Passare dallo
sciupafemmine
milionario all’affarista riciclatore
di denaro e consorti è l’azzardo con cui la politica pakistana continua a
misurarsi. Certo, il fatto che il “nuovo” primo ministro vanti una famiglia
allargata a diverse compagne è vicenda assolutamente personale e privata. Ma in
realtà quest’uomo oggi settantunenne nel Paese che ora guida era famoso per due
ragioni: essere il fratello dell’ex premier Nawaz Sharif e aver inanellato con
disinvoltura cinque unioni. Sia chiaro una per volta, senza harem di ritorno,
con dei distinguo fra quelle ufficiali e altre ufficiose. Insomma Shehbaz
Sharif - capo della Lega Musulmana del Pakistan-N - passato dall’opposizione al
governo, pur con esperienze politiche pregresse, è diventato leader del partito
perché il più noto fratello Nawaz è stato incarcerato per corruzione. Lui stesso
ha avuto grane con la giustizia, sempre roba di denaro: fu accusato di
riciclaggio di oltre una quaranta di milioni di dollari, in un intreccio che
coinvolgeva collaboratori e familiari. Il National
Accountability Bureau sostiene che abbia usato transazioni false per
ricevere cospicue cifre dall’estero, aiutato nell’illecito dal figlio e dal
genero Haroon Yousaf. Intanto nel 2020 in attesa di processo era stato posto in
libertà vigilata, poi l’anno scorso l’Alta Corte di Lahore l’aveva rilasciato
dietro pagamento di cauzione. Ora, dopo la sfiducia rivolta dal Parlamento a
Imran Khan, Shehbaz è incaricato di formare un nuovo Esecutivo. Ma non c’era
un’altra figura cui affidare il delicato ruolo in uno Stato che bolle come una
pentola a pressione?
Beh, la politica
pakistana
improvvisa raramente, quando lo fa come nel caso del campione di cricket posto ai
vertici nazionali si fa del male, quando non lo fa e prevale la logica dei clan
familiari, può fare peggio. I due gruppi che da decenni si palleggiano il
potere – Sharif e Bhutto – hanno bloccato la redistribuzione di ricchezze
interne, avvantaggiando se stessi e le rivendicazioni d’un fondamentalismo
islamico che continua a predicare Jihad non solo contro l’Occidente. I rampolli
Sharif lanciati in politica hanno goduto dei beni di famiglia, il capostipite
Mohammad era un affarista e industriale kashmiro trasferitosi nel Punjab. In
quella regione Shehbaz, dopo essere stato eletto presidente della Camera di
Commercio in base al sostegno dell’azienda siderurgica di casa, ceduta comunque
nel 2004, entrò nell’Assemblea Nazionale nel 1990 per diventarne primo ministro
nel 1997. Durante il golpe militare del 1999 diretto da Musharraf riparò in
Arabia Saudita e vi restò fino al 2007, per tornare a guidare il Punjab nel
2008 e nuovamente nel 2013. Fino al 2018, quando sostituì alla guida del PML-N
il fratello Nawaz inguaiato dallo scandalo dei Panama Papers. Nel suo primo mandato a Lahore e dintorni c’è chi
parla bene di lui: aveva posto attenzione alle carenze sanitarie e
d’istruzione, s’era occupato d’una giustizia parziale e non proprio giusta
verso i ceti subalterni. Finché non vennero fuori accuse di parzialità contro
alcuni cittadini e la denuncia d’un padre il cui figlio risultò ucciso da
repressioni poliziesche. L’accusa alle Forze dell’Ordine e a Shehbaz che ne
aveva richiesto l’intervento era di assassinio extragiudiziale. E i casi furono
più d’uno. L’esilio presso la casa saudita e il tempo hanno giovato a Sharif
che dopo l’assoluzione presso il Tribunale antiterrorismo potè riprendere la
politica e le cariche citate.
Nella prima mossa da
premier
non più del Punjab ma dell’intero Stato, Sharif ha guardato all’Oriente vicino,
vicinissimo, quello travagliato della storia recente. Così ha sorriso a
Narendra Modi ringraziandolo per le congratulazioni ricevute dopo l’incarico.
Nel caos internazionale, che dai conflitti bellici in Ucraina riverbera
tensioni economiche mondiali, cercare sponde prossime gli deve sembrare più
semplice che azzardare partnership globali. Diviso fra Russia e Cina, la prima
per l’energia, l’altra per i capitali d’impresa, il Pakistan continua a
gravitare per questioni di sicurezza sotto lo scudo americano. E il grido del premier
disarcionato, reale o inventato che sia, è rivolto contro gli Usa che avrebbero
favorito un ricambio di vertice a Islamabad. Nell’oceano dei giganti della
politica Shehbaz ha teso la mano a quello meno strutturato, ma così prossimo da
potersi forse intendere su una questione antica e annosa che aveva provocato
tre guerre (1948, 1965, 1971): il Kashmir.
La soluzione pacifica per quella terra cui chiama il neo primo ministro
pakistano rappresenta sicuramente un’àncora per lui che vuole impostare la
leadership sul dialogo. Anche il fratello Nawaz si faceva immortalare mano
nella mano con Modi negli incontri del 2014. Quelli, però, erano gli esordi del
capo di governo indiano, che, anno dopo anno, sono diventati meno tranquillizzanti
per la crescente influenza dell’hindutva
sul Bharatiya Janata Party. Questo radicalismo, come altri nazionalismi globali,
punta sulla conflittualità non lasciando spazio ad alcuna diplomazia. Sharif da
buon affarista sa che il business è più agevole con la pace e punta alla
distensione con Delhi. Però Modi è in scadenza di mandato e un politico in
predicato di sostituirlo, Yogi Adityanath, il monaco appena riconfermato guida
nell’Uttar Pradesh, non è affatto un predicatore tranquillo.
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