partito Fidesz osannavano come difesa del patrio suolo e delle radici ungheresi dalla pericolosa invasione migratoria. Un comportamento che l’Unione Europea ha subìto, come continua a subìre i dinieghi di suoi membri (soprattutto il gruppo di Visegrád) ad accogliere nei propri Paesi quote di extracomunitari. Fra le nefandezze cui il Parlamento di Bruxelles soggiace c’è appunto quella di gruppi paramilitari che agiscono col consenso dei governi delle nazioni d’origine, bande armate illegali che non hanno ragione di esistere e contro i quali vanno diffuse informazione e mobilitazione.

lunedì 4 novembre 2019

Elezioni afghane, mistero truffaldino


Che fine hanno fatto le presidenziali afghane? Si sono arenate nei conteggi. La Commissione Elettorale Indipendente ha diffuso i numeri dei voti validi che ammontano a 1.843.107 sull’iniziale quota di 1.929.333. La tendenza evidente già in prima battuta era il crollo della partecipazione scesa a poco più del 20%, visti i circa 10 milioni di potenziali elettori. Ora sono state cancellate 86.000 preferenze giudicate errate o false, in che modo ci sarebbe da scoprirlo, visto che gran parte dei presunti cinquemila seggi adottavano il sistema di controllo biometrico per chi si recava alle urne. Uno dei candidati in corsa per la presidenza, il premier uscente Abdullah, ha innescato l’ennesima polemica con la commissione per la presenza di 137.000 voti, inizialmente posti in quarantena per sospetti vari d’irregolarità, e successivamente conteggiati. Questi voti potrebbero rientrare fra quelli giudicati nulli, però resta sempre una sperequazione di 50.000 voti che dopo uno stop iniziale sarebbero risultati buoni. Secondo i collaboratori di Abdullah il blocco dei 137.000 voti sospetti sarebbe giunto alla Commissione fuori tempo massimo, il giorno seguente la chiusura dei seggi. Il gruppo di sostegno al premier - che già nel 2014 contese a Ghani il massimo incarico nazionale, con tanto di contestazioni, minacce di spaccature del Paese e anche peggio - ritiene che i voti da invalidare raggiungano la quota di 100.000. Un buon 5% che non depone a favore di tutta la tecnologia adottata proprio per evitare contestazioni sull’arretratezza dell’efficacia delle operazioni. Da parte di Ghani si sostiene che se una falla iniziale c’è stata, essa è stata sanata dal successivo intervento della Commissione. Con l’aria che tira, il pronunciamento del voto può di certo produrre contrasti polemici, sebbene non saranno quest’ultimi a minare una sicurezza ampiamente claudicante.

Nonostante il clima di paura d’essere coinvolti in attentati che ha tenuto lontani dalla delega tanti cittadini, è l’intero sistema ad essere stato contestato con la pratica dell’astensionismo. Come accade in altre pseudo situazioni di “normalità” sostenute da governi fantoccio e dai burattinai dell’appoggio internazionale, non recarsi alle urne ha sancito il radicale distacco nel Paese fra la sua gente che muore fra attentati, bombardamenti repressivi, carenze di aiuti e i potentati al governo, gli accaparratori di fondi e loro alleati che sottraggono quelle risorse agli strati più bisognosi. Stanco d’essere massa di manovra e di accrescere il flusso di migrazione forzata oppure di arruolamento, egualmente indotto dalla miseria, fra le fila dell’esercito o dei gruppi jihadisti, il popolo afghano che non accetta la farsa s’è tenuto lontano dai seggi. Abbiamo ascoltato sul tema il parere di Selay Ghaffar, portavoce del partito Hambastagi. “E’ stata enfatizzata la partecipazione femminile che, invece, rientra nella media, una media piuttosto bassa. I seggi dovevano essere fra i 4000 e i 5000, in realtà sembra siano stati 2000, sebbene ciò non risulti dai dati statistici che mantengono il profilo ottimistico della propaganda. Noi di Hambastagi abbiamo sostenuto il boicottaggio, non solo per ragioni di sicurezza, ma per ribadire la crescente coscienza fra la cittadinanza che ormai comprende d’essere solo sfruttata da personaggi improponibili, criminali come Hekmatyar che dovrebbero stare in galera non concorrere alla guida del Paese. Abbiamo assistito al filone ritrito dell’uso dell’etnìa per sostenere questo o quel candidato, abbiamo visto quest’ultimi sbugiardarsi pubblicamente, accusandosi d’essere signori della droga o asserviti alle Intelligence pakistana oppure iraniana. Purtroppo è tutto vero, com’è vero che gli Stati Uniti influenzeranno la sedicente Commissione Indipendente a dichiarare eletto il candidato che si mostra più accondiscendente al progetto americano”. Così, ancora una volta.