“Disinformazione e propaganda”. Mica solo in Ucraina, sebbene quello
scenario sia costellato di orrori e morte, anche i popolosi distretti
pakistani, turbati nei mesi scorsi da tumulti fondamentalisti e attualmente da
turbolenze economiche, stanno vivendo una contrapposizione politica crescente.
Verità e finzione s’intrecciano per influenzare chi osserva esterrefatto un
orizzonte sempre più confuso. E’ l’ex premier Imran Khan, rimosso dall’incarico
dopo la sfiducia parlamentare a infiammare le piazze. Porta in giro per il Paese la sua tesi che
alimenta la protesta: è in atto un subdolo colpo di mano volto a un cambio di rotta.
La regìa, manco a dirlo, sarebbe statunitense, la vittima Imran stesso e il suo
partito, dai politologi marchiato come popolar-populista, che ha rimescolato
decenni di sponda filoamericana, oscillando negli ultimi tempi fra taliban
afghani e pakistani, regime putiniano, la Cina di Xi. Nella visione del Pakistan Tehreek-e Insaf, gruppo fondato
dallo stesso Khan quand’è entrato nell’agone elettorale, ciascuna di queste mosse
ha una logica: verso i coranici oltreconfine e di casa per una politica di
convivenza, verso Mosca per approvvigionamenti energetici indispensabili alle
industrie interne, verso Pechino per inserire la nazione nei commerci delle varie
vie della seta che si dipanano da Oriente a Occidente. Khan non cita gli
ayatollah, perché la sua disinvoltura non è giunta ad avvicinarli: rimuovere l’incistata
concorrenza regionale fra Islamabad e Teheran non è cosa semplice. Comunque
nelle partecipatissime adunate di questi giorni, l’ultima a Karachi, l’ex
campione di cricket ha fatto di tutto per insinuare il sospetto del complotto non
solo nei suoi confronti, ma verso l’intera Umma musulmana del Pakistan. Un rifiuto
l’ha incassato dalle gerarchie militari venute allo scoperto col generale Qamar
Bajwa che ha messo in guardia tutti dalle speculazioni di chi cavalca il popolo
contro gli interessi del popolo.
Le orecchie non sono
fischiate
solo all’infuriato ex premier, che pure nel quinquennio in cui lanciava la
protesta anticorruzione (2013-2018) strizzava l’occhio ai militari ed era
ricambiato, son fischiate anche ai vertici della Lega Musulmana-Nawaz. Tornata in auge con l’attuale primo ministro,
Shahbaz, fratello di uno dei premier pakistani più invischiati nell’affarismo
tangentizio (Nawaz Sharif), anche questo partito viveva attriti con la lobby
militare. La politica tira sempre acqua al proprio mulino, dice di tutto e il
suo contrario, e quando i cambi governativi sono repentini c’è memoria solo di
posizioni recenti, le altre vengono riposte come se non fossero mai state
affermate. In questa latitudine l’attuale turbinìo politico, ai vertici e in
periferia, è particolarmente caotico così si guarda solo al presente. Oggi chi
tesse le lodi dei militari è il clan Sharif. La prossima tappa del tour di Khan
approda a Lahore, capitale del Punjab pakistano, governata da Hamza Sharif, figlio
del premier nazionale. E’ la prima volta nella storia politica pakistana, pur
intrisa di familismo, che si verifica una circostanza simile, fra l’altro
investendo una regione basilare per gli equilibri interni. Dunque c’è attesa
per ondate di retorica e furore. Se le piazze e gli schieramenti dovessero
degenerare, non si escludono soluzioni di forza del militari. Eppure la lobby,
come abbiamo visto carezzata e corteggiata da ogni schieramento (nella partita,
seppure in una fase calante, c’è il clan Bhutto col suo Partito Popolare), sembra spaccata anch’essa. Fonti della perfida Inter-Service
Intelligence rivelano che gli ufficiali di basso rango propendono per Khan, mentre
la vecchia guardia comincia a temerne il populismo e guarda ai partiti
tradizionali come a un passato più tranquillizzante. Anche perché aperto a colpi di mano espliciti
come ai tempi di Zia-ul-Haq e Musharraf.
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