venerdì 29 aprile 2022

Erdoğan-bin Salman, un vantaggioso abbraccio

Dalle foto l’abbraccio risulta meno caloroso di altre occasioni, però c’è stato, chiudendo tre anni e mezzo di contrapposizioni e tensioni, almeno sulla carta. Ha unito in un corpo solo Recep Tayyip  Erdoğan e il principe bin Salman con buona pace della consorte turca del defunto - perché assassinato - Jamal Khashoggi. La vicenda del giornalista, un tempo vicino alla casa saudita, quindi suo feroce oppositore tanto da dover riparare Oltreoceano per non finire in galera, aveva scosso il mondo e offeso la Turchia. L’uomo entrò il 2 ottobre 2018 nella sede del Consolato saudita di Istanbul per ritirare documenti del suo divorzio che sarebbero serviti per il matrimonio con la cittadina turca Hatice Cengiz. Da quel luogo non sarebbe più uscito. In più la polizia di Ankara ricevette, da fonti rimaste sempre anonime, indicazioni di un efferato omicidio. Una squadra di mukhabarat e specialisti forensi sarebbe volata da Riyadh a Istanbul, raggiungendo il consolato mentre Khashoggi era all’interno. L’avrebbe aggredito e smembrato sotto la direzione di Muhammed al-Tubaigy, specialista prima che di sezionamenti di truculenti omicidi, con divisione del corpo in valigette e cremazioni in loco coperte da strani barbecue di cui parlarono cittadini che vivevano nei pressi della sede diplomatica. Insomma una storia d’orrore e un intrigo senza pari. Ma i sospetti, diventati addebiti da parte turca contro la petromonarchia, che alimentarono polemiche e rottura di relazioni, non furono mai provati. Certo, il Mıt (l’Intelligence turca) sosteneva di possedere registrazioni vocali dell’atroce supplizio patito dal giornalista, ma nessun tribunale interno o transazionale approfondì la vicenda. In seguito funzionari sauditi parlarono “d’un interrogatorio finito male”, smentendo di fatto il principe che aveva dichiarato come Khashoggi fosse uscito dal consolato sulle sue gambe. Il tempo ha sgonfiato le polemiche, la pandemia di Covid ha tenuto per alcuni mesi i leader mondiali chiusi nei Palazzi, evoluzioni e involuzioni geopolitiche propongono nuovi scenari connessi all’incubo che spesso ne determina le scelte: l’economia. 

 

Quella turca ha vissuto tempeste non da poco, con scelte orientate direttamente dal presidente in opposizione ai ministri delle Finanze, ne sono susseguiti quattro in pochi mesi. L’ultimo Nureddin Nebati, è un fedelissimo di Erdoğan e lo lascia fare. Così per frenare un’inflazione più che galoppante la Banca Centrale di Ankara ha continuato a tagliare i tassi d’interesse, in opposizione alle tradizionali teorie in materia. Il sostegno governativo alle perdite dei singoli risparmiatori, oltre al carovita che erode le tasche dei cittadini anche sui beni di prima necessità, può alla lunga far collassare le casse statali. Eppure il leader islamico prosegue sulla sua linea di condotta cercando di giungere alla scadenza elettorale naturale nel giugno 2023, la data del centenario della Turchia moderna, che lui insegue dall’inizio della carriera politica per un’auto incoronamento a padre della patria. Davanti a sondaggi interni che danno il suo partito ed egli stesso in forte ridimensionamento, Erdoğan si rilancia con la politica estera che, se rivolta ai ricchi Stati redditieri del Golfo, possono fruttare quei fondi e sostegni volti a corroborare le finanze turche. Dopo il riavvicinamento agli Emirati Arabi Uniti compiuto a fine 2021, che fruttava dieci miliardi di dollari di investimenti strategici e cinque miliardi per le riserve interne, l’abbraccio di ieri porta altra liquidità alla malandata situazione turca. Senza nulla togliere a quanto s’è consolidato da oltre un decennio: gli ottimi rapporti con l’Emiro al-Thani, signore del gas, dello sport, di eventi mercantili e mondani, molto prima della ‘Vision 2030’ di MbS. Da parte sua quest’ultimo, per quanto scaltro e fantasioso, non può permettersi di rimanere isolato fra i vicini e in un mondo che corre. La tensione politica che aveva allontanato il solvente turismo saudita dalle coste turche e i manufatti di Ankara nel Golfo rappresentava uno svantaggio per entrambe le economie. Dietro il recente abbraccio albergano, accanto a una rinascita di hotel e resort, energia, infrastrutture, armi, sanità. L’anima di Khashoggi può riposare in Paradiso, nessuno pensa più a chi l’ha fatto volare lì. In netto anticipo.   


mercoledì 27 aprile 2022

Egitto: Sabahi, l’oppositore ossequioso

L’Iftar, il pasto serale che interrompe il digiuno nel mese sacro del Ramadan, è un momento di convivialità di famiglie e comunità. Nel caso mostrato dalle ‘immagini rubate’ ieri in occasione dell’Iftar delle autorità e diffuse attraverso la catena dei social, si possono osservare i saluti allegri e colloquiali fra il presidente al Sisi e un politico noto nel periodo della sua presa del potere: Hamdeen Sabahi. Capo di un partito denominato un decennio fa Corrente Popolare di tendenze tardo nasseriane e co-leader del sedicente Fronte di Salvezza Nazionale, il blocco che osteggiò pesantemente Mohammed Morsi eletto nel giugno 2012, Sabahi, più dei liberali Moussa e El Baradei, da sempre collusi col potere conservatore del mondo arabo che aveva prodotto presidenti come Sadat e Mubarak, diceva di voler dare corpo alla coscienza critica della società egiziana. S’ispirava allo spirito socialisteggiante di Nasser. In gioventù conobbe anche la reclusione per dissidenza sotto Mubarak, quindi diede sostegno alla rivolta di piazza Tahrir e corse per le presidenziali, nel 2012 e 2014. Ma a quel punto i giochi erano fatti. Il Fronte di Salvezza Nazionale era diventato il cavallo di Troia del ‘Consiglio Supremo delle Forze Armate’ passate da Suleimani e Tantawi ad al-Sisi, che provava ad abbattere il governo della Fratellanza Musulmana dopo che questa s’era imposta alle politiche della primavera 2012 e al test presidenziale del giugno seguente. Sabahi mise il suo faccione bonario, contro quello  che risultava ‘antipatico’ di Morsi facendo sue le posizioni più retrive del laicismo egiziano in diretta connessione con la potentissima lobby militare. Caddero nella trappola anche spiriti liberi del Movimento 6 aprile e tanti ‘cani sciolti’ della protesta che osteggiavano il conservatorismo della Confraternita islamica. Ma da qui a fungere da servitori, coscienti o meno, del disegno reazionario delle Forze Armate ce ne passava. Eppure questo è accaduto. Associazioni per i diritti, sindacati della sinistra riformista scelsero di sostenere un piano che li avrebbe fagocitati. Di lì a poco i meno coperti fra loro, gli attivisti di base, finiranno addirittura fucilati nelle piazze. Fra i primi accadde a Shaimaa al Sabbagh, colpita a morte il 24 gennaio 2015, quando al Sisi rilanciava una repressione ossessiva e soffocante, fatta di morte, prigione e paura diffuse. La tragica svolta non scosse affatto uomini come Sabahi che hanno continuato a barcamenarsi in politica, finché hanno potuto, fino a quando gli è stato permesso. Ovviamente senza subìre la coercizione rivolta ai veri oppositori, anzi fungendo da alibi per il regime egiziano, comprensivo e tollerante verso figure alternative. Di alternativo il contestatore Sabahi in questi anni ha elaborato ben poco, anzi ha cercato bonariamente di assecondare un nuovo raìs diventato uno spietato satrapo. Da quel che mostrano sorrisi e strette di mano immortalati dai cellulari di chi ieri era all’Iftar del regime, i rapporti risultano davvero cordiali.

 


 

martedì 26 aprile 2022

Egitto, Sisi e l’operazione oblìo

Fra i progetti dell’Egitto marchiato al Sisi, che si propone sogni di gloria investendo miliardi di dollari per la capitale prossima ventura, c’è anche un programma destinato all’oblìo. Cancellare passato remoto e prossimo dagli occhi e dalla mente è un passaggio articolato che ha preso forma sulla storica collina di Moqattam e nelle abitazioni di ciascun cairota. Il primo caso riguarda gli alloggi degli zabaleen, le famiglie più povere della comunità copta dedite alla raccolta d’immondizia, che hanno iniziato a essere sgombrati e abbattuti per far posto a ponti e circonvallazioni. Un assalto alla storia cittadina, perché quei crinali pur franosi ma edificati esistono da tempo immemore, e ora si pensa di spianarli, azzerando anche cimiteri piccoli e grandi che raccolgono le spoglie di generazioni di musulmani e cristiani. Il secondo atto è un’operazione di rifacimento d’una cronaca recente che non ha neppure un decennio di vita ed è ben viva nella memoria. Sia di chi l’ha subìta, attraversando lutti e dolore, sia di chi l’ha semplicemente osservata: la strage della moschea Al Rabaa al-Adawiyya. Davanti a quel luogo di culto da metà luglio 2013 s’erano riuniti migliaia di attivisti della Fratellanza Musulmana che protestavano per il golpe bianco del generale al Sisi, all’epoca ministro della Difesa, che aveva fatto arrestare il presidente Morsi. Nella notte del 13 agosto 2013, polizia e militari sgombrarono la  piazza e i giardini prospicienti a colpi d’arma da fuoco, realizzando un massacro. Secondo la Confraternita vennero  uccise duemila persone, un migliaio hanno dichiarato organismi internazionali dei diritti. Fu un gigantesco bagno di sangue premeditato e ferocissimo che spalancava le porte al regime di terrore del generale Sisi, divenuto l’anno seguente Capo di Stato. Questa vicenda compare nella terza serie televisiva di una fiction della tivù egiziana titolata Al-Ikhtiyar (La scelta). Sugli schermi la scelta viene compiuta dall’attore Yaser Galal che interpreta al Sisi, è un ‘premuroso gesto’ rivolto alla nazione per evitare un conflitto civile fra cittadini.

 

Un ‘premuroso gesto’ finito in carneficina. La finzione televisiva sta sollevando critiche per l’intento manipolatorio e propagandistico. Le accuse provengono dagli epigoni della parte colpita – l’organizzazione della Fratellanza, fuorilegge da quasi un decennio – che conta una buona fetta dei sessantamila attuali detenuti, oltre alla scomparsa di centinaia di militanti finiti come l’italiano Regeni, senza che se ne siano ritrovati i cadaveri. Anche associazioni dei diritti umani concordano sull’evidente finalità del regime per un’autopromozione del presente e un revisionismo d’un passato talmente vicino di cui tutti sanno, dentro e fuori l’Egitto. Sebbene risulti eccessiva e addirittura maldestra, l’iniziativa si rivolge al suo blocco politico-sociale, quello che inizialmente l’ha sostenuto poiché detestava la Brotherhood e l’accusava di faziosità e incompetenza. A costoro si propone una didascalica lettura a soggetto per compattarli ulteriormente, temendone forse uno scollamento in virtù di ciò che quella gente vive sulla pelle: altrettanta faziosità e incompetenza, incremento di miseria, abusi, violenza, terrore. La grande colpa d’una parte della nazione - non solo i cosiddetti feloul,  i nostalgici di Mubarak e un sistema incentrato sulla lobby militare e la sua filiera d’assistenza e lavoro, ma degli stessi gruppi laici e socialisti all’epoca guidati da Moussa, El Baradei, Sabbahi - fu quella di prestare il fianco a una contestazione del presidente islamista dopo appena tre mesi dall’insediamento, fino a promuovere nella primavera 2013 una raccolta di firme per la sua rimozione. Di fatto fu l’anticamera del golpe. Ora Eagle Capital, società di produzione finanziata dai mukhabarat, lancia una rivisitazione delle vicende politiche egiziane, anche quelle con gli effetti criminali citati, favorevole agli interessi della lobby militare golpista che si autoassolve, ripassando sulle salme martoriate con una sceneggiatura che valuta positivamente la scelta di ieri e di oggi. Un atto salvifico  che azzera coscienze critiche e durerà nel futuro.

sabato 23 aprile 2022

Partigiani ciao

Nel Belpaese dei tutti resistenti e dei troppi cuori neri, ricordare i partigiani è da sempre operazione sopportata più che supportata. Anche dagli addetti ai lavori con cariche ufficialissime e blasonate. Troppa ingerenza del partitismo che deve sopravvivere e convivere, perché l’esistenza prosegue e l’Italia sempre deve ricomporsi nell’unità delle ipocrisie. All’epoca rinasceva antifascista con tanti fascisti dentro, mica solo fra le Forze della forza, ovunque. E per un Gentile passato per le armi, tanti teschi neri si ritrovarono graziati, promossi, sostenuti nella Repubblica nata dalla Resistenza. Finanche Graziani. Si potevano invertire i destini del maresciallo e del filosofo, ne avrebbe guadagnato in parte la Cultura, rigida e inamidata sì, ma con la maiuscola. Invece largo alla canaglia, quella più becera e quella in doppiopetto diventata presto bombarola, sotto la guida dei nostri protettori d’Oltreoceano che gli trovava un lavoro, da sgherro o da spia, ché ben gli riusciva. Poco più tardi se ne preparava l’impegno primario: essere i ‘gladiatori’ nella Guerra Fredda, ovviamente sul versante anticomunista. Ma i partigiani - che il 25 Aprile 1945 erano diventati (sulla carta) 250.000, con altri 400.000 che pretendevano di esserlo - mentre furono meno della metà, centomila o poco più, d’ogni colore politico certo, pur con la preponderanza garibaldina - quei partigiani, dicevamo, che perseguivano gli ideali belli rimasero in pochi. Al di là dei nomi noti, di qualche padre nobile d’una Costituzione restata carta, in tanti conobbero esclusione, indifferenza, oblìo. La prima dimenticanza – voluta – dell’Italia nuova, era quella di non fare i conti col passato fascista, con la mentalità sopraffattrice, vischiosa, opportunista. Forse avrebbe potuto essere rieducata, nonostante e ben oltre l’amnistìa togliattiana, invece non se ne fece nulla. Il mondo correva, la vita continuava ed era grama per tanti, anche per chi aveva rischiato la pelle in montagna e in città, per chi non era finito come Romolo Jacopini e Dante Di Nanni. I partigiani, le partigiane di quelle giornate dure e splendide, rientravano nell’anonimato, senza alcun potere, senza nessuna pretesa, da semplici cittadini come doveva essere, ma in troppi casi da cittadini marchiati, emarginati, costretti a nuove clandestinità. Affrontavano la realtà da generosi. Coi volti emaciati e sfibrati dai trascorsi mesi di lotta, coi sorrisi increduli d’avercela fatta, coi pugni stretti. Con la dignità più alta davanti a una nazione matrigna che già li tradiva. 




venerdì 22 aprile 2022

Egitto, il bisogno di pane l’acquisto di armi

Sarà il grano proveniente dai campi indiani dell’Uttar Pradesh, Madhya Pradesh, Punjab, Haryana, Bihar, Gujarat a sfamare, fra gli altri, gli egiziani? Il mese scorso il prezzo del pane (aish) è salito a 11.20 pound egiziani al chilogrammo (0,57 dollari), imbarazzato il primo ministro Madbouly ha sostenuto che davanti alle carenze di approvvigionamento causate dal conflitto in Ucraina gli aumenti diventavano inevitabili. Gli ultimi dati sulle importazioni egiziane risalgono al 2020, l’anno dell’avvìo della pandemia di Covid-19. Per un alimento base come il frumento le cifre s’aggiravano su 1.8 miliardi di dollari annui per l’acquisto dalla Russia e 600 milioni di dollari dall’Ucraina, gran parte di queste importazioni non sono proponibili per l’anno in corso. I cereali rappresentano un elemento base della nutrizione del popoloso Paese arabo che risulta fra i maggiori  importatori di grano al mondo. La guerra in Ucraina mette in crisi anche le scorte dell’olio di girasole, fornite in buona parte da Kiev. Tali notizie circolano sulla stampa estera, quella interna sceglie di non trattare l’argomento, ma la popolazione ha sotto gli occhi carenze, aumenti dei prezzi e un’inflazione salita al 20% con tanto di lamentele per via. Certo nessuna protesta in atto, tanta la paura di finire immediatamente fermati e arrestati, com’è accaduto alle ultime lotte di lavoratori. L’accresciuto acquisto d’un prodotto base che vedeva fino a qualche decennio addietro l’Egitto autosufficiente pone sotto i riflettori le contraddizioni economiche degli ultimi regimi del Cairo. Già dai tempi di Mubarak l’agricoltura risultava abbandonata a se stessa. Le Forze Armate tenutarie ed esse stesse imprenditrici di ampie zone fertili attorno al Nilo si erano rese protagoniste di lottizzazioni selvagge a fini speculativi. Noti gli episodi in cui erano coinvolti i rampolli del raìs e il generale dell’aeronautica Shafiq, che nel 2012 si misurò con Morsi perdendo la corsa alla presidenza.


C’è poi l’annosa contesa con l’Etiopia sulla gestione delle acque del Nilo, ne è coinvolto anche il Sudan. Le dighe fatte costruire da Addis Abeba e l’enorme da poco inaugurata - Grand Ethiopian Renaissance Dam - sul Nilo Azzurro sta riducendo il flusso d’acqua a disposizione dei Paesi a valle attraversati dal grande fiume. La diatriba fra le parti coinvolge da tempo l’Assemblea Generale dell’Onu, il suo Consiglio di Sicurezza e la stessa Unione Africana che poco hanno potuto vista la rigidità di ciascun contendente. Finora, dunque, nessun accordo, gli egiziani si richiamano a patti coloniali (1929) e post (1959) in base ai quali Il Cairo si appropriava di oltre il 60% delle acque. Gli etiopi ovviamente disconoscono quei patti e con la mega diga, per ora funziona all’80% delle potenzialità, si stanno garantendo uno straordinario impianto idroelettrico che ne risolve le necessità energetiche. A loro dire un riequilibrio, visto che sul fronte dell’energia l’Egitto può contare dei giacimenti di gas scoperti nel Mediterraneo e lucrarci su. Ma accanto al flusso delle acque il sistema produttivo agricolo egiziano da decenni non riceve impulsi né sostegni. Quello del fellah (contadino) è diventato un mestiere per disperati. La lobby militare ha diversificato i suoi affari, preferisce importare derrate e vendere metano, sebbene per estrarlo dalle proprie Zone Economiche Esclusive, di cui la riserva Zohr è la cassaforte più preziosa, ha bisogno dell’intervento tecnologico dell’Eni. Poi ci sono investimenti nei resort vacanzieri sul Mar Rosso, le joint-venture con ditte edili saudite per la creazione di città nel deserto, come New Cairo la nuova capitale a cento chilometri dall’attuale, i residence previsti in pieno centro del Cairo, sull’isola di Warraq, dove gli sfratti e le demolizioni di abitazioni povere devono fare spazio a Horus, un avveniristico hub per il turismo di lusso. Sono le contraddizioni in cui si dibatte un Paese che sfiora i cento milioni di abitanti e torna a fare i conti con cogenti bisogni di cibo, come nel secolo scorso. Per questo il governo avanza richieste al Fondo Monetario Internazionale: 11 miliardi di aiuti, prevalentemente alimentari, mentre le casse statali tengono alte le quote per gli armamenti: nove i miliardi di euro impiegati per fregate Fremm e sistemi elettronici forniti dall’Italia, quasi quattro per i Rafale francesi.     

giovedì 21 aprile 2022

Afghanistan, primavera di tristezza

 

Primavera di sangue in Afghanistan. Dopo la scuola del quartiere hazara Kabul due giorni fa, sei morti diciassette feriti, oggi giungono notizie di altri tre attentati. A Mazar-e Sharif, capoluogo della provincia di Balkh, dove le voci ancora precarie  sono allarmanti. Alle cinque vittime conteggiate in un primo momento  se ne aggiungono altre, troppe. Si parla di trentuno cadaveri. Lo annuncia un dispaccio del distretto ospedaliero Ali Sina-e Balkhi che cita anche ottantuno feriti. Tutti quei corpi straziati pregavano nella moschea Seh Dokan. Bomba anche nella provincia di Kunduz, mancano informazioni dettagliate su persone e cose colpite. Una terza esplosione si è verificata ancora una volta nella capitale, fortunatamente senza uccidere nessuno, si contano due bambini feriti. E’ il disegno mortuario dell’Isis-Khorasan che prende corpo. Dopo aver orgogliosamente rivendicato le Ied seminatrici di morte a Dasht-e Barchi di martedì scorso le milizie afghane dello Stato Islamico si attribuiranno le odierne stragi, lanciando un duplice messaggio. In prima battuta alla travagliata popolazione cui dicono: abbiate timore, non sentitevi al sicuro con l’Emirato talebano, aderite al sogno del Califfato che non ha confini e non è affatto tramontato. L’altro avvertimento è ai miliziani al potere: possiamo colpire e destabilizzare la comunità che volete governare come e quando vogliamo. La sanguinaria linea di confronto fra i due schieramenti è vecchia di almeno un quinquennio, quando i taliban ortodossi attaccavano il governo fantoccio di Ghani e i dissidenti, che iniziarono a utilizzare la sigla del Khorasan, si contendevano a suon di esplosioni fette di territorio afghano. Tanto per dimostrare chi controllava e cosa, s’imponevano ai governatori ufficiali che ricoprivano cariche ma non gestivano alcun potere. I loro reparti dell’Afghan National Army erano attaccati in continuazione, per sbarcare il lunario e salvare la pelle dovevano restar chiusi nelle caserme, province e vie di comunicazione erano sotto la vigilanza dei nuclei talebani e in alcuni casi degli uomini del Khorasan. Nella corsa alla frantumazione del feticcio di uno Stato senza Stato la galassia talebana maggioritaria ha avuto la meglio, Akhundzada aveva aggregato anche il turbolento clan Haqqani e Mohammad Yacoob, il figlio del mullah Omar. Dopo la presa di Kabul ha fatto di più: ha assegnato a quest’ultimo il ministero della Difesa e quello dell’Interno a Sirajuddin Haqqani. Uomini di fuoco non solo ideologico, soggetti preparati sul campo e determinati. Eppure dallo scorso novembre la sicurezza per le strade delle città afghane è precaria. Nel Paese non c’è più guerra, ma neppure pace, il controllo del territorio che aveva angosciato i governi filoccidentali oggi diventa l’incubo dell’Emirato. Minato probabilmente dall’interno, dagli ex fratelli talebani che seguono una diversa via, se utopica come quella conosciuta fra Siria e Iraq è tutto da verificare. Certamente disgregatrice, sicuramente costellata di morte d'incolpevoli civili. 

mercoledì 20 aprile 2022

Propaganda pakistana

Disinformazione e propaganda. Mica solo in Ucraina, sebbene quello scenario sia costellato di orrori e morte, anche i popolosi distretti pakistani, turbati nei mesi scorsi da tumulti fondamentalisti e attualmente da turbolenze economiche, stanno vivendo una contrapposizione politica crescente. Verità e finzione s’intrecciano per influenzare chi osserva esterrefatto un orizzonte sempre più confuso. E’ l’ex premier Imran Khan, rimosso dall’incarico dopo la sfiducia parlamentare a infiammare le piazze.  Porta in giro per il Paese la sua tesi che alimenta la protesta: è in atto un subdolo colpo di mano volto a un cambio di rotta. La regìa, manco a dirlo, sarebbe statunitense, la vittima Imran stesso e il suo partito, dai politologi marchiato come popolar-populista, che ha rimescolato decenni di sponda filoamericana, oscillando negli ultimi tempi fra taliban afghani e pakistani, regime putiniano, la Cina di Xi. Nella visione del Pakistan Tehreek-e Insaf, gruppo fondato dallo stesso Khan quand’è entrato nell’agone elettorale, ciascuna di queste mosse ha una logica: verso i coranici oltreconfine e di casa per una politica di convivenza, verso Mosca per approvvigionamenti energetici indispensabili alle industrie interne, verso Pechino per inserire la nazione nei commerci delle varie vie della seta che si dipanano da Oriente a Occidente. Khan non cita gli ayatollah, perché la sua disinvoltura non è giunta ad avvicinarli: rimuovere l’incistata concorrenza regionale fra Islamabad e Teheran non è cosa semplice. Comunque nelle partecipatissime adunate di questi giorni, l’ultima a Karachi, l’ex campione di cricket ha fatto di tutto per insinuare il sospetto del complotto non solo nei suoi confronti, ma verso l’intera Umma musulmana del Pakistan. Un rifiuto l’ha incassato dalle gerarchie militari venute allo scoperto col generale Qamar Bajwa che ha messo in guardia tutti dalle speculazioni di chi cavalca il popolo contro gli interessi del popolo. 


Le orecchie non sono fischiate solo all’infuriato ex premier, che pure nel quinquennio in cui lanciava la protesta anticorruzione (2013-2018) strizzava l’occhio ai militari ed era ricambiato, son fischiate anche ai vertici della Lega Musulmana-Nawaz. Tornata in auge con l’attuale primo ministro, Shahbaz, fratello di uno dei premier pakistani più invischiati nell’affarismo tangentizio (Nawaz Sharif), anche questo partito viveva attriti con la lobby militare. La politica tira sempre acqua al proprio mulino, dice di tutto e il suo contrario, e quando i cambi governativi sono repentini c’è memoria solo di posizioni recenti, le altre vengono riposte come se non fossero mai state affermate. In questa latitudine l’attuale turbinìo politico, ai vertici e in periferia, è particolarmente caotico così si guarda solo al presente. Oggi chi tesse le lodi dei militari è il clan Sharif. La prossima tappa del tour di Khan approda a Lahore, capitale del Punjab pakistano, governata da Hamza Sharif, figlio del premier nazionale. E’ la prima volta nella storia politica pakistana, pur intrisa di familismo, che si verifica una circostanza simile, fra l’altro investendo una regione basilare per gli equilibri interni. Dunque c’è attesa per ondate di retorica e furore. Se le piazze e gli schieramenti dovessero degenerare, non si escludono soluzioni di forza del militari. Eppure la lobby, come abbiamo visto carezzata e corteggiata da ogni schieramento (nella partita, seppure in una fase calante, c’è il clan Bhutto col suo Partito Popolare), sembra spaccata anch’essa. Fonti della perfida Inter-Service Intelligence rivelano che gli ufficiali di basso rango propendono per Khan, mentre la vecchia guardia comincia a temerne il populismo e guarda ai partiti tradizionali come a un passato più tranquillizzante.  Anche perché aperto a colpi di mano espliciti come ai tempi di Zia-ul-Haq e Musharraf.  

martedì 19 aprile 2022

Kabul nuovamente chiazzata di sangue

Kabul ovest, Dasht-e Barchi, il quartiere degli hazara ancora intriso di sangue e morte. Due improvvise esplosioni di Ied all’uscita da una scuola superiore, poi un’altra a distanza di qualche chilometro ma nella stessa area etnico-urbana. Finora sei studenti uccisi, quattordici feriti e come al solito si pensa all’Isis-Khorasan che da anni perseguita la comunità sciita afghana. Tutto sommato la strage sembra contenuta perché dalle classi dell’istituto stavano uscendo un migliaio di allievi. Però nell’ospedale cittadino di Emergency parecchi giovani sono giunti in condizioni critiche e i medici disperano di salvarli. Mentre agenzie locali e la Reuters hanno battuto la notizia parlando di devastazione fin dentro la scuola dove spiccano “mura schizzate di sangue”. Inoltre filtra questa voce: guardie private che avevano in consegna la zona non sono riuscite a garantire la sicurezza. Una constatazione o il sospetto di collusione? La realtà mostra un controllo deficitario di questo quartiere, noto bersaglio del fondamentalismo islamico, da parte delle stesse forze dell’Emirato. Impossibile dire se voluto o meno, in altre fase gli stessi talebani ora al potere avevano colpito gli hazara, ma dall’agosto scorso si piccano di voler difendere cittadini e nazione, garantendo pace e tranquillità per tutti. Il ministro dell’Interno Sirajuddin Haqqani, di recente apparso alla luce del sole dopo un lungo periodo di copertura e autotutela, avrà pure munito di luccicanti divise le milizie talebane diventate polizia ufficiale, comunque i reparti stentano a garantire sicurezza davanti alle incursione bombarole dell’Isis. 

lunedì 18 aprile 2022

Aviazione pakistana: bombardare civili per punire i taliban


Sarà stata la “nuova” leadership pakistana, che poi è nota e consolidata da decenni di potere corrotto, a rassicurare maggiormente i generali di Islamabad? Non c’è nulla di ufficiale. Nel fine settimana lo Stato maggiore aveva deciso di lanciare attacchi aerei in due province afghane (Khost e Kunar) ree di accogliere i Thereek-e Taliban oltre il poroso confine occidentale e forse l’esecutivo non c’entra. Notoriamente l’esercito pakistano risponde alle proprie gerarchie più che ai dettami governativi, anzi in molti casi li ostacola. A meno che non si creino alleanze di comodo che spesso registrano una temporalità limitatissima. Dunque non è la dipartita di Khan e l’arrivo di Shehbaz Sharif ad aver aizzato le Forze Armate pakistane a compiere raid aerei oltre confine, loro decidono a prescindere. Comunque l’azione che ha ucciso oltre una quarantina di civili, con vittime e feriti in età infantile, ha irritato l’Emirato di Kabul che col portavoce Zabihullah ha messo in guardia i vicini dal ripetere incursioni assassine. L’ex premier aveva trascorso l’ultimo biennio a cercare d’intessere relazioni di reciproco interesse: l’attuazione del gasdotto Tapi coinvolgeva il presidente Ghani, poi disarcionato e fuggito, ma affascina anche i talebani di Kabul e l’intento inclusivo di Khan, seppure basato sull’approvvigionamento energetico per l’industria pakistana, costituiva un’apertura ai turbanti afghani per tenere tranquilli pure quelli di casa. L’accusa rivoltagli dell’opposizione di giocare col fuoco del fondamentalismo non l’aveva distolto dalla faccenda e fino ai recenti giorni della sfiducia Khan s’era speso perché la Cooperazione Islamica intervenisse con aiuti propri sulla crisi alimentare della gente afghana. Così da una fase di rapporti distesi si passa a sanguinosi interventi militari di frontiera, con retroscena sullo stesso Nord Waziristan, che fanno dire ai taliban “Combatteteci, ma non uccidete i civili”. Frase fatta, visto che i miliziani coranici di entrambe le sponde non guardano in faccia bambini e adulti quando decidono attacchi ed attentati. In ogni caso a Kabul e Islamabad non conviene scontrarsi e scontentarsi, a meno che le regìe di taluni scenari non siano dirette da mani esterne, che è stata la tesi di Khan riguardo alla sua estromissione. Una sfiducia pilotata – così ha sostenuto – da Washington. Mentre in una delle province colpite la popolazione ha duramente protestato, dal nuovo governo di Islamabad non giungevano commenti. La punizione appare collegata alla morte di alcuni militari pakistani a nord-ovest della provincia Khyber Pakhtunkhwa, e un dispaccio militare aveva preannunciato una 'soluzione' per eliminare minacce terroristiche. Ma gli eliminati, ancora una volta, sono persone comuni.

mercoledì 13 aprile 2022

Pakistan, i clan tornano al governo

Passare dallo sciupafemmine milionario all’affarista riciclatore di denaro e consorti è l’azzardo con cui la politica pakistana continua a misurarsi. Certo, il fatto che il “nuovo” primo ministro vanti una famiglia allargata a diverse compagne è vicenda assolutamente personale e privata. Ma in realtà quest’uomo oggi settantunenne nel Paese che ora guida era famoso per due ragioni: essere il fratello dell’ex premier Nawaz Sharif e aver inanellato con disinvoltura cinque unioni. Sia chiaro una per volta, senza harem di ritorno, con dei distinguo fra quelle ufficiali e altre ufficiose. Insomma Shehbaz Sharif - capo della Lega Musulmana del Pakistan-N - passato dall’opposizione al governo, pur con esperienze politiche pregresse, è diventato leader del partito perché il più noto fratello Nawaz è stato incarcerato per corruzione. Lui stesso ha avuto grane con la giustizia, sempre roba di denaro: fu accusato di riciclaggio di oltre una quaranta di milioni di dollari, in un intreccio che coinvolgeva collaboratori e familiari. Il National Accountability Bureau sostiene che abbia usato transazioni false per ricevere cospicue cifre dall’estero, aiutato nell’illecito dal figlio e dal genero Haroon Yousaf. Intanto nel 2020 in attesa di processo era stato posto in libertà vigilata, poi l’anno scorso l’Alta Corte di Lahore l’aveva rilasciato dietro pagamento di cauzione. Ora, dopo la sfiducia rivolta dal Parlamento a Imran Khan, Shehbaz è incaricato di formare un nuovo Esecutivo. Ma non c’era un’altra figura cui affidare il delicato ruolo in uno Stato che bolle come una pentola a pressione? 

 

Beh, la politica pakistana improvvisa raramente, quando lo fa come nel caso del campione di cricket posto ai vertici nazionali si fa del male, quando non lo fa e prevale la logica dei clan familiari, può fare peggio. I due gruppi che da decenni si palleggiano il potere – Sharif e Bhutto – hanno bloccato la redistribuzione di ricchezze interne, avvantaggiando se stessi e le rivendicazioni d’un fondamentalismo islamico che continua a predicare Jihad non solo contro l’Occidente. I rampolli Sharif lanciati in politica hanno goduto dei beni di famiglia, il capostipite Mohammad era un affarista e industriale kashmiro trasferitosi nel Punjab. In quella regione Shehbaz, dopo essere stato eletto presidente della Camera di Commercio in base al sostegno dell’azienda siderurgica di casa, ceduta comunque nel 2004, entrò nell’Assemblea Nazionale nel 1990 per diventarne primo ministro nel 1997. Durante il golpe militare del 1999 diretto da Musharraf riparò in Arabia Saudita e vi restò fino al 2007, per tornare a guidare il Punjab nel 2008 e nuovamente nel 2013. Fino al 2018, quando sostituì alla guida del PML-N il fratello Nawaz inguaiato dallo scandalo dei Panama Papers. Nel suo primo mandato a Lahore e dintorni c’è chi parla bene di lui: aveva posto attenzione alle carenze sanitarie e d’istruzione, s’era occupato d’una giustizia parziale e non proprio giusta verso i ceti subalterni. Finché non vennero fuori accuse di parzialità contro alcuni cittadini e la denuncia d’un padre il cui figlio risultò ucciso da repressioni poliziesche. L’accusa alle Forze dell’Ordine e a Shehbaz che ne aveva richiesto l’intervento era di assassinio extragiudiziale. E i casi furono più d’uno. L’esilio presso la casa saudita e il tempo hanno giovato a Sharif che dopo l’assoluzione presso il Tribunale antiterrorismo potè riprendere la politica e le cariche citate.
 

Nella prima mossa da premier non più del Punjab ma dell’intero Stato, Sharif ha guardato all’Oriente vicino, vicinissimo, quello travagliato della storia recente. Così ha sorriso a Narendra Modi ringraziandolo per le congratulazioni ricevute dopo l’incarico. Nel caos internazionale, che dai conflitti bellici in Ucraina riverbera tensioni economiche mondiali, cercare sponde prossime gli deve sembrare più semplice che azzardare partnership globali. Diviso fra Russia e Cina, la prima per l’energia, l’altra per i capitali d’impresa, il Pakistan continua a gravitare per questioni di sicurezza sotto lo scudo americano. E il grido del premier disarcionato, reale o inventato che sia, è rivolto contro gli Usa che avrebbero favorito un ricambio di vertice a Islamabad. Nell’oceano dei giganti della politica Shehbaz ha teso la mano a quello meno strutturato, ma così prossimo da potersi forse intendere su una questione antica e annosa che aveva provocato tre guerre (1948, 1965, 1971): il Kashmir.  La soluzione pacifica per quella terra cui chiama il neo primo ministro pakistano rappresenta sicuramente un’àncora per lui che vuole impostare la leadership sul dialogo. Anche il fratello Nawaz si faceva immortalare mano nella mano con Modi negli incontri del 2014. Quelli, però, erano gli esordi del capo di governo indiano, che, anno dopo anno, sono diventati meno tranquillizzanti per la crescente influenza dell’hindutva sul Bharatiya Janata Party. Questo radicalismo, come altri nazionalismi globali, punta sulla conflittualità non lasciando spazio ad alcuna diplomazia. Sharif da buon affarista sa che il business è più agevole con la pace e punta alla distensione con Delhi. Però Modi è in scadenza di mandato e un politico in predicato di sostituirlo, Yogi Adityanath, il monaco appena riconfermato guida nell’Uttar Pradesh, non è affatto un predicatore tranquillo.


lunedì 11 aprile 2022

Egitto, storia d’una morte che sa d’omicidio

Scomparso, come tanti, troppi. Ma lui Ayman Hadhoud, membro del Partito dello Sviluppo e delle Riforme era un uomo noto. Nel suo ambiente scientifico e altrove era amato e rispettato per il lavoro di analisi sociale ed economica, e forse proprio per questo motivo inviso alla casta militare che orienta e opprime il Paese. Di Ayman si sa che era scomparso lo scorso 5 febbraio. Il fratello Omar era stato informato del fermo da un ufficiale di polizia, l’iniziale luogo di detenzione risultava il Commissariato di Amiriya che fa capo alla struttura della National Security Agency. Ma quando i parenti chiedono informazioni, ufficiali del dipartimento negano la presenza e il passaggio del ricercatore in quel luogo. Così inizia una ridda di affermazioni e smentite sulla detenzione di quest’uomo che fanno venire alla mente le molteplici versioni fornite all’epoca sul rapimento di Giulio Regeni. Il Ministero dell’Interno ha rigettato l’ipotesi di una sparizione forzata, la versione del Dicastero parla di un arresto di Hadhoud nell’esclusivo quartiere di Zamalek, dopo che il portiere d’un residence aveva raccontato che l’uomo stesse cercando di entrare in un appartamento forzando la porta e avesse un comportamento dissennato. Da qui un rapido processo al cospetto di un procuratore e il ricovero in un ospedale psichiatrico per accertamenti. La documentazione presente nell’ospedale in questione - quello cairota di Abbasseya - citava un fermo in corso per Hadhouse a seguito del tentativo di furto di un’auto nella cittadina di Senbellawein nel governatorato al Daqahlia, a ben cento chilometri dalla capitale, una vicenda, vera o presunta, che un pubblico ministero alla stazione di polizia di Nasr City aveva discusso coi familiari del fermato. 

Insomma due versioni differenti contraddittorie, mentre il fratello Omar dichiarava che procuratore e autorità di sicurezza fino a sabato scorso sostenevano di non sapere dove fosse l’uomo. Alcune settimane dopo la sparizione di Hadhouse e la dichiarazione del fermo poliziesco la famiglia era a conoscenza del ricovero presso il nosocomio per 45 giorni. I parenti si sono anche rivolti a Esmat Sadat, capo del partito di cui Ayman era membro. Il fratello Omar ha consegnato al leader una documentazione che è stata girata al magistrato. Inoltre amici della famiglia hanno rivelato che gli Hadhouse hanno richiesto in più occasioni di far visita al ricoverato, ma inutilmente: la richiesta veniva sempre respinta. Fino alla recente telefonata che annunciava l’avvenuto decesso. Uno dei pochi organi d’informazione ad aver diffuso il caso è Mada Masr, mentre il Consiglio Nazionale dei Diritti Umani del Cairo ha tenuto un incontro nel quale ha raccolto le poche informazioni ricevute dagli organi di sicurezza e giustizia competenti. Sul cadavere sarebbe stata predisposta un’autopsia, però non si sa di più e se accerterà realisticamente cos’è accaduto al ricercatore. Intanto la rete informale sui social si dispera e denuncia: queste le accorate domande di un’attivista su Facebook: Perché? Perché è stato trattenuto? Chi l’ha nascosto e perché? Chi l'ha ucciso? Perché avrebbero dovuto ucciderlo? Perché l'hanno nascosto? Abbiamo saputo solo che l’avevano ricoverato in un ospedale psichiatrico senza ordinanze del tribunale; perché avrebbero dovuto farlo? Ayman era un grande scienziato sociale, un fantastico ricercatore e analista. Il suo lavoro sull'innovazione sociale ed economica è stato sorprendente e basato sulle prove. È stato una risorsa enorme per le comunità accademiche egiziane e internazionali”.

venerdì 8 aprile 2022

Pakistan verso il voto anticipato

Per l’ennesima volta richiamando l’illustre passato sportivo, è intenzionato a gettarsi nella mischia - almeno così sostiene - l’ex campione che domani diventerà ex premier pakistano. Contro l’improvvido gesto di sciogliere un Parlamento che lo stava sfiduciando Imran Khan ha ricevuto lo schiaffo della Corte Suprema. Uno schiaffo ponderato per cinque giorni, e forse per questo ancora più sonoro. Lo speaker dell’Assemblea Nazionale, sodale del Primo Ministro e aderente al suo stesso partito (Tehreek-e Insaf), aveva lanciato il cuore oltre l’ostacolo considerando “un’ingerenza straniera” la delibera presentata dall’opposizione contro un esecutivo azzoppato dal ritiro di ex alleati. La contromossa governativa, che ha impedito il voto e sciolto il Parlamento (violando la Costituzione), è considerata illegale dai giudici. Perciò domani i deputati saranno al loro posto a sfiduciare Khan. Per evitare quel voto lui potrebbe dimettersi, non eviterebbe l’onta che ne azzera un quinquennio incapace di giunge al traguardo naturale del prossimo anno. In realtà il campione di cricket lanciatosi in politica non è il primo premier a cadere anzitempo. Il decennio che l’ha preceduto, e le epoche passate, hanno conosciuto turbolenze e colpi bassi, golpe compresi, verso capi di governo incapaci di offrire stabilità a una nazione di per sé turbata da conflitti ideali, religiosi, amministrativi. Erano state proprio la questione morale, la corruzione, le ruberie di cui sono stati accusati esponenti dei maggiori gruppi politici (Partito Popolare Pakistano e Lega Musulmana del Pakistan - Nawaz) a lanciare l’esperimento di Khan. Una ribellione dal basso sebbene messa in mano a un riccone, un moto di cittadinanza contro i professionisti della politica e i clan familiari, padroni del sistema da oltre un cinquantennio.

 

Eppure sono gli epigoni
delle “tribù” Bhutto e Sharif a vendicarsi del sedicente uomo nuovo, presto rivelatosi demagogo e incapace quanto i predecessori. Hanno avuto vita facile in virtù di quel che è accaduto nell’ultimo biennio, quando pandemia e inflazione picchiavano duro su una società che stentava a stare al passo con le sfide geopolitiche regionali, cui il leader del Paese non voleva rinunciare, e le difficoltà di approvvigionamenti energetici indispensabili alle industrie. Se il settore tessile continua a rappresentare i 2/3 dell’esportazione pakistana, lo sfruttamento minerario (per produzioni tradizionali e per talune branche hi-teach) viene usato da aziende straniere, cui vari governi hanno garantito incentivi e sgravi fiscali. Questi s’uniscono a un’assoluta mancanza di diritti e tutele per i lavoratori che, nonostante i richiami alla giustizia d’ogni sponda politica, semplicemente non esistono. Nonostante questi fattori favorevoli a padroncini e multinazionali la perdita del valore della rupia è cresciuta a dismisura, passando da un cambio di 90-92 per un dollaro del 2012, alle 188 rupie attuali. E la salita verticale coincide proprio con l’arrivo di Khan nel 2018, nel cambio c’è stata solo una breve flessione a 150 rupie per un dollaro di metà 2021. Ovviamente l’inflazione è alle stelle con una ricaduta sui prezzi alimentari, anche basilari come il riso, e aumenti che se nel periodo più duro del 2020 oscillavano attorno al 23-25%, per tutto l’anno in corso non sono scesi sotto il 15%. Al di là di cercare contratti energetici favorevoli per cui è volato a Mosca nel giorno in cui Putin avvìava l’invasione dell’Ucraina, il premier pakistano aveva cincischiato iniziative interne rivolte a questioni ideologiche (gli accordi coi fondamentalisti del movimento Tehreek Labbaik, l’incontro coi jiahadisti del gruppo Tehreek-e Taliban conclusosi con un nulla di fatto) più che al travagliato quadro sociale. Sull’onda della popolarità acquisita Khan tirava dritto sentendosi un Politico con la maiuscola, proiettato al cospetto dei grandi del mondo. E’ giunto il tonfo. E le elezioni anticipate se l’Esercito, la lobby più potente degli stessi clan politici, le permetterà, difficilmente offriranno un futuro all’uomo venuto dal campo ovale

martedì 5 aprile 2022

Khan, gran gioco d’azzardo

Da una spregiudicatezza all’altra Imran Khan sembra non perdere un colpo, come nei giorni migliori del suo cricket mondiale. Che non dimentica, anzi in questa fase infuocata diventa un rifugio. “Giocherò fino all’ultima palla” dice davanti a mosse politiche diventate sempre più estreme per le tattiche utilizzate. Il 24 febbraio il premier stringeva la mano a Putin proprio all’avvìo dell’operazione bellica in Ucraina, più d’un notista ne sottolineava la stonatura o la scelta di campo, Khan  tirava dritto cercando di tamponare con accordi energetici vantaggiosi gli svantaggi d’una economia interna strapazzata dalla pandemia più che in altri luoghi del Medio Oriente. Almeno questa è la critica lanciata dall’opposizione che nel mese seguente ha rincarato la dose trovandosi unita, dal Partito del popolo pakistano al Pakistan Democratic Movement al Jamiat Ulema-e Islam Fazal. Formazioni non corpose o che molto consenso avevano perso alle elezioni del 2018, quelle con cui Khan era balzato al vertice con un partito, Pakistan Tehreek-e Insaf, creato poco tempo prima. Ma in quest’ultime settimane l’Esecutivo che guida la nazione con la stringatissima maggioranza di 176 voti ne ha persi una ventina per la defezione d’un alleato che a una verifica può far mancare quei voti. Musica nelle orecchie dell’opposizione che s’apprestava a presentare una mozione di sfiducia con cui Khan avrebbe dovuto dimettersi e indire entro tre mesi le consultazioni politiche con alcuni mesi d’anticipo sulla data naturale dell’agosto 2023. 

 

Ed ecco il colpo da superbattitore, una battuta da quattro punti con la palla che rotola fuori campo, o addirittura da sei quando la sfera rintuzzata vola via senza toccare il terreno. Insomma Khan decide di sciogliere l’Assemblea Nazionale sostenendo che la mozione di sfiducia rappresenta un atto anticostituzionale, un’interferenza ordita all’estero, magari alla Casa Bianca. I partiti della sfiducia si appellano alla Corte Suprema, questa tentenna, si prende un giorno, ieri. Poi un altro, oggi, dicendo col giudice Umar Ata Bandial di non voler “interferire” con faccende di Stato né di politica estera. Il caos - istituzionale, giuridico, politico, securitario - è quasi la normalità nel popoloso Paese islamico dove diversi primi ministri non hanno concluso il mandato per vari incidenti di percorso: golpe, colpi di mano, attentati, dimissioni per corruzione e arresti. Magari anche in quest’occasione la crisi verrà ricomposta e superata, sebbene le mosse dell’attuale premier siano apparse azzardate. Dal voler rivestire un ruolo di primo piano col nuovo governo afghano a trazione talebana, galassia che in Pakistan ha la propria quinta colonna divisa fra la Shura di Peshawar e quella di Quetta, assolutamente autonome da influssi del governo di Islamabad, tutt’al più aperte a relazioni con la sua Intelligence. Al duetto e chiusura con la fazione fondamentalista dei Tehreek-e Labbaik, alle aperture per relazioni mercantili con Pechino ed energetiche con Mosca, tutto alla faccia di Washington. Domani il futuro di Khan potrà proseguire o venir tranciato da un verdetto d’un Tribunale che appare restìo a decisioni lineari, ma è il Pakistan e la sua gente a ritrovarsi nello scompiglio d’una politica che continua a mostrarsi egoistica e autoreferenziale.