sabato 30 settembre 2023

Nagorno Karabakh, la fuga dei profughi e degli uomini d’oro

 


Nei giorni scorsi mister Vardanyan era intruppato fra i tanti armeni del Nagorno, ormai novantamila, fuggiaschi verso la madrepatria. Però il suo volto noto, non solo per aver fatto il ministro della Repubblica dell’Artsakh ma per essere un grande affarista, con affari stratosferici per sé e per potentati internazionali, l’ha tradito. La polizia azera lo ha fermato e arrestato, comunque a lui non è dispiaciuto. Nelle turbolenze che coinvolgono non solo l’ex regione separatista, accordata dai vertici di Erevan a Baku, ma la stessa Armenia in subbuglio politico contro il premier Pashinyan, l’uomo d’oro potrà giocare le sue carte che da giocatore incallito si servivano degli armeni, anziché servire gli armeni. In un’intervista alla testata britannica The Guardian, che lo conosce bene, ha dichiarato: "È la vita. Se sei pronto a morire per il tuo Paese, va bene. È brutto, ma qualcosa per cui devi essere pronto se stai facendo qualcosa d’importante... la fine della storia può essere molto brutta. E lo sapevo dal primo giorno". Fuor di retorica c’è da scommettere che Ruben Vardanyan, come altri arricchiti di etnìa armena, non morirà anzi troverà nel suo immediato futuro tutto fuorché rifugio da profugo. Sorte che spetta ai poveri ed emaciati che abbandonano le case karabache, non a signori come lui. Sì, ma com’è lui? Secondo la consorte Veronika Zonabend, il marito “E’ un filantropo, oltre che uomo d'affari ed ex ministro di Stato. Ha sofferto accanto ai concittadini dell’Artsakh durante i nove mesi del blocco alimentare e sanitario imposto dagli azeri alla comunità armena del Nagorno”. 

 

Forse per i disagi attuali, e magari anche quelli descritti che avranno colpito la coppia - seppure a dirla tutta a Stephanakert sono stati documentati banchetti di armeni benestanti, mentre tanti compatrioti pativano la fame -  il cuore di moglie non racconta altri risvolti della carriera di mister Vardanyan. Che sono numerosi e sedimentati, sebbene il più prestigioso e inquietante risulta il ruolo di amministratore delegato e azionista della banca d'investimento Troika Dialog. Narra il suo curriculum che Vardanyan aveva fondato la banca Troika Dialog nel 1991 in coppia con tal Peter Derby. Nel 1992 entrò nel consiglio d’amministrazione, divenendo direttore esecutivo. Poi ha acquisito la delega amministrativa e la presidenza della società. Vardanyan ha ricoperto gli incarichi fino alla vendita del gruppo finito, nel 2011, nella pancia di Sberbank, colosso bancario russo e dell’Europa dell’est. L’armeno è rimasto sulla cresta dell’onda e dell’affarismo rampante, ha co-diretto Sberbank CIB, ricoprendo anche incarichi di consulente per l'amministratore delegato e il presidente del consiglio bancario. Insomma, mica roba da poco… E soprattutto gli esperti di crimini finanziari hanno da tempo collocato Troika Dialog fra gli istituti che mascherano operazioni per traslocare capitali oscuri e sporchi, legati a evasioni fiscale e a ogni genere di traffico illecito, in un gioco di sponde fra Russia, alcuni Paesi europei, baltici e caraibici. 

 

Proprio Ruben Vardanyan, conseguendo popolarità fra i connazionali, non solo karabaki, a mezzo d’iniziative caritatevoli che vantavano decine di milioni di dollari e ottimi rapporti con istituti europei blasonati (Deutsche Bank, Raiffeisen, Swedbank, Danske Bank e altri) ha rappresentato il fiduciario nei passaggi di capitali, non come lui sostiene di tycoon e gente facoltosa, bensì del volgare riciclaggio operato da gruppi criminali e manager di Stato. Ovviamente i triangoli di denaro diventavano esotici, raggiungendo strutture offshore delle Isole Vergini, di cui s’era già occupata l’inchiesta Panama Papers.  Che rimbalza anche su una fetta del bel mondo della finanza del vecchio continente o di quei membri dell’Unione chiacchieratissimi (Malta) ma premiati addirittura con la presidenza del Parlamento Europeo. Fra le imprese di Vardanyan, e ce ne sono parecchie, c’era Santerna Holdings Limited, che investiva milioni di dollari (33,4 per la precisione) in un’azienda termale afferente alla moglie d’un politico russo, presidente del Tatarstan. Nel 2020 una Ong dell’anti putiniano Navalny, che faceva le pulci agli intrallazzi degli amici del presidente, notava che Santerna pagava ampiamente più del dovuto i servizi di quell’azienda, facendo di fatto ‘regali’ mascherati al politico. Eppure nella recente crisi, la grande madre Russia poco ha preso a cuore le vicende del Nagorno, nonostante i buoni uffici di mister Vardanyan, che comunque non aveva certo a cuore i fratelli ora profughi. Per quanto all’apparenza il suo arresto abbia le sembianze eroiche del ‘martire’ d’una patria che non c’è più.

venerdì 29 settembre 2023

Belochistan pakistano: Eid Milad-ul-Nabi di morte

 


Eid Milad-ul-Nabi, l’anniversario della nascita di Maometto è inondata di sangue. Stamane a Mastung, distretto del Belochistan pakistano una potente esplosione, piazzata lungo il percorso del corteo celebrativo, ha compiuto una strage. Alcuni testimonianze  sostengono sia deflagrata l’auto del sovrintendente di polizia sotto cui l’ordigno poteva essere stato collocato. Altra ipotesi è l’azione d’un kamikaze che doveva essere imbottito di plastico per quanto lo scoppio è risultato devastante. Per ora le vittime accertate sono oltre cinquanta. Però molti feriti, ricoverati negli ospedali della zona, destano in gravi e potrebbero non farcela. Il sito Dawn afferma che i casi più disperati sono stati dirottati nelle strutture ospedaliere di Quetta. "L'attacco a persone innocenti venute alla processione di Eid Milad-ul-Nabi è un atto molto efferato. I terroristi non hanno fede" ha commentato il ministro dell’Interno Ahmed Bugdi davanti ai media interni, palesando comunque l’estrema difficoltà del governo non solo a controllare l’ordine pubblico anche in occasioni di avvenimenti importanti, ma a evitare la nuova ondata di attentati minacciata fin dalla scorsa estate dal jihadismo. Le ipotesi dell’attentato ruotano attorno a quel fondamentalismo islamico che non gradisce innovazioni sulle tradizionali festività di fede. L’altra pista riguarda il separatismo locale, sostenuto dal Movimento del Belochistan, che alle richieste di gestire proventi di risorse derivate dal metano presente nel sottosuolo, unisce da tempo l’obiettivo di una totale autonomia.

 

Fra l’altro alcuni gruppi dell’oltranzismo islamico agiscono impunemente nell’area, i Tehreek-e Taliban Pakistan compiono azioni dimostrative e attentati, e da almeno due anni altri jihadisti attivi nel Punjab (Lashkar-e Jhangvi e Isis-k) migrano nel Belochistan dove trovano rifugio e complicità. Lo scontro istituzionale fra il partito dell’ex premier Khan (Tehreek-e Insaf Pakistan) e la Lega Musulmana-N che con Shehbaz Sharif sta guidando da un anno e mezzo il Paese, ha nuovamente polarizzato dibattito politico, popolazione e manifestazioni di piazza, creando un vuoto di credibilità per un ceto dirigente rissoso, populista, limitatamente autonomo perché schiacciato dallo strapotere militare che dà e toglie sostegno a candidati e partiti. In queste crepe s’inserisce il fondamentalismo islamico che dopo aver, in parte, dialogato coi partiti di maggioranza si è trovato di fronte a perentorie chiusure e ha ripreso la via degli attentati. Ferimenti e uccisioni si sono susseguite da agosto, accanto alla minaccia di un’escalation crescente fino alle elezioni che dovrebbero tenersi a novembre. La zona di Mastung non è nuova a terribili spargimenti di sangue. Nel luglio del 2018 in un attentato che pareva un bombardamento bellico morirono 128 persone fra cui il politico Siraj Raisani del Belochistan Awami Party. Un raggruppamento con cui il leader voleva riunire le diverse tribù balochi per rivendicare i diritti della provincia, strappando tali obiettivi alla propaganda jihadista. L’attentato compiuto dai miliziani dello Stato Islamico è considerato insieme a quello della Scuola dell’Esercito di Peshawar del 2014, uno dei crimini più efferati della moderna storia pakistana.

martedì 26 settembre 2023

Dal Nagorno Karabakh all’Armenia, il viaggio dell’addio

 


In coda a recuperare benzina e viaggiare verso ovest, riparando nella madrepatria, rinunciando all’accordo che la stessa Armenia ha stipulato con l’Azerbaijan dopo il lampo armato dello scorso 19 settembre. In coda alcune famiglie armene del Nagorno sono finite in un rogo scoppiato presso un magazzino dove si distribuiva carburante: venti vittime, centinaia di feriti. Le autorità azere dell’area, da loro chiamata Khankendi, hanno disposto il ricovero in ospedale degli ustionati, ma la maggior parte ha rifiutato. Non si fidano, davanti a una realtà difficile che per nove mesi ha toccato il fondo col blocco di cibo e medicinali da parte dei soldati di Baku, cui la politica di Erevan ha risposto con l’accusa d’una pulizia etnica nella regione. Di fatto la pulizia la sta creando l’abbandono del Nagorno compiuta da profughi volontari: 4.000 sono già entrati in Armenia, altri 14.000 sono in fila alla frontiera. Partono perché non vedono futuro nell’autonomia regionale, dopo che per trent’anni hanno vissuto nell’illusione d’un proprio Stato, la Repubblica dell’Artsakh, nata e congelata dai conflitti del 1992 e del 2020. L’Armenia continua a lamentarsi sulla sorte dei fratelli del Nagorno, ma nessuno se ne prende cura. Certamente non l’antico protettore Putin né il recente amico Biden, impegnati a scontrarsi sul fronte ucraino.  La restante diplomazia - franco-tedesca - che tiene i contatti coi contendenti, li incontra oggi a Bruxelles per preparare un ulteriore colloquio da tenere a Granada. In realtà i contatti fra governi armeno e azero non mancano, i due fronti hanno anche deciso il controllo azero sulla regione, dove la cittadinanza armena può vivere e godere dei propri diritti, a cominciare dalla sicurezza. Eppure i rappresentanti karabaki osteggiano tale soluzione, buona parte della popolazione nutre timori e un 10% sta prendendo la via dell’esilio forzato.

 

Chi si è mosso nella vetrina internazionale è il solito Erdoğan, che in verità fino a questo momento aveva tenuto un basso profilo. Ha incontrato nell’exclave di Naxçıvan l’omologo azero Aliyev per discutere di rapporti bilaterali e delle questioni regionali ovviamente legate all’ultima crisi del Nagorno. Durante la visita nella regione, Erdoğan ha inaugurato un nuovo gasdotto, la cui costruzione era stata concordata nel 2020 da Turchia e Azerbaijan nell'ambito d’un memorandum d'intesa. Il gasdotto lungo 85 chilometri si estenderà dalla turca Iğdır all’azera Sederek e avrà una capacità annua di 500 milioni di metri cubi. Il progetto è uno sforzo congiunto della società di commercio di petrolio greggio e gas naturale BOTAŞ e della compagnia petrolifera statale SOCAR. I due leader hanno anche discusso l'apertura del corridoio Zangezur verso l'Azerbaijan, che mira a collegare Naxçıvan con la terraferma, attraverso l’utilizzo delle reti ferroviarie e autostradali turche. Il governo di Baku ha pianificato di mettere in funzione la sezione azera del corridoio entro l’anno prossimo. Da parte sua l'Armenia s’è impegnata a garantire la sicurezza dei collegamenti di trasporto fra le regioni occidentali dell'Azerbaijan e Naxçıvan così da facilitare la circolazione di cittadini, veicoli e merci in entrambe le direzioni. Erevan resta, però, contraria al lancio del corridoio e non ha preso misure concrete per ripristinare il tratto di passaggio verso l’exclave che le compete. Di fatto, comunque, il realismo politico si pone davanti a una ricerca di comprensione e collaborazione, infiammare il Caucaso non interessa a nessuno. E probabilmente anche chi si sta misurando con le armi sul suolo ucraino, vuol tenere l’area di petrolio e gas del Caspio fuori da confronti armati, e far scorrere gli idrocarburi per i rifornimenti invernali. In Europa e altrove.

giovedì 21 settembre 2023

Francia-Egitto, lo sporco gioco dei Servizi e l’intimidazione dell’informazione

 


Non potendo prendersela coi suggeritori occulti - la fonte dei cosiddetti Egypt papers, ultimo, penultimo o terz’ultimo capitolo delle notizie segretissime desegretate per mano di ‘informatori’ - gli agenti della Direzione generali dei servizi interni francesi hanno assediato Arianne Lavrilleux, la giornalista che aveva firmato un lavoro collettivo d’inchiesta pubblicato dalla testata investigativa Disclose.  Un’inchiesta ‘vecchia’ di due anni che aveva svelato e denunciato i contorni oscuri dell’operazione Sirli, intreccio affaristico d’Intelligence fra Egitto e Francia con presunte finalità antiterroristiche avvenuta nel 2016.

( vedi inchiesta  https://egypt-papers.disclose.ngo/en/ )

Così Lavrilleux s’è ritrovata l’abitazione di Marsiglia stipata di agenti che l’hanno bloccata e interrogata un giorno intero chiedendole quel che un cronista deontologicamente non può fare: rivelare la fonte della documentazione ottenuta. Tutto avviene con estremo ritardo, come detto l’inchiesta è del 2021, e non crediamo proprio che la reazione poliziesca sia stata rallentata da questioni di pandemia. Dunque? Se non si tratta d’un anticipato volatone securitario a favore di un’opinione pubblica sempre più conservatrice affacciata alle europee, visto che le presidenziali di Francia sono lontane un quadriennio sebbene i sondaggi sorridano a Marie Le Pen, l’aria coercitiva mossa dal presidente Macron è il comune denominatore con cui moderati centristi ed estrema destra s’inseguano, in vari casi col contributo dei sedicenti progressisti. Accade in tutto il vecchio continente.  

 


Dunque è l’aria coercitiva che gira su se stessa e tende a orientare l’opinione pubblica con alibi giustificativi ipernazionali: barriera al terrorismo, sicurezza patria, difesa d’identità e valori col reale intento di limitare e bloccare la controinformazione Quella che dribbla le verità ufficiali cercando altre verità tenute nascoste per ragion di Stato. Proprio quest’ultima ha accompagnato l’operazione poliziesca contro la collaboratrice di Disclose, rea di avere raccolto, selezionato, riassunto centinaia di documenti ottenuti dalla presidenza dell’Eliseo (all’epoca retto dal socialista Hollande), dal Ministero della Difesa e dalla Communauté française de renseignement. Quei documenti evidenziano che la collaborazione fra l’Egitto del generale Al-Sisi e la Francia repubblicana, oltre alla già nota fornitura più o meno miliardaria di aerei da caccia e fregate d’assalto, consisteva in operazioni segrete da effettuarsi nel Sahel contro le formazioni jihadiste locali. Però Il Cairo spostò sui confini libici almeno una ventina di questi attacchi, indirizzandoli contro i commerci più o meno leciti compiuti da carovane beduine, colpendo insomma gente comune. 

Gli “Egypt papers” dicono anche altro: il sistema repressivo di Al Sisi, quello che in contemporanea, siamo nel 2016, si sfuriò anche sul corpo di Giulio Regeni, non era organizzato tutto in proprio. Grazie al partenariato con Agenzie amiche dei Paesi del vecchio continente, i mukhabarat del Cairo potevano spiare i connazionali all’estero e in casa. E dunque, il governo del socialista Hollande aiutò le smanie repressive del generale-presidente, gli fornì suggerimenti e supporti tecnici per l’ampliamento del lager-carcerario, che vede tuttora detenuti sessantamila cittadini e scomparsi quasi una decina di migliaia, per piazzare i propri Rafale sulle piste del grande Paese arabo. Alla faccia de la liberté, che il successore all’Eliseo, ormai inquilino dal 2017, ama a suo modo, sicuramente non a favore dell’informazione alternativa all’ufficialità di ministeri e Servizi. Se in quei Palazzi normalmente si trama (pensiamo alla strage di Ustica del 1980), ma si trama pure a sfavore di chi governa la nazione – la manina che ha dispensato le carte a Disclose non è quella di Arianne Lavrilleux che al più le ha raccolte, selezionate, divulgate -  qual è lo scopo dell’accanimento contro chi mette il proprio lavoro al servizio dei cittadini?

mercoledì 20 settembre 2023

Nagorno Karabakh si rispara

 


Forse per risvegliarla hanno atteso che la diplomazia mondiale, con in prima fila i leader occidentali che la orientano, avviasse l’assise annuale al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite per far brillare mine e spararsi addosso granate nel “giardino nero montuoso“ chiamato Artsakh dagli armeni, Qarabag dagli azeri, al secolo Nagorno-Karabakh. L’area assegnata all’Azerbaijan, con una maggioranza di popolazione armena autorganizzata in Repubblica autonoma e non riconosciuta quasi da nessun Paese, dove ci si fronteggia e si guerreggia ormai da trent’anni. I due conflitti, consumati nel 1992 e nel 2020 - fra gli eserciti armeno e autonomista karabako schierati su un fronte e azero organizzato sull’altro - hanno solo sommato morti, feriti, profughi senza accontentare nessuno. La diplomazia mondiale che siede all’Onu poco o nulla s’è interessata alla diatriba, lasciando che i ‘tutori’ locali, la Russia a favore degli armeni, la Turchia a sostegno degli azeri, gestissero la situazione di pace armata. Non è stato così. Soprattutto le truppe di Mosca che dovevano frapporsi ai contendenti e proporsi ‘portatori di pace’ hanno disatteso il ruolo, anche perché il fronte ucraino ha attirato le loro attenzioni, forze e munizioni. L’esempio eclatante del disinteresse russo, ma pure internazionale, si chiama corridoio di Laçin. E’ una lingua di territorio su cui si srotola una manciata di chilometri di autostrada ed era, sino al conflitto del 2020, il cordone ombelicale fra l’Armenia e l’autoproclamata Repubblica di Artsackh. Su quel passaggio dovevano vigilare i soldati russi che dal dicembre 2022 se ne sono andati. Così, senza colpo ferire, le truppe azere si sono impossessate del check-point dal quale passa tutta la merce che viaggia verso il Nagorno: alimenti, vestiario, medicine, possibili armamenti. Gli azeri sostengono di voler impedire il passaggio di quest’ultime, di fatto da nove mesi impediscono il transito d’ogni cosa tanto da ridurre alla fame la cittadinanza karabaka.

 

A luglio la diplomazia, stavolta europea, aveva messo di fronte i leader delle nazioni in contrasto, l’azero Aliyev e l’armeno Pashinyan, che obtorto collo trovavano una via d’uscita, consistente nel riconoscere l’integrità territoriale dell’Azerbaijan, compresa la lingua di Laçin, in cambio della riapertura del traffico stradale. Invece le autorità karabake hanno smentito i propri mentori, dicendo no a qualsiasi trattativa. A Erevan ci sono fazioni che contestano la gestione dell’attuale premier (ieri si sono registrati scontri fra manifestanti e polizia) e c’è anche chi propone la ricostituzione di quei gruppi paramilitari, già attivi tre anni or sono. Insomma il timore del precipitare della drammatica situazione in una crisi addirittura armata esisteva da settimane. Le deflagrazioni dell’inizio settimana con quattro poliziotti azeri uccisi e il bombardamento di ieri, che ha fatto ventisette vittime fra i civili karabaki, sembrano la materializzazione della crisi. Dopo le esplosioni si risvegliano tutti: la Russia (udite) che chiede un repentino cessate il fuoco, Stati Uniti e Francia anch’esse accusatrici di Baku dell’ennesima destabilizzazione dell’area, il pacioso segretario generale Onu Guterres che invita a una descalation e al più rigoroso rispetto del cessate il fuoco 2020 e dei princìpi del diritto umanitario internazionale (sic). Ordinaria amministrazione della burocrazia diplomatica, perché del territorio in questione non interessa né al mondo, né ai suoi rappresentanti. Le parti in causa fanno della regione una ragione di bandiera, ma sopra e sotto il ‘giardino montuoso’ non ci sono tesori, gli abitanti sono poco più di centomila e sfollano sempre più. La loro sfortuna è quella di non rientrare fra le comunità per le quali la diplomazia che conta trova soluzioni, come accadde con l’invenzione del Kosovo-nazione, in quel caso funzionale agli interessi Nato nell’area balcanica.     

venerdì 15 settembre 2023

L’induismo che svezza l’odio

 


"Svegliare" il popolo indiano, dicono nel loro programma, col sostegno del governo e il sorriso del premier Modi, indaffarato nella mega geopolitica, per quanto questa sia lo specchio di quanto ha già fatto e quanto vuol fare in India e dell’India, anzi del Bharat. Sono i ragazzotti, le forze nuove dell’induismo militante, fanatico, razzista, fascista riunito nelle file del Bajrang Dal, ala giovanile del Vishva Hindu Parishad, uno dei vari raggruppamenti hindu che alla fondazione, quasi sessant’anni fa, non si mostrava fra i più esasperati. Il partito diceva di voler consolidare la tradizione hindu fra feste, celebrazioni e ricette culinarie (sic), ma gli intenti si rivelarono diversi. La struttura giovanile di Vhp, sorta nel 1984, immediatamente ha subìto il fascino delle anime nere dell’hindutva, la teoria razzista di Vinayak Damodar Savarkar in voga nei primi anni del Novecento e sopravvissuta allo stesso creatore. Dunque s’è spinta a organizzare campi d’addestramento e parate militanti più che liturgie. Solo quando queste esaltavano il culto hindu in contrapposizione ad altri esistenti, magari non primigeni ma radicati secolarmente nella cultura del Paese, gli attivisti di casa Bajrang Dal si sentivano a proprio agio. Sfilavano ruotando mazze e bastoni non solo a scopo dimostrativo. Non era trascorso un decennio dalla nascita che l’ala giovanile venne messa fuorilegge per aver partecipato, assieme a gruppi paramilitari hindu del Rashtriya Swayamsevak Sang, alla distruzione del Babri Masjid nella municipalità Ayodhya nell’Uttar Pradesh. Fu questa una delle azioni eclatanti d’un fondamentalismo che in trent’anni è cresciuto anche per la tendenza a ‘lasciar correre’ messa in atto dagli organi di prevenzione e giustizia. Nel 1993, un anno dopo quella distruzione che costò la vita a duemila musulmani indiani, Bajrang Dal si rivedeva ammesso nell’agone politico, che il gruppo intendeva con funzioni crescentemente pugnaci. 

 

In alcune aree, come il Gujurat (non a caso lo Stato dove Modi è esploso politicamente), che costituiscono una roccaforte del gruppo, gli attivisti di Bajrang Dal autorganizzati in una sorta di “polizia territoriale” lanciano iniziative illegali costellate di azioni violente: assalti ad abitazioni musulmane, distruzioni delle loro rivendite, divieto di commercio di cibo halal, fino a espliciti crimini con sequestri e uccisioni di nemici di fede, islamici e cattolici. Negli ultimi tempi la stampa internazionale s’era occupata della persecuzione rivolta alle coppie che si baciano in strada o manifestano pubblicamente il reciproco affetto. In base alla teoria che “simili gesti sono in contrasto con la cultura indiana” chi lo fa viene aggredito dai controllori Bajrang Dal e denudato. La Corte Suprema s’è pronunciata, sentenziando che: baciare in pubblico non è un reato penale. Però i moralizzatori hindu proseguono indisturbati le ronde. La diffusione di operazioni discriminatorie, come il Citizenship amendament act in vigore dal dicembre 2019, con cui l’India impedisce solo a migranti di religione musulmana una possibilità d’accoglienza, costituisce un’istituzionalizzazione della persecuzione su base ideologico-confessionale. E mentre nulla o quasi viene fatto nei confronti di video e programmi televisivi che invitano all’uso delle armi per difendersi dal Jihad che può insidiare la quotidianità, gli obiettivi mostrati non sono gruppi fondamentalisti islamici, che pure esistono, ma direttamente la cittadinanza pacifica della porta accanto che prega Allah o quei bambini che condividono la classe coi propri figli. Più d’un pedagogo si mostra profondamente preoccupato per la diffusione delle armi fra i ragazzi, finora prevalentemente armi improprie o spade, ma l’escalation di violenze parla di armi da fuoco. Accanto a simili convinzioni a ricorrere alle armi, c’è da parte d’un numero crescente di genitori e insegnanti la tendenza a odiare anziché accettare, confrontarsi, comprendere chi è diverso ed esprime altri pensieri. Un noto professore universitario di Delhi lancia il grido d’allarme: ”una generazione di bambini hindu viene trasformata in criminali inconsapevoli”. 

lunedì 11 settembre 2023

India contro Bharat

 

Si chiama India, acronimo di Indian National Developmental Inclusive Alliance, e potrebbe diventare l’incubo di Narendra Modi e del Bharatiya Janata Party alle prossime elezioni politiche di primavera. E’ un’alleanza, ampia, anche troppo ampia, che riunisce da quest’estate ventisei gruppi d’opposizione, intenzionati a scalzare lo strapotere del Bjp sulle urne e sulla nazione che il partito hindu vuole chiamare Bharat. Il cartello s’è riunito per la fondazione a Patna, nel Bihar, nello scorso giugno. Un secondo appuntamento c’è stato nel Karnakta, sotto la supervisione di Sonja Gandhi, e ha deciso la formazione ufficiale. Quindi pochi giorni fa, mentre a Delhi fervevano i preparativi per il G20, i rappresentanti di India s’incontravano a Mumbai, ancora con Sonja e Raoul Gandhi, più il presidente di Shiv Sena, Uddahav Trackeray. Stilavano i punti base per coordinare una comune campagna elettorale comune, su cui c’è ancora tanto da capire. L’idea dell’unione è dirompente, visto che i contendenti s’accingono a confrontarsi con un peso massimo (nella consultazione del 2019 il Bjp superò di 100 milioni di voti il Partito del Congresso giunto secondo). Ma l’antica idea che l’unione fa la forza, deve fare i conti con la possibilità che la ‘macchina da guerra’ predisposta regga all’impatto, visto che l’eterogeneità e la varietà dei gruppi è amplissima. Il partito dei Gandhi ha avuto, anche in anni recenti, un’ampia emorragia di consensi per il modo untuoso e affaristico con cui il clan familiare gestiva il potere. Il bagno di folla compiuto nei mesi scorsi da Raoul con la marcia attraverso gli Stati della Federazione indiana (Bharat Jodo Yatra) ha rappresentato un tentativo di avvicinamento a umori, afrori, passioni, bisogni, desideri del popolo minuto e delle caste. Comunque la volontà sociale del ceto politico del Congresso, non può essere la visione propugnata da taluni partiti comunisti che aderiscono al cartello. Ce n’è più d’uno. Taluni governano o hanno governato degli Stati, come nel Kerala lo storico Communist Party of India, che ha quasi un secolo di vita.

 

Inoltre formazioni che hanno poco più d’un decennio di vita, come Aam Aadmi Party di Arvind Kejriwal tuttora primo ministro nel governo locale di Delhi, sono frutto delle massicce manifestazioni anti-corruzione del 2011, rivolte contro quel ceto dirigente cui la famiglia Gandhi appartiene (magari non direttamente Raoul ma mamma Sonia sì). Ecco l’ennesima contraddizione. Insomma i nodi sono vari e per poter convincere l’elettorato della bontà d’una coalizione che vuole (vorrebbe) ricondurre i rapporti interni sui binari di quella convivenza azzerata dall’esasperazione fondamentalista di settori del partito di governo, gli oppositori dovranno mediare e tollerarsi a vicenda. La scommessa è riuscire a farlo. Perché avvicinare il socialisteggiante Ashish Yadav di Samawadi Party al sulfureo esponente di Shiv Sena, Sanjay Raut, che non diversamente da tanti estremisti hindu lancia frecciate, non solo verbali, sui cittadini islamici chiedendone l’esclusione dal voto (sic) “I musulmani vengono usati come banche di voto, per questo è giusto che quel diritto venga allontanata” (sic) non si sarà impresa improba. Magari Raut si sarà ravveduto, magari no. In realtà il suo partito si sostiene sul pilastro ideologico della razzistica hindutva, né più né meno che il Bharatiya Janata Party, con cui peraltro ha cooperato per un periodo, prima d’un divorzio politico dettato da interessi di potere, non da divergenze ideologiche. E aderire al listone d’opposizione da parte di Uddhav Thackeray, figlio di Bal Keshav il fondatore cinquant’anni fa di Shiv Sena, può essere finalizzato a uscire dall’isolamento al quale la politica del Bjp ha costretto voci minoritarie dell’induismo organizzato. A chi osserva dall’esterno appare strano che un’elezione, per quanto strategica sia, faccia avvicinare le strategie anticomuniste di Shiv Sena con gli attuali progetti del Partito Comunista dell’India. Gli annali raccontano che decenni addietro nell’area di Mumbai Shiv Sena scippò ai comunisti il controllo dei sindacati dell’industria tessile presente sul territorio. Ma le giravolte del clan Thackeray (anche costoro in fondo hanno stabilito un controllo familiare sul partito) sono state varie, e da rivali di comunisti e del Congresso oggi si propongono sodali. Come fanno quest’ultimi ad accettarne la compagnìa è il mistero che, forse, si spiega solo con l’anti “modismo”. 




domenica 10 settembre 2023

G20 - Modi dal trionfo del Bharat all’incognita elettorale

 


Impegnato a fondo come padrone di casa per la riuscita d’un G20 diventato G18 per l’assenza di due pesi massimi della geopolitica: Putin, su cui pende un mandato di cattura della Corte Penale dell’Aja, e Xi Jinping, confinante riottoso verso la grande India, il padrone di casa Narendra Modi può ritenersi soddisfatto. La passerella globale organizzata a Delhi s’è svolta senza intoppi. Il Paese che vuol giganteggiare ha lucidato tutto il possibile, ha celato l’impossibile, ha brillato nell’accoglienza, meno per il valore del summit che appariva claudicante alla notizia dall’assenza dei due leader del fronte opposto all’Occidente. A conclusione del vertice sono proprio gli assenti a valutare con un mezzo sorriso il documento finale, che non condanna la Russia per l’aggressione all’Ucraina, cosa che fa imbestialire il ministro degli Esteri di Kiev, per il quale, differentemente da un anno fa, non è stato previsto neppure uno strapuntino. Kuleba, e il suo capo Zelensky, saranno accontentati incamerando ulteriori armamenti: a breve gli Stati Uniti gli recapiteranno nuovi missili con una gittata di 300 km per rilanciare la spinta offensiva nella possibile riconquista del Donbass. Mah… Modi, che ha sorriso e stretto le mani di tutti i presenti, grandi e presunti tali, era di fatto concentrato su un altro fronte, tutto interno, nazionale e nazionalista: dare l’abbrivio alle elezioni che fra meno di un anno attendono il suo Paese e lui stesso che ambisce al terzo mandato da premier. Il richiamo agli elettori l’ha esplicitato dando fondo all’ennesimo segnale identitario. Ha ufficializzato anche ai membri ospitati e alla stampa internazionale il ‘nuovo’ antico nome della casa-madre:  non chiamateci più India, denominazione coloniale, ma Bharat in lingua hindi o Bharata, secondo la dicitura in sanscrito. Un particolare non tanto etimologico, bensì di sostanza politica, quella che il partito di maggioranza (Bharatiya Janata Party) rivolge al miliardo di hindu con l’orgoglio di chi da tempo si batte per un’identificazione incentrata sulla fede. Eppure c’è chi sta facendo le pulci ai santoni del Bjp, e dice: la carta hindu perde colpi o meglio comincia a non funzionare più l’equazione Bjp-partito degli hindu. 

 

Nonostante tutti gli sforzi compiuti da ministri del governo centrale, presidenti di quelli locali ed esponenti del partito arancione che hanno lanciato campagne identitarie, anche violente, contro le religioni minoritarie, per un’India, pardon per Bharat, nazione esclusiva di hindi e hindu. Quando nel 2014 Modi assumeva il primo incarico da premier, accaparrando 336 seggi nella Lok Sabha, la linea identitaria hindu che lui e il suo partito propugnavano riguardava la conquista di benefici economici per il Paese e per i singoli cittadini. Un riscatto collettivo, per una salita nella scala delle potenze mondiali. La propaganda e la retorica colpivano quelle certezze dell’occidentalismo che nella memoria interna facevano rima con colonialismo. Accadeva un decennio fa, non all’epoca di Gandhi, e l’India ovviamente seguiva da tempo la via capitalistica dei mercati.  Ma l’onda di voler distinguersi da chi, come il Partito del Congresso, aveva governato a lungo con logiche spesso subordinate a potenze straniere, faceva affacciare la nazione-continente all’alleanza dei Brics, cui tiene tuttora.  Modi era apprezzato per origini umili, spirito di sacrificio, altruismo, attenzione alla gente, valori che non ha disperso totalmente; però ha inquinato la scena pubblica intossicandola o accettando che la linea del partito, di per sé conservatrice, s’intossicasse con l’hindutva, che nel Bharat cova l’origine dell’odio. Eccolo, senza maschera, il passaggio razzista, fascista, violento che nel suo secondo quinquennio di governo ha rilanciato lo scontro confessional-fondamentalista con frange islamiste. Un dejà-vu già sviluppatosi in altre epoche quando il Bjp non esisteva o era ancora minoritario. Ma gli attivisti arancioni hanno imitato la foga paramilitare delle squadracce del Rashtriya Swayamsevak Sangh, e protetti dalle forze dell’ordine hanno esaltato la propria identità bruciando le chiese dove i cattolici pregano e le case dove abitano. Perciò, sostengono alcuni politologi indiani, fra fasce di fedeli hindu che vogliono vivere e lavorare in pace c’è un ripensamento. Costoro continueranno a credere nell’identità hindu, ma potranno fare a meno di Modi, se serve del Bjp.