lunedì 26 settembre 2022

Egitto, la vendetta mafiosa di Sisi

 


Amr Alaa Labib Hashad e Oqaba Alaa Labib Hashad sono due fratelli egiziani. Il primo ha ventinove anni, attualmente è un avvocato dei diritti umani dopo essere stato un attivista politico. Per questo era finito in prigione nel 2014, quando il presidente Al Sisi lanciava il suo programma di repressione e terrore. Uscitone nel 2019 è riparato all’estero e ora se ne sta in esilio. Ma non con le mani in mano. Sulla base di quanto ha provato sulla sua carne viva: torture, sparizioni dalle galere dov’era rinchiuso finendo in celle d’isolamento sotterranee, sta dedicando la professione legale a sostegno dei rifugiati e dei prigionieri politici del suo Paese. Per piegarne l’impegno la perfidia dei militari del Cairo s’allunga su suo fratello Oqaba. Ventuno anni, studente universitario del governatorato di Manufiyya con l’handicap di aver perso la gamba destra amputatagli sotto il ginocchio dall’età di sei anni. Lui non si occupa di politica, ma al regime è bastato che lo facesse il fratello maggiore. Così nel maggio 2019 viene fermato negli alloggi universitari insieme ad altri colleghi. A farlo sono agenti della National Security privi di mandato, ma non privati della facoltà di agire fuori dalla legge. Dopo alcuni giorni gli studenti vengono liberati, solo per Oqaba i cancelli non si aprono. Anzi due mesi e mezzo dopo l’arresto viene condotto in una località segreta dove subisce interrogatori e, quando va bene, privazione dei vestiti e sospensioni del corpo al soffitto. 

 

Quando va male torture fisiche coi cavi elettrici, rivolte anche alla parte martoriata del corpo, e psicologiche con la promessa di uscire di galera, annullata al momento del presunto rilascio. E’ un gioco perverso permeato di sadismo che migliaia di giovani egiziani che nulla c’entrano con la politica subiscono da anni. I mukhabarat si dedicano allo sfregio e all’umiliazione dei reclusi e quando mancano di fantasia si rifanno al repertorio imparato dalla Cia nelle camere dei tormenti di Abu Ghraib. Così anche a Oqaba viene stretta una corda al collo, lui sbianca e pensa al peggio, poi vede che deve solo procedere a quattro zampe. Gli sbirri, generosi, lo dispensano dall’abbaiare. L’essere affetto da emofilìa lo conduce spesso in infermeria e gli evita traumi prolungati nelle condizioni descritte. Alla prima udienza davanti alla Corte è accusato di “manifestazioni violente contro lo Stato e possesso di pistola”, resta detenuto ed è trasferito nell’area del Delta del Nilo, prigione di Shibin el-Kom nel governatorato di Manufiyya. Ci resta un anno e mezzo, quindi a gennaio 2021 viene convocato dalla Direzione.  Oqaba è ottimista, pensa al meglio, anche perché si vocifera di un piano di allentamento delle restrizioni detentive da parte del presidente Sisi. Invece arriva la doccia gelatissima: le punizioni nei suoi confronti sarebbero aumentate a causa dell’impegno legale del fratello a favore dei diritti dei detenuti politici.

 

In più, crudelmente, la Direzione del luogo di pena  ordina alle guardie di privarlo della protesi, così da rendergli difficile ogni movimento. Gli viene restituita solo in occasione di apparizioni pubbliche, quando il giovane viene condotto al cospetto dei giudici di un tribunale. Se il suo legale - non il fratello cui il caso è interdetto - si lamenta dell’abuso, la situazione precipita. Così un anno addietro una perquisizione nella sua cella è terminato a colpi di schiaffi, rasatura a zero del capo, requisizione d’ogni effetto personale. In modo che Oqaba e il suo avvocato non s’azzardassero a reclamare alcunché. In aggiunta il giovane è finito per un paio di mesi nel carcere di massima sicurezza di Wadi el-Natrun, nel governatorato di Beheira, promosso dalla propaganda di regime come struttura d’avanguardia con ospedale, farmacie, campi di calcio, ma dov’è rinchiusa la gran parte della Fratellanza Musulmana, cui sconti e trattamenti di favore non si fanno di certo. Forse s’è trattato d’un viaggio-premio istruttivo, tanto per far capire a Oqaba quale futuro l’attenderà se non diverrà collaborativo, accettando i capi d’accusa e le relative condanne. Intanto è tornato nel carcere di Shibin el-Kom, soggiorna assieme ad altri otto detenuti in una cella di due metri per tre. In tre anni le condizioni di salute si sono deteriorate nonostante la giovane età e si ritrova a subìre il canagliesco rinvio del processo ogni 45 giorni. Come accade a migliaia di compatrioti. Quelli noti e sconosciuti. In questi giorni Patrick Zaki giunge all’ennesima udienza. 

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