venerdì 30 settembre 2022

Kabul, la bomba sull’esame

 

Una mattina d’esame, la tensione della prova, ma anche la gioia dell’incontro con amici e colleghi d’un percorso difficile, non solo per le materie. Per il luogo. Per l’aria che tira. L’esame si tiene a Kabul, nel quartiere di Dasht-e-Barchi dove gli hazara vivono e troppo spesso muoiono. Per camion-bomba, per kamikaze che ti camminano al fianco e in certe circostanze si fanno esplodere. Da cinque anni, da quando l’Isis-Khorasan s’è organizzato contro tutti e tutto, è tornata anche l’immolazione del miliziano che deflagra  assieme alle sue vittime. Non li fermava la presenza della Nato, non li fermano i talebani, con cui hanno battagliato a distanza dal 2017 attorno all’esplosione più fragorosa, all’attentato più eclatante per mostrare chi è il più abile. Da quando gli studenti coranici hanno preso il potere questa furia distruttiva non è diminuita. Anzi. Iniziava già un anno fa con un centinaio di vittime durante il “passaggio di consegne” fra reparti dei marines che dirigevano la fuga della disperazione all’aeroporto Karzai e i talebani dell’accordo di Doha che s’insediavano nei palazzi del governo. I dissenzienti fra loro, da tempo carne delle milizie del Khorasan, storcevano il naso e preparavano gli ordigni. Ne hanno fatti brillare decine con cadenza mensile, talvolta settimanale, allungando la scia di sangue nelle strade, moschee, scuole, mercati ovunque la popolazione deve aver paura di circolare. Stamane si contano 32 morti e un’infinità di feriti. “L’attacco a obiettivi civili è l’ennesima prova dell’inumana crudeltà e dell’assenza di valori morali” ha affermato il portavoce della polizia dell’Emirato afghano Khalid Zadran, riferendosi all’attentato. Sono giovani e adulti, uomini e donne - prevalentemente studenti di etnìa hazara. Erano riuniti per una prova d’esame in una scuola privata della capitale che li preparava all’ingresso all’università. L’affanno dei loro familiari sta nel cercare segnali sull’accaduto, agognando segni di vita. La speranza è flebile ma resiste, quando si corre verso i pochi ospedali, sempre gli stessi: Emergency, Médecins sans Frontières, si sta appesi a voci che circolano. Che vanno dallo scampato pericolo, cui sebbene abituati non ci si abitua mai, alla disperazione dell’apprendere che uno dei figli è diventato un martire. Proprio come chi lo ha ucciso. Nessun martirio risulta più straziante di quello scelto da un  destino manovrato da chi pianifica morte.

martedì 27 settembre 2022

Piccoli fornaciai a Kabul

 


Quanta polvere respirano a cinque, otto, dodici anni i piccoli fornaciai di Kabul? Molta più di quanto ne incamerano girando per le insicure vie della capitale, dove le strade asfaltate restano sempre poche rispetto a quel che non s’è fatto per decenni e davanti al crescente insediamento urbano. C’è chi fugge dai talebani, ma per andar dove? Restare in città significa avere qualche possibilità di racimolare cibo, pur davanti all’angosciante e pilotata crisi alimentare. I baby fornaciai, fotografati in un servizio dell’Associated Press, erano una realtà presente da tempo, sono semplicemente aumentati col dramma delle difficoltà economiche seguite non tanto al ritiro delle truppe Nato, quanto al congelamento dei fondi di sostegno che annualmente giungevano nel Paese. Se ne discute da mesi, di recente qualche segnale di sblocco appare all’orizzonte.  Intanto i piccoli lavoratori del fango e della terra hanno lavorato per tutta l’estate nella fabbrica a cielo aperto poco a nord della capitale e proseguiranno finché il meteo lo permetterà. I loro genitori non solo permettono, ma sperano che la faccenda proseguirà per incamerare i pochi, maledetti dollari che servono alle casse familiari. I bambini presiedono sotto la supervisione di alcuni adulti tutto il ciclo produttivo, non vengono esentati dai lavori di fatica. Anzi. Trainare recipienti d’acqua necessari a impastare la terra, sollevare cesti di carbone per il fuoco è un compito che non li esclude. Come trasportare le pesanti forme alle fornaci per la cottura. 


Carriola dopo carriola, i manufatti fangosi prendono forma e poi consistenza con la cottura, operazioni ovviamente pericolose oltre che gravose per corpi infantili. Eppure chi li vede all’opera ne sottolinea precisione, pazienza, determinazione qualità da uomini e donne fatte, messe in atto da chi dovrebbe studiare e giocare con gli aquiloni. Per ciascuno giochi pochi e scuola altrettanto. Chi non c’è mai stato, chi l’ha interrotta e vorrebbe riprenderla. Tutti sperano in tempi migliori. Anche perché quei corpicini, soggiogati da pesi e fatica, si fermano dopo ben dieci ore. Dieci ore di dolore. Il panorama in cui si muovono è tetro, sterile, senza vegetazione, solo pietre, fango e mattoni creati dalle fornaci a portata di casa. Lì si susseguono le ventiquattr’ore, perché attorno ci sono i poveri tuguri dove la famiglia vive. I genitori non sono mostri, sono disperati. Alcuni ammettono l’infame condizione, penserebbero anche all’istruzione dei ragazzi ma sopravvivere è il primo passo. Ogni capo famiglia pensa di abbandonare quel luogo e quel lavoro, cercare altro, migliorare. Ma non ora. Ora è impossibile perché non c’è niente attorno e pure a centinaia di chilometri. Quattro dollari per mille mattoni, che un adulto, pure forte e abile, non riesce a produrre. Ci si avvicina: novecento, ma non raggiunge la fatidica cifra, senza la quale non scatta la paga. Se invece ad aiutarlo c’è la prole, i mille mattoni possono salire di numero e diventare addirittura millecinque. E per quel giorno si può mangiare. 

lunedì 26 settembre 2022

Egitto, la vendetta mafiosa di Sisi

 


Amr Alaa Labib Hashad e Oqaba Alaa Labib Hashad sono due fratelli egiziani. Il primo ha ventinove anni, attualmente è un avvocato dei diritti umani dopo essere stato un attivista politico. Per questo era finito in prigione nel 2014, quando il presidente Al Sisi lanciava il suo programma di repressione e terrore. Uscitone nel 2019 è riparato all’estero e ora se ne sta in esilio. Ma non con le mani in mano. Sulla base di quanto ha provato sulla sua carne viva: torture, sparizioni dalle galere dov’era rinchiuso finendo in celle d’isolamento sotterranee, sta dedicando la professione legale a sostegno dei rifugiati e dei prigionieri politici del suo Paese. Per piegarne l’impegno la perfidia dei militari del Cairo s’allunga su suo fratello Oqaba. Ventuno anni, studente universitario del governatorato di Manufiyya con l’handicap di aver perso la gamba destra amputatagli sotto il ginocchio dall’età di sei anni. Lui non si occupa di politica, ma al regime è bastato che lo facesse il fratello maggiore. Così nel maggio 2019 viene fermato negli alloggi universitari insieme ad altri colleghi. A farlo sono agenti della National Security privi di mandato, ma non privati della facoltà di agire fuori dalla legge. Dopo alcuni giorni gli studenti vengono liberati, solo per Oqaba i cancelli non si aprono. Anzi due mesi e mezzo dopo l’arresto viene condotto in una località segreta dove subisce interrogatori e, quando va bene, privazione dei vestiti e sospensioni del corpo al soffitto. 

 

Quando va male torture fisiche coi cavi elettrici, rivolte anche alla parte martoriata del corpo, e psicologiche con la promessa di uscire di galera, annullata al momento del presunto rilascio. E’ un gioco perverso permeato di sadismo che migliaia di giovani egiziani che nulla c’entrano con la politica subiscono da anni. I mukhabarat si dedicano allo sfregio e all’umiliazione dei reclusi e quando mancano di fantasia si rifanno al repertorio imparato dalla Cia nelle camere dei tormenti di Abu Ghraib. Così anche a Oqaba viene stretta una corda al collo, lui sbianca e pensa al peggio, poi vede che deve solo procedere a quattro zampe. Gli sbirri, generosi, lo dispensano dall’abbaiare. L’essere affetto da emofilìa lo conduce spesso in infermeria e gli evita traumi prolungati nelle condizioni descritte. Alla prima udienza davanti alla Corte è accusato di “manifestazioni violente contro lo Stato e possesso di pistola”, resta detenuto ed è trasferito nell’area del Delta del Nilo, prigione di Shibin el-Kom nel governatorato di Manufiyya. Ci resta un anno e mezzo, quindi a gennaio 2021 viene convocato dalla Direzione.  Oqaba è ottimista, pensa al meglio, anche perché si vocifera di un piano di allentamento delle restrizioni detentive da parte del presidente Sisi. Invece arriva la doccia gelatissima: le punizioni nei suoi confronti sarebbero aumentate a causa dell’impegno legale del fratello a favore dei diritti dei detenuti politici.

 

In più, crudelmente, la Direzione del luogo di pena  ordina alle guardie di privarlo della protesi, così da rendergli difficile ogni movimento. Gli viene restituita solo in occasione di apparizioni pubbliche, quando il giovane viene condotto al cospetto dei giudici di un tribunale. Se il suo legale - non il fratello cui il caso è interdetto - si lamenta dell’abuso, la situazione precipita. Così un anno addietro una perquisizione nella sua cella è terminato a colpi di schiaffi, rasatura a zero del capo, requisizione d’ogni effetto personale. In modo che Oqaba e il suo avvocato non s’azzardassero a reclamare alcunché. In aggiunta il giovane è finito per un paio di mesi nel carcere di massima sicurezza di Wadi el-Natrun, nel governatorato di Beheira, promosso dalla propaganda di regime come struttura d’avanguardia con ospedale, farmacie, campi di calcio, ma dov’è rinchiusa la gran parte della Fratellanza Musulmana, cui sconti e trattamenti di favore non si fanno di certo. Forse s’è trattato d’un viaggio-premio istruttivo, tanto per far capire a Oqaba quale futuro l’attenderà se non diverrà collaborativo, accettando i capi d’accusa e le relative condanne. Intanto è tornato nel carcere di Shibin el-Kom, soggiorna assieme ad altri otto detenuti in una cella di due metri per tre. In tre anni le condizioni di salute si sono deteriorate nonostante la giovane età e si ritrova a subìre il canagliesco rinvio del processo ogni 45 giorni. Come accade a migliaia di compatrioti. Quelli noti e sconosciuti. In questi giorni Patrick Zaki giunge all’ennesima udienza. 

sabato 24 settembre 2022

L’Iran dei martiri di ieri e di oggi

 

Alle strade che sfidano la morte ma raccolgono altre vittime, finora una cinquantina, si contrappongono le piazze che inneggiano alla morte, dell’imperialismo di sempre, statunitense, considerato il supporter della rivolta dei capelli. Quelli tagliati ovunque, dentro e fuori la Repubblica Islamica, da giovani donne, ma non solo. Gesti simbolici contro la morte per uccisione, dicono i contestatori, per malanni pregressi, sostiene la polizia iraniana, dell’attivista kurda Mahsa Amini. La settimana che si è chiusa è stata un crescendo di proteste meno legate al malcontento economico di quelle del 2019, meno tratteggiate  dall’imbroglio elettorale rispetto a quanto accadeva nel 2009, ma assolutamente politicizzate contro il regime clericale del velayat-e faqih (il potere del giurista-teologo), voluto personalmente dall’ayatollah Khomeini in occasione della cacciata dello Shah. Ma è la supervisione del clero e della rilanciata polizia morale, è l’ultima parola su ogni legge e ogni atto da parte della Guida Suprema che stanno facendo risuonare in tante città - un’ottantina dichiarano agenzie come Reuters, una dozzina ammette il ministero dell’Interno che ha bloccato ogni rimbalzo sui maggiori social di foto e video postati dai manifestanti - il grido: “Morte a Khamenei”. Questa, che forse la natura sta già facendo maturare non solo per la senilità del soggetto, bensì per l’ultimo malanno da cui risultava operato nello scorso agosto, avverrà prima o poi. Occorre vedere se tale ruolo che ha segnato oltre un quarantennio di vita politica interna e internazionale iraniana avrà seguito. Come tutto ciò accadrà, se senza scossoni di strada e di urne, e chi la incarnerà. Perché se le fiammate, non solo simboliche, non restano celate e vengono coraggiosamente alimentate da una gioventù ribelle, c’è un’altra parte della popolazione che marcia compatta a sostegno del quarantennio finora conosciuto.  

Fatto di guerre laceranti (contro l’Iraq) e di quelle striscianti (in Libano, Siria, Yemen), interventi costosi per un’economia soffocata dalle sanzioni, ma combattute se non più dalla “generazione del fronte” dei basij e mostazafin, da una fetta di quel popolo che rivendica una propria dignità contrapponendosi a nemici che “minano l’autodeterminazione nazionale”. Parola d’ordine antica, rinfocolata, però, da quel cordone sanitario che le sanzioni occidentali e il blocco del programma nucleare hanno creato nell’ultimo decennio. E l’Iran più povero, conservatore, dalla fede oltranzista che si stringe attorno a Khamenei o a chi dovesse subentragli, e a Raisi, un presidente rigido nei modi e nel pensiero difficilmente paragonabile a qualsiasi predecessore, è lì a fare blocco con la polizia morale e con quella che materialmente spara nelle strade. Così ragazze e studenti, i ceti medi non del tutto decaduti economicamente fanno quadrato per un Paese laico che non li perseguiti per acconciature e veli, per idee, parole, canzoni, poesie, sceneggiature cinematografiche accecate e censurate da chi non accetta mondi diversi. Accade in ogni regime, anche dove la religione non si fa Stato, e nell’Iran seviziato dal regime che fu dei Pahlavi un sangue simile è già scorso. Accadde alla stessa ‘Onda verde’ dove le vittime ufficiali furono un centinaio, mentre chi contestava l’elezione di Ahmadinejad disse ch’erano molte di più. Questa società che resta spaccata, arriva a contrapporsi sul sangue. Non riconoscendo nulla all’avversario. Finora i martiri venerati nei crocicchi di certe vie di Teheran erano quelli della vecchia guardia periti nelle trincee sul confine iracheno e successivamente nel sud del Libano. Chi perde la vita in questi giorni, o l’ha già fatto tempo addietro, risulterà un martire o, come sostengono i Pasdaran, è un vandalo che offende il Corano? 


 

   

martedì 20 settembre 2022

Washington-Kabul, la cooperazione dell’illegalità

 

La vicenda di Haji Bashir Noorzai liberato dalla giustizia americana e barattato con l’ingegnere-contractor  statunitense Mark Frerichs, che era detenuto a Kabul, ha diversi risvolti. Il primo, più evidente, lo scambio ufficiale di prigionieri fra le due nazioni, e di fatto un riconoscimento da parte americana dell’autorità talebana. In realtà tutto ciò avveniva anche durante il conflitto fra US Army e insorgenza dei turbanti. Tre presidenti statunitensi (Obama, Trump, Biden) dal 2009 al 2021, in più riprese, hanno colloquiato coi nemici e infine stabilito accordi per l’evacuazione militare dal Paese. Questa mossa, sebbene non sia ampiamente diffusa dai media rispetto alla sicuramente più grave coercizione femminile, sancisce il rafforzamento della linea del confronto, condotta dalla fazione moderata dei talebani di governo. Lo sottolinea con enfasi uno dei suoi esponenti: il ministro degli Esteri Muttaqi. Restano al palo i duri di Kandahar e il clan Haqqani che non s’è proprio curato della faccenda, forse per rispetto al passato di Noorzai, che, come vedremo, ha a che fare con le origini del movimento degli studenti coranici. Certo, l’amministrazione Biden non può continuare a rilanciare il veto politico-economico sull’Emirato nel momento in cui gli Stati Uniti stabiliscono accordi diplomatici coi nemici d’un ventennio che loro stessi hanno deciso di chiudere. E con fretta estrema. Anche la questione del blocco dei miliardi afghani congelati nelle banche occidentali sta prendendo una via di soluzione, per quanto univoca perché quei 3.5 miliardi finora dirottati verso un fondo svizzero per essere destinati all’emergenza umanitaria non giungono nelle mani dell’Emirato, cosa che non piace anche ai turbanti del dialogo. Sono i ‘giri di valzer’ tipici di tutti gli inquilini della Casa Bianca che fanno e non fanno, fanno e negano, fanno in via riservata o palesemente segreta, perché agli occhi degli elettori vogliono sempre mostrarsi come gli “eroi senza macchia” esaltati dalla propria propaganda. 

La realtà non è quella che appare e la storia dell’Escobar dell’Hindu Kush, come veniva definito dalla stampa d’Oltreoceano Noorzai, nonostante fosse nativo del sud, appunto Kandahar, non fa eccezione. Dopo aver combattuto i sovietici come mujaheddin, ha rifornito i talebani degli armamenti ricevuti dagli Usa nel precedente periodo e anche in fasi successive. Il rapporto era talmente fiduciario che Noorzai divenne un collaboratore del governo di Washington che gli forniva protezione. L’interesse per l’affarismo dell’oppio che l’ex mujaheddin mostrava non era un segreto per la Cia, la quale comunque chiudeva entrambe gli occhi. Tantoché pur essendo in cima alla lista dei narcotrafficanti l’afghano continuava apertamente i suoi affari. Nel 2005 Noorzai fu convocato a New York per un incontro “sotto copertura”, visti i precedenti non si fece problemi e partì. Tempo dieci giorni venne arrestato, sottoposto a un processo come pericoloso trafficante di oppio e derivati e successivamente condannato all’ergastolo. Era il 2009. Nello stesso periodo, Hamed Wali Karzai, uno dei fratelli del presidente del governo di Kabul collaborazionista con l’occupazione Nato, che già risultava governatore della provincia di Kandahar, veniva indicato da un’inchiesta giornalistica del New York Times come agente della Cia incaricato di organizzare in quell’area un gruppo paramilitare di soli afghani che praticasse operazioni di Extraordinary rendition. L’uomo, tutt’altro che uno stinco di santo e accusato di appropriamenti illeciti di fondi destinati alla popolazione, nonché di corruzione di giudici, era anche un narcotrafficante. Dopo l’arresto e la condanna di Noorzai, Karzai junior non restò a guardare né fu estraneo alla ricollocazione e al controllo sulla coltivazione del papavero da oppio compiuta dai nuovi boss nelle varie province. Anzi, rispetto ad altri affaristi dell’eroina poteva far pesare la prossimità familiare col potere centrale e l’inquadramento nell’Intelligence a stellestrisce. Entrambi non gli furono d’aiuto. I colpi d’un sicario, sua guardia del corpo, lo finirono un paio d’anni dopo. L’ipotesi d’un regolamento di conti fra i signori della droga rientrava a pieno in quell’assassinio, nonostante il governo e il fratello-presidente indicassero nei talebani i mandanti dell’esecuzione. Allora come ora nella malaterra afghana Washington e Kabul sono sodali.

lunedì 19 settembre 2022

L’India ostile al lavoro delle donne

 

C'è la dottoressa che, dopo aver inviato il personale curriculum di studio e d’esperienza professionale a una clinica privata di Mumbai, giunge al colloquio con i proprietari e tutto sembra andar per il meglio. Alla fine una domanda la spiazza, le chiedono se per lavorare rinuncerebbe all’hijab. “Ovviamente no – risponde – fa parte della mia fede e della mia cultura”. Ovviamente la dottoressa non viene assunta. E non perché quella clinica ostenti un fanatismo hindu, semplicemente perché pazienti hindu potrebbero ‘spazientirsi’ alla vista di quel capo d’abbigliamento con valenza religiosa e la clinica non vuole problemi. Una ricerca condotta da una fondazione indiana mostra come, in ogni caso, la questione non riguarda le lavoratrici, anche professionalmente strutturate, ossequiose al Corano. Anche le donne hindu in cerca di lavoro, di bassa o elevata mansione, si ritrovano discriminate rispetto ai colleghi maschi. Ben il 47% delle lavoratrici indiane, d’ogni credo, può incappare in ostacoli prevalentemente di genere, sebbene gli appigli passino per l’alibi confessionale, elemento che polarizza quella società. Di fatto è l’orientamento maschilista a prevalere, tanto che una nota azienda globale presente anche in quel territorio, lancia uno spot (lo avrete visto in tivù) giocando sul fatto che fra i tanti lavori al maschile, s’aprono spiragli per le donne. 

 


Parliamo di chiusure di genere, prima che di mansioni e salari, viziati anch’essi non solo da pregiudizi patriarcali, ma da sfruttamento femminile. Come accade al lavoro minorile. La ricerca, durata circa un anno, con campioni limitati rispetto all’ingente massa della popolazione ma direzionati secondo uno scandaglio scientifico dei più vari settori sociali, mostra altresì che il caso della dottoressa musulmana era se non unico raro. Le donne islamiche, al di là delle differenti marginalizzazioni, svolgono prevalentemente attività manuali e, rispetto alle hindu,  tendono a rimanere in casa e a dedicarsi a lavori domestici. In realtà la domanda sull’uso pubblico dell’hijab è comparsa in parecchie circostanze per occupazioni soprattutto pubbliche (rivendite, grandi magazzini) dove non si voleva che la lavoratrice apparisse velata. Si è registrata una differente percezione comportamentale fra i diversi Stati, la maggiore domanda di lavoro risulta in quelli settentrionali, rispetto alle aree occidentale e meridionale. Le punte maggiori riguardano Delhi e Maharashtra, dove comunque industria, ricerca, turismo tuttora continuano a sottostimare l’occupazione femminile.

sabato 17 settembre 2022

Khamenei, un male non più oscuro

 

Le ultime apparizioni e immagini ufficiali risalivano al giugno scorso, momento in cui per l’ottantatreenne ayatollah Khamenei dovrebbe essere iniziati nuovi problemi di salute. Notizie recenti lo danno sofferente allo stomaco e febbricitante, tanto da essere sottoposto a un intervento chirurgico intestinale. Otto anni fa Khamenei aveva subìto l’asportazione di un tumore alla prostata e in più occasioni - 2017 e 2019 - veniva dato per spacciato. Voci ricorrenti prevalentemente fra gli oppositori interni e della diaspora. Recentemente anche fonti vicine alle Guardie della Rivoluzione avrebbero ammesso nuovi malesseri della Guida Suprema, che comunque i dottori definiscono in via di graduale miglioramento sebbene la debolezza non gli consentirebbe gestire incontri pubblici. Uno era stato annunciato per questa settimana con un gruppo di studenti universitari. A fine agosto l’agenzia stampa Tasnim, volendo fugare dubbi sull’impossibilità di muoversi di Khamenei, ha mostrato le foto della sua visita al santuario Imam Reza di Mashhad, la città santa degli sciiti iraniani. L’ayatollah cammina senza alcun bisogno di sostegno, ed è immortalato mentre prega col capo riverso su una pietra tombale. Ma proprio questo viaggio potrebbe aver incrinato il fisico indebolito dai malanni e dalla rovente estate, da qui il blocco intestinale. Tutti i suoi appuntamenti sono stati annullati, compresa una riunione con l’Assemblea degli Esperti, l’organismo che dovrà nominarne il sostituto in caso di decesso. Davanti alle varie correnti del clero iraniano che s’incontrano e scontrano per questa nomina, la voce e le indicazioni della Guida Suprema che è destinata a lasciare, vengono tenute in considerazione. Così andò nel passaggio di consegne fra il Rahbar Khomeini e Khamenei stesso, preferito all’ultim’ora ad ayatollah di alto rango (marja-e taqlid) qual era nel 1989 Ali Montazeri. Il cambio di rotta fu causato da contrasti politici: Montazeri non accettava il proseguimento del conflitto con l’Iraq che dissanguava in ogni senso il Paese e le esecuzioni degli oppositori, per i quali chiedeva la “clemenza del profeta”.  Khomeini non gli perdonò il contrasto. In questi giorni in cui il presidente Raisi si recava in Uzbekistan, all’incontro dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, l’opposizione ha rilanciato la voce dell’avvenuta morte di Khamenei. Probabilmente un irrefrenabile desiderio che stavolta potrebbe avvicinarsi alla verità. Però realisticamente gli osservatori facevano notare che se l’evento fosse avvenuto Raisi sarebbe rimasto a Teheran. Negli appuntamenti che si susseguono, delicatissimi come la ventilata riapertura dei colloqui sul nucleare iraniano, la scelta di tale figura tuttora centrale e potentissima nella politica interna e internazionale della Repubblica Islamica, concentrerà attenzione e tensioni. 


 

 

venerdì 16 settembre 2022

Samarcanda, Sharif un richiamo allo SCO

 

Telecamere e taccuini puntati su Xi Jinping e Putin nel vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (SCO) che riunisce e allarga sempre più adesioni e interessi dell’altro mondo, quello che l’egotismo occidentale trascura o demonizza, hanno portato a Samarcanda molte presenze rispetto all’originario manipolo di Repubbliche ex sovietiche (Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan) con cui Cina e Russia percorrevano i primi passi nel 1996. Nel globo che cambia con una ridefinizione di alleanze, spazi e prospettive Pechino e il proprio passepartout della “via della seta” attraggono giganti e pesi medi dell’economia, della demografia, del geopolitica d’un immenso Medioriente. Dunque prima Uzbekistan, poi India, Pakistan, Iran, e Turchia più osservatori e partner dialoganti: Bielorussia, Azerbaijan (doveva partecipare pure l’Armenia ma l’attuale crisi armata con gli azeri ha tenuto a casa il contestato premier Pashinyan) e Sri Lanka, Nepal, Cambogia. Altri Stati potranno inserirsi nell’organizzazione che finora raccoglie il 44% della popolazione mondiale e un quarto del suo Pil. Alle visioni d’ampio respiro cui incontri a due, dei leader russo e cinese per le destabilizzazioni prodotte dalla guerra in Ucraina e dai conseguenti conflitti economici (per ora su gas e cereali), ai dialoghi informali ma sostanziali come quello immortalato dai cronisti presenti fra Erdoğan, Aliyev, Putin, Lukashenko, Raisi, ha cercato spazio un intervento ufficiale dell’attuale primo ministro pakistano Shehbaz Sharif. Che ha ammonito: “In questa fase non dobbiamo compiere l’errore di ignorare l’Afghanistan”. 

 



Più che per la tragedia alimentare che coinvolge da mesi oltre trenta milioni di abitanti di quelle province, più che per le oppressioni rilanciate ai diritti delle donne su lavoro, studio, libertà di movimento e di vita, l’interesse di Sharif è rivolto alla sicurezza. E lui non lo nasconde. Un assillo che riporta in casa - oltre il lungo confine che da un secolo e mezzo ha lacerato il Pashtunistan, tanto caro all’etnìa maggioritaria in terra afghana e alle teorie d’una parte degli attuali talebani, il potente clan Haqqani, e di molti jihadisti presenti di là (Isis Khorasan) e di qua (Tehreek-e-Taliban e Lashkar-e-Tayyiba) - la questione di un’infinita violenza cieca e sanguinaria. Per il premier pakistano rafforzare la sicurezza nel martoriato Paese confinante produce effetti benefici per l’esistenza di milioni d’individui oggi intimoriti anche nell’uscire di casa per paura degli attentati, e poter dare fiato a un’economia inesistente nell’Emirato. Assente, prim’ancora che per le cautele diplomatiche che non portano nessuna nazione a riconoscere il nuovo regime per non offrire sponda all’intransigenza degli studenti coranici, perché qualsiasi investimento necessita di tranquillità, non di bombe di qualsivoglia natura. La stessa Cina, presente da quasi un quindicennio nelle miniere di quella terra e interessata alle sue ‘terre rare’, dovrebbe impegnarsi per la stabilizzazione. Il consiglio è scaturito da valutazioni indirette, Sharif non s’è permesso di dettare l’agenda a Xi, gli allungava la mano sia per l’emergenza dei recenti disastri delle inondazioni casalinghe, sia per iniziative future. Il presidente cinese annuendo ha parlato di cooperazione nei settori agricolo, industriale, e pure tecnologico e scientifico, facendo fischiare le orecchie all’indiano Modi mostratosi freddo con l’omologo pakistano e venendo ripagato con la stessa moneta. Xi ha invitato Sharif a Pechino per il prossimo novembre, se si discuterà anche di sicurezza in Afghanistan e sui confini i due Stati è presto per dirlo.

giovedì 15 settembre 2022

L’Emirato e i soldi afghani

 

La vicenda dei 9.5 miliardi di dollari dello Stato afghano, bloccati da un anno per volere del presidente statunitense Biden come punizione per l’assenza di diritti civili e di genere frutto dell’operato talebano, sta avendo un’evoluzione. 3.5 miliardi di dollari erano stati sequestrati nei mesi scorsi direttamente per volere della Casa Bianca che si preoccupava di offrirli a “beneficio della popolazione afghana”. Ma a propria discrezione. Ora quel denaro è stato sbloccato e convogliato su un fondo fiduciario ospitato in Svizzera presso una sedicente ‘banca d’insediamento internazionale’ che provvede esclusivamente alle procedure di servizio. Dunque non entra nel merito degli orientamenti politici e dell’uso dei dollari. Il fondo viene sorvegliato da un apposito ufficio con la presenza di un rappresentante del governo statunitense, uno del governo svizzero (sic), il capo della Banca centrale afghana nonché ex ministro delle Finanze del governo Ghani, un accademico statunitense, rimasto nel consiglio della Banca centrale dell’Afghanistan. Secondo la valutazione di esperti di economia e finanza la mossa difficilmente potrà risolvere i problemi di crisi alimentare che riguarda oltre 30 milioni di abitanti del Paese. Ci sono poi altri 3.5 miliardi di dollari impugnati in giudizio contro l’Emirato come una sorta di risarcimento contro l’attentato dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle, che com’è noto non è frutto di alcun piano progettuale né esecutivo dei turbanti di Kabul, Kandahar e neppure di Quetta. Comunque una Corte statunitense dovrebbe decidere lo sblocco di quella cifra, che potrebbe essere depositata su un ulteriore fondo. Infine due miliardi e passa di dollari di pertinenza afghana giacciono in banche europee e degli Emirati Arabi. Quali ovviamente è un segreto, non solo bancario. Chi deciderà di direzionarli alla popolazione o alla Banca centrale afghana oppure (è difficile che accada, ma non tralasciamo l’ipotesi) al governo degli studenti coranici non è dato sapere. Da parte sua il governo talebano è impegnato a sviluppare nuove entrate che possano sostituire quel 75% di capitali in precedenza provenienti dalle amministrazioni americane e da Paesi donatori.

martedì 13 settembre 2022

Armeni e azeri, voglia di guerra

 

Chi provoca chi, sulla frontiera armeno-azera, con spari nella notte e soldati colpiti a morte, tutti da una parte sola quella armena. Il cui premier Pashinyan, parlando di aggressione nemica, denuncia quarantanove vittime, un’escalation spaventosa dopo il mese di conflitto di due anni or sono. Allora Yerevan aveva pianto oltre tremila morti, comunque pochi rispetto ai trentamila del precedente conflitto del 1992, frutto non a caso della disgregazione dell’Unione Sovietica. Sull’ultima crisi avevano fatto pesare il bisogno di pacificazione i due Paesi (Russia e Turchia) che i fronti in lotta (Armenia e Azerbaijan) per il conteso Nagorno Kharabakh tiravano per la giacca sperando in un aperto appoggio, se non militare perlomeno politico. Né Putin né Erdoğan, che pure avevano indirettamente duellato sullo scacchiere siriano e su quello libico, s’erano prestati al richiamo. Anzi, dopo un mese di spari e spostamenti di truppe Putin, incredibile ma vero, aveva spinto per una rapida pacificazione. Certo, pace armata, ma tensione soffocata. Sul confine armeno s’erano schierati duemila “portatori di pace” di Mosca che vigilavano dai propri tanks. Finora non era accaduto nulla di eclatante, ma nel commento di alcuni analisti l’improvvisa fiammata delle truppe di Baku potrebbe derivare proprio dallo sbandamento, non solo militare, che i russi registrano nell’area Kharkiv con una ritirata, tutt’altro che strategica, dal sapore di rotta. Così, Aliyev e il suo entourage pensano di cogliere la palla al balzo e schiaffeggiare gli armeni che difficilmente dovrebbero ricevere conforto dai russi, afflitti in Ucraina da questioni più cogenti. E questo nonostante dal maggio scorso sia in vigore il ‘Trattato di Sicurezza Collettiva’ stipulato da Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakistan, Kirghizistan, Tajikistan, un accordo secondo il quale qualsiasi aggressione a uno dei membri viene considerata un attacco all’alleanza militare difensiva. Per ora Lavrov ha invitato i contendenti ad attenersi agli accordi armeno-azeri stipulati nel novembre 2020, favorevoli più a Baku che a Yerevan. Ma negli attuali bollori della geopolitica, anche di quella minuta, ben poco di quel che si sottoscrive resta congelato a lungo.  

 

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sabato 10 settembre 2022

Pakistan, polarizzazione politica e cortocircuito economico all’ombra della galassia talebana

 


Perdere la guida del governo, com’è accaduto nei mesi scorsi a Imran Khan, è inusuale in Pakistan. In verità lo è anche concludere il quinquennio di mandato, visto che nei settantacinque anni di storia interna leader e partiti politici hanno conosciuto colpi di mano militari (con Zia-ul Haq e Musharraf), attentati e assassini (di cui fu vittima Benazir Bhutto), condanne per corruzione (Nawaz Sharif), ma non sono incappati in tradimenti in corso d’opera che ora vedono l’ex premier Khan gridare al complotto. Chi l’ha disarcionato, nell’aprile scorso, è un manipolo di alleati che ne sosteneva l’esecutivo. Al voto di sfiducia - non proprio un fulmine a ciel sereno, perché anche certi deputati del suo schieramento, Pakistan Tehreek-e Insaf, storcevano il naso al barcamenarsi social-politico-teologico del premier - lui aveva risposto puntando i piedi. Chiedeva al presidente Alvi di sciogliere il Parlamento, tempo due settimane subiva il definitivo tracollo: la Corte Suprema pakistana dichiarava quella mossa anticostituzionale. Da quel momento le fazioni pro e contro Khan hanno avviato una contrapposizione che polarizza il clima interno molto più di quanto hanno fatto per anni i maggiori partiti (Partito del popolo pakistano e Lega Musulmana-N), e quanto sul fronte armato realizzano esercito e gruppi del fondamentalismo jihadista. Khan, un vip del panorama cronachistico e mondano per aver guidato la nazionale dalla mezzaluna verde al successo in Coppa del Mondo di cricket trent’anni fa, nella seconda metà dei Novanta scelse lo scenario politico. Il suo organismo, denominato Movimento per la Giustizia, non impensieriva nessuno, né i citati grandi partiti incardinati sui clan familiari, né la lobby militare che osserva, favorisce e ‘corregge’ le mosse di quest’ultimi. Nel 2013 l’exploit: Khan entra in Parlamento circondato da 34 deputati. E nella vincente campagna elettorale del 2018 lancia: sostegno ai valori islamici, come la Lega Musulmana-N, liberismo come PPP e Lega stessa, ma parla d’incremento dello stato sociale, di lotta all’ossessiva corruzione e all’invadente burocrazia, e pure di revisione del sistema poliziesco e dell’onnipresente ombra militare. Una novità, quasi una scheggia impazzita, catalogata dai politologi come dirompente populismo in una nazione infiammata da un populismo marchiato jihad, dentro e oltre i confini.

 

Confini, peraltro, porosissimi nella lunga fascia occidentale segnata, centoventi anni prima e nella metà di secolo precedente la nascita del Pakistan, dalla ‘linea Durand’ che inventava uno Stato afghano dividendo il Pashtunistan, la terra dei pashun, patria dei taliban che non riconoscono monarchie, repubbliche, parlamenti e sanciscono proprie leggi religiose (dell’Islam sunnita) al più relazionate al pashtunwali. Questo passato che non passa e segna la presenza talebana in un’area definita dell’Af-Pak, è l’entità con cui la politica a cavallo di un limes che unisce più che limitare deve fare i conti da decenni. Khan premier ci si è tuffato, vociando a favore dell’Islam fra seguaci fedelissimi; avvicinando le ragioni dei rissosi Tehreek-i Labbaik e del loro capopopolo da lui scarcerato; incontrando i vertici dei temibili e terroristici Tehreek-i Taliban senza comunque stipulare alcun accordo con loro. Passi di realismo politico su cui s’è incrinata l’alleanza che lo sosteneva, sebbene chi lo criticava dall’opposizione, come l’odierno premier Sharif, stia percorrendo la stessa via. E allora qualche verità ci dev’essere nei gridati e partecipati incontri in cui l’ex campione arringa la folla, sebbene per questi raduni sia accusato di terrorismo per aver puntato il dito sugli intoccabili: poliziotti diventati torturatori e magistrati compiacenti. Non è chiaro se ciò che definisce un complotto americano per bloccarlo sia vero, però Khan è il politico pakistano meno allineato all’alleato statunitense che continua a vigilare sulle centosessantacinque testate atomiche collocate su quel terreno. E’ il premier che si recava a Mosca alla vigilia dell’attacco all’Ucraina (lo sapeva? forse no) ma era lì a stringere la mano a Putin e patteggiare forniture di metano, visto che l’agognato gasdotto Tapi resta fermo. E poi a Washington non piace che nei quattro-anni-quattro di governo populista del PTI il grande porto della più abitata metropoli pakistana sia diventato un’enclave economica cinese insinuata nel medioriente arabico. 

 

Allora nell’incontro-scontro fra America e Cina, avvampato più delle estati del cambiamento climatico, scrollarsi di dosso un soggetto che punta a fare il condottiero fuori dai tavoli dove si scrivono le sorti del mondo alleato e di quello dominato, ci può stare. Per non essere un contaballe Khan dovrà mostrare prove, ma se non finisce arrostito da una condanna per ‘terrorismo’ ammessa dalle leggi interne per chiunque infanghi le forze dell’ordine e quelle della giustizia, tenterà nuovamente la partita nell’urna. Intanto chi l’ha rimpiazzato deve predisporre tamponi più che per la pandemia che ha incrinato il Pil - le vite umane non sono state granché conteggiate - per i buchi economici, i mancati affari, la disoccupazione dilagante, l’inflazione arrembante salita al 25%, i disastri che non mancano mai come le recenti alluvioni. E a questo, pur ipercriticato, Khan sembrava orientato svariando sul mercato asiatico, mentre Sharif ripropone la ricetta liberista ‘politicamente corretta’ che guarda unicamente a Occidente. Biasimato anche il sogno di grandezza regionale, non tanto nell’improbabile rivalità con l’elefantiaca India, bensì nell’offrire sponda e interlocuzione ai nuovi padroni d’oltrecortina: i mullah post Omar. Certo, quando si guarda in Afghanistan i pensieri sono raramente pacifici perché quel mondo non è pacificato da chi ci entra più che da chi ci vive oppure è costretto a farlo. Il secondo Emirato ha tratti guerreschi, nonostante la tanta diplomazia profusa da Baradar che s’è speso a Doha e poi a Oslo, prima per pavimentare l’uscita dell’US Army dal pantano generato, quindi per rimediare alla vendetta di Biden che vuole affamare la gente dell’Hindu Kush. E’ il clan Haqqani a dire l’ultima parola su tante cose: così ragazze senza scuola, donne in casa, polizia religiosa per via. E questo gruppo nella ribollente galassia del Pashtunistan diviso che a un certo punto si chiama Pakistan, è un tutt’uno coi fratelli fondamentalisti, taluni fedeli al deobandismo, che sono più radicali di loro: Lashkar-e-Tayyiba, Jamat-ul Da’awa, Jaish-e Muhammad, sigle che esistono da anni o che mutano, ma continuano a trasudare sangue, perché finora non guardano oltre gli attentati che seminano morte e panico diffuso. Vogliono distruggere lo Stato pakistano, loro, senza sentire altra ragione. 

 

Sono organizzati per ceppo tribale, con manipoli formati da parenti per evitare infiltrazioni e tradimenti, risultano difficili da estirpare anche con l’intervento del militarismo più ferreo. Nel 2014 nel Waziristan subirono l’operazione Zarb-e azb, cioè ‘colpo acuto e tagliente’, il cui motto era: “cerca, distruggi, ripulisci, mantieni” il vademecum dei trentamila soldati pakistani impiegati contro i gruppi fondamentalisti locali supportati anche da Qaeda. I miliziani combatterono, molti rimasero sul terreno, i superstiti ripiegarono a ovest oltre il confine che non c’è, ma dove i tank del generale Raheel Sharif non gli mordevano le terga. Furono sfollate 80.000 famiglie, circa un milione di persone. Il territorio del nord Waziristan pareva normalizzato, invece lì e nelle aree tribali (Fata) tutto è tornato come prima; dunque taliban e fratelli fondamentalisti controllano ogni pietra, perché per la legge vigente la polizia non può entrare nelle aree tribali. Contraddizioni d’un sistema complesso e immutato, anche perché la politica che non veste la shalwar kameez ma il tight come i fratelli Shafiz, non disdegna di finanziare le madrase del deobandismo, dove si formano gli ulema del fondamentalismo politico-religioso e gli stessi combattenti anti Stato. Scrutando questo mondo si comprende come il gioco delle parti, che poi è un doppio e triplo giochismo ipocrita, conduce le danze su uno scenario rimasto immutabile nell’essenza machista, patriarcale e capitalista, una trinità radicata anche nella Umma islamica. E’ un po’ tutto il ceto ufficiale pakistano, che mira alle Istituzioni e al potere nazionale, la conseguenza di quel che appare agli occhi d’una popolazione cresciuta a dismisura e sempre più numerosa nonostante i costanti flussi migratori all’estero. Sulle spaccature degli ultimi mesi sicuramente infileranno naso e mani i militari, per un periodo bonari con la novità rappresentata da Khan, e l’ancor più intricata e viscida Intelligence. E’ la forza di cui la nazione gode, ma sono quei “poteri forti” pericolosi per gli spiragli di democrazia, richiamati da tutti ma non si sa quanto amati. 

 

Il secondo Paese musulmano al mondo per numero d’abitanti è oggi il maggior contenitore di profughi d’etnìa pashtun (1.3 milioni) che fuggono da quei pashtun che non vorrebbero: gli studenti coranici. E’ ciò che accade in un divenire dove l’Occidente ha viziato l’aria, imponendo il decrepito modello dei governi-fantoccio, mentre l’Emirato promette quel che non vuol mantenere nei costumi e nel quotidiano, davanti a un’economia semplicemente inesistente perché chi “aiutava” ha insinuato l’idea dell’assistenza che produce l’effetto rimbalzo dell’inerzia e  sudditanza eterne. Quanto si muove d’intorno a Kabul e ai distretti chiamati tuttora Afghanistan sono interessi di entità geopolitiche minori, ma meno afflitte. Negli oltre 1.300 km di confine con lo Stato tajiko i sei punti di attraversamento fra le due nazioni sono da un anno in mano talebana e chi vuole espatriare deve ricevere l’assenso loro e di chi sta al di là. Su questo limite i turbanti dell’Emirato sono coadiuvati dai combattenti della Jamaat Ansarullah, l’ala tajika del Movimento Islamico dell’Uzbekistan a Dushambe bollata come terrorista. Così il locale presidente Rahmon, adducendo ragioni di sicurezza, negli ultimi mesi ha mobilitato truppe verso una frontiera diventata nient’affatto tranquilla. Da parte sua l’Uzbekistan è concentrato sulla questione degli impianti di cui l’Afghanistan è privato da decenni, con l’aggravio dei venti anni d’occupazione della Nato che dei 2000 miliardi di dollari lì convogliati ha fatto scempio senza creare alcuna infrastruttura. Tutt’oggi il 60% delle forniture elettriche presenti sul territorio afghano provengono dall’Uzbekistan, sebbene i mullah non stiano pagando le forniture, sostenendo di non poterlo fare. Comunque, nonostante i black-out, la corrente corre. Fra i confinanti settentrionali a tendere una mano alla pochezza economica afghana c’è pure il Turkmenistan, che durante il primo Emirato s’era posto in posizione neutrale davanti a Omar. Ora da Ashgabat dicono che i bistrattati vicini necessitano di quell’assistenza che l’Occidente nega, però solo un’economia normalizzata può portare sicurezza e stabilità. Volendo far seguire alle parole fatti sempre aleggia il progetto del gasdotto Tapi, basato appunto sul business energetico. Se ne parla da più d’un decennio, le condotte sono già posate in territorio turkmeno, parzialmente altrove, nulla nel lungamente belligerante e travagliato Afghanistan. I taliban, accettando i lavori in loco, avevano promesso 30.000 unità per controllare i cantieri nelle provincie attraversate dalle condutture. Ma l’incapacità di garantire la sicurezza anche in pieno centro di Kabul ha bloccato nuovamente tutto, come ai tempi di Ghani e degli americani. Quella pipeline fa gola all’esplosivo dell’Isis Khorasan e chi finanzia non vuol gettare denaro al vento. In attesa di chissà quale vigilanza, il Tapi resta fermo. Nel loro pragmatismo spiccio i coranici hanno patteggiato con Ashgabat un migliaio di tonnellate di metano per tirare avanti nei prossimi mesi. Poi si vedrà. Un fatalismo di cui è impregnata la politica di questa fase, da Kabul a Islamabad.