Per l’ennesima
volta richiamando l’illustre passato sportivo, è intenzionato a gettarsi nella
mischia - almeno così sostiene - l’ex campione che domani diventerà ex premier
pakistano. Contro l’improvvido gesto di sciogliere un Parlamento che lo stava
sfiduciando Imran Khan ha ricevuto lo schiaffo della Corte Suprema. Uno
schiaffo ponderato per cinque giorni, e forse per questo ancora più sonoro. Lo
speaker dell’Assemblea Nazionale, sodale del Primo Ministro e aderente al suo
stesso partito (Tehreek-e Insaf),
aveva lanciato il cuore oltre l’ostacolo considerando “un’ingerenza straniera” la delibera presentata dall’opposizione
contro un esecutivo azzoppato dal ritiro di ex alleati. La contromossa
governativa, che ha impedito il voto e sciolto il Parlamento (violando la
Costituzione), è considerata illegale dai giudici. Perciò domani i deputati
saranno al loro posto a sfiduciare Khan. Per evitare quel voto lui potrebbe
dimettersi, non eviterebbe l’onta che ne azzera un quinquennio incapace di
giunge al traguardo naturale del prossimo anno. In realtà il campione di
cricket lanciatosi in politica non è il primo premier a cadere anzitempo. Il
decennio che l’ha preceduto, e le epoche passate, hanno conosciuto turbolenze e
colpi bassi, golpe compresi, verso capi di governo incapaci di offrire
stabilità a una nazione di per sé turbata da conflitti ideali, religiosi,
amministrativi. Erano state proprio la questione morale, la corruzione, le
ruberie di cui sono stati accusati esponenti dei maggiori gruppi politici (Partito Popolare Pakistano e Lega Musulmana del Pakistan - Nawaz) a
lanciare l’esperimento di Khan. Una ribellione dal basso sebbene messa in mano
a un riccone, un moto di cittadinanza contro i professionisti della politica e i
clan familiari, padroni del sistema da oltre un cinquantennio.
Eppure sono gli epigoni delle “tribù” Bhutto e Sharif a vendicarsi del sedicente uomo nuovo, presto
rivelatosi demagogo e incapace quanto i predecessori. Hanno avuto vita facile
in virtù di quel che è accaduto nell’ultimo biennio, quando pandemia e inflazione
picchiavano duro su una società che stentava a stare al passo con le sfide
geopolitiche regionali, cui il leader del Paese non voleva rinunciare, e le
difficoltà di approvvigionamenti energetici indispensabili alle industrie. Se
il settore tessile continua a rappresentare i 2/3 dell’esportazione pakistana,
lo sfruttamento minerario (per produzioni tradizionali e per talune branche hi-teach) viene usato da aziende straniere,
cui vari governi hanno garantito incentivi e sgravi fiscali. Questi s’uniscono
a un’assoluta mancanza di diritti e tutele per i lavoratori che, nonostante i
richiami alla giustizia d’ogni sponda politica, semplicemente non esistono. Nonostante
questi fattori favorevoli a padroncini e multinazionali la perdita del valore
della rupia è cresciuta a dismisura, passando da un cambio di 90-92 per un
dollaro del 2012, alle 188 rupie attuali. E la salita verticale coincide
proprio con l’arrivo di Khan nel 2018, nel cambio c’è stata solo una breve
flessione a 150 rupie per un dollaro di metà 2021. Ovviamente l’inflazione è alle
stelle con una ricaduta sui prezzi alimentari, anche basilari come il riso, e aumenti
che se nel periodo più duro del 2020 oscillavano attorno al 23-25%, per tutto
l’anno in corso non sono scesi sotto il 15%. Al di là di cercare contratti
energetici favorevoli per cui è volato a Mosca nel giorno in cui Putin avvìava
l’invasione dell’Ucraina, il premier pakistano aveva cincischiato iniziative
interne rivolte a questioni ideologiche (gli accordi coi fondamentalisti del
movimento Tehreek Labbaik, l’incontro
coi jiahadisti del gruppo Tehreek-e
Taliban conclusosi con un nulla di fatto) più che al travagliato quadro
sociale. Sull’onda della popolarità acquisita Khan tirava dritto sentendosi un
Politico con la maiuscola, proiettato al cospetto dei grandi del mondo. E’
giunto il tonfo. E le elezioni anticipate se l’Esercito, la lobby più potente
degli stessi clan politici, le permetterà, difficilmente offriranno un futuro
all’uomo venuto dal campo ovale
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