mercoledì 13 aprile 2022

Pakistan, i clan tornano al governo

Passare dallo sciupafemmine milionario all’affarista riciclatore di denaro e consorti è l’azzardo con cui la politica pakistana continua a misurarsi. Certo, il fatto che il “nuovo” primo ministro vanti una famiglia allargata a diverse compagne è vicenda assolutamente personale e privata. Ma in realtà quest’uomo oggi settantunenne nel Paese che ora guida era famoso per due ragioni: essere il fratello dell’ex premier Nawaz Sharif e aver inanellato con disinvoltura cinque unioni. Sia chiaro una per volta, senza harem di ritorno, con dei distinguo fra quelle ufficiali e altre ufficiose. Insomma Shehbaz Sharif - capo della Lega Musulmana del Pakistan-N - passato dall’opposizione al governo, pur con esperienze politiche pregresse, è diventato leader del partito perché il più noto fratello Nawaz è stato incarcerato per corruzione. Lui stesso ha avuto grane con la giustizia, sempre roba di denaro: fu accusato di riciclaggio di oltre una quaranta di milioni di dollari, in un intreccio che coinvolgeva collaboratori e familiari. Il National Accountability Bureau sostiene che abbia usato transazioni false per ricevere cospicue cifre dall’estero, aiutato nell’illecito dal figlio e dal genero Haroon Yousaf. Intanto nel 2020 in attesa di processo era stato posto in libertà vigilata, poi l’anno scorso l’Alta Corte di Lahore l’aveva rilasciato dietro pagamento di cauzione. Ora, dopo la sfiducia rivolta dal Parlamento a Imran Khan, Shehbaz è incaricato di formare un nuovo Esecutivo. Ma non c’era un’altra figura cui affidare il delicato ruolo in uno Stato che bolle come una pentola a pressione? 

 

Beh, la politica pakistana improvvisa raramente, quando lo fa come nel caso del campione di cricket posto ai vertici nazionali si fa del male, quando non lo fa e prevale la logica dei clan familiari, può fare peggio. I due gruppi che da decenni si palleggiano il potere – Sharif e Bhutto – hanno bloccato la redistribuzione di ricchezze interne, avvantaggiando se stessi e le rivendicazioni d’un fondamentalismo islamico che continua a predicare Jihad non solo contro l’Occidente. I rampolli Sharif lanciati in politica hanno goduto dei beni di famiglia, il capostipite Mohammad era un affarista e industriale kashmiro trasferitosi nel Punjab. In quella regione Shehbaz, dopo essere stato eletto presidente della Camera di Commercio in base al sostegno dell’azienda siderurgica di casa, ceduta comunque nel 2004, entrò nell’Assemblea Nazionale nel 1990 per diventarne primo ministro nel 1997. Durante il golpe militare del 1999 diretto da Musharraf riparò in Arabia Saudita e vi restò fino al 2007, per tornare a guidare il Punjab nel 2008 e nuovamente nel 2013. Fino al 2018, quando sostituì alla guida del PML-N il fratello Nawaz inguaiato dallo scandalo dei Panama Papers. Nel suo primo mandato a Lahore e dintorni c’è chi parla bene di lui: aveva posto attenzione alle carenze sanitarie e d’istruzione, s’era occupato d’una giustizia parziale e non proprio giusta verso i ceti subalterni. Finché non vennero fuori accuse di parzialità contro alcuni cittadini e la denuncia d’un padre il cui figlio risultò ucciso da repressioni poliziesche. L’accusa alle Forze dell’Ordine e a Shehbaz che ne aveva richiesto l’intervento era di assassinio extragiudiziale. E i casi furono più d’uno. L’esilio presso la casa saudita e il tempo hanno giovato a Sharif che dopo l’assoluzione presso il Tribunale antiterrorismo potè riprendere la politica e le cariche citate.
 

Nella prima mossa da premier non più del Punjab ma dell’intero Stato, Sharif ha guardato all’Oriente vicino, vicinissimo, quello travagliato della storia recente. Così ha sorriso a Narendra Modi ringraziandolo per le congratulazioni ricevute dopo l’incarico. Nel caos internazionale, che dai conflitti bellici in Ucraina riverbera tensioni economiche mondiali, cercare sponde prossime gli deve sembrare più semplice che azzardare partnership globali. Diviso fra Russia e Cina, la prima per l’energia, l’altra per i capitali d’impresa, il Pakistan continua a gravitare per questioni di sicurezza sotto lo scudo americano. E il grido del premier disarcionato, reale o inventato che sia, è rivolto contro gli Usa che avrebbero favorito un ricambio di vertice a Islamabad. Nell’oceano dei giganti della politica Shehbaz ha teso la mano a quello meno strutturato, ma così prossimo da potersi forse intendere su una questione antica e annosa che aveva provocato tre guerre (1948, 1965, 1971): il Kashmir.  La soluzione pacifica per quella terra cui chiama il neo primo ministro pakistano rappresenta sicuramente un’àncora per lui che vuole impostare la leadership sul dialogo. Anche il fratello Nawaz si faceva immortalare mano nella mano con Modi negli incontri del 2014. Quelli, però, erano gli esordi del capo di governo indiano, che, anno dopo anno, sono diventati meno tranquillizzanti per la crescente influenza dell’hindutva sul Bharatiya Janata Party. Questo radicalismo, come altri nazionalismi globali, punta sulla conflittualità non lasciando spazio ad alcuna diplomazia. Sharif da buon affarista sa che il business è più agevole con la pace e punta alla distensione con Delhi. Però Modi è in scadenza di mandato e un politico in predicato di sostituirlo, Yogi Adityanath, il monaco appena riconfermato guida nell’Uttar Pradesh, non è affatto un predicatore tranquillo.


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