lunedì 31 ottobre 2016

L’ombra di Hekmatyar sul governo di Kabul

Il lanciatore di razzi si proietta ufficialmente in politica. In realtà dalla politica Gulbuddin Hekmatyar non è mai uscito, la sua presenza, ingombrante e inquietante, ha oltre trent’anni di storia. Da quand’era studente d’ingegneria all’università di Kabul e abbracciava ideali marx-leninisti poi riconvertiti verso un Islam, più che puro, fanatico. Così da mujaheddin antisovietico si trasformò in signore della guerra a tuttotondo fondando l’Hezb-i Islami, partito mai tramontato nell’Afghanistan resistente a due invasioni e a tutti i dopoguerra possibili, anche quelli successivi al conflitto civile degli anni Novanta. Hekmatyar il pashtun, fondamentalista tutto d’un pezzo è al tempo stesso un abile osservatore d’ogni mossa politica, qualità che gli ha permesso di sopravvivere a ogni fase che la terra dell’Hindu Kush sta conoscendo, col comune denominatore degli scontri armati, ma non solo. Non è un segreto che l’attuale leadership afghana del presidente Ghani e i suoi tutor statunitensi cerchino soluzioni patteggiate per un presente e futuro per loro ingestibili. Le cercano riaprendo il dialogo coi nemici che dal 2001 hanno ufficialmente spodestato - i talebani - scalzati solo dai palazzi di Kabul, non dal territorio nazionale. Infatti i talib controllano una grossa fetta che oscilla fra le 15 e le 27 province su trentaquattro. Hekmatyar, come altri potentati armati, in tutti questi anni ha continuato a vivere indisturbato in Afghanistan perché nessuno lo ricercava.
Poteva essere accusato di crimini di guerra, ma da chi? Dai governi locali?  Da quei “i missionari di pace” con le divise Nato che lì seminavano morte e commettevano altri crimini? Come altri warlords responsabili di stragi di gente comune, nessun tribunale nazionale e internazionale gli ha mai contestato nulla. Anche per Hekmatyar e altri combattenti antisovietici, è valso quel lasciapassare offerto da Cia e Pentagono, e l’assenza di moralità e autodeterminazione dei premier fantoccio, prima Karzai ora Ghani, hanno fatto il resto. Inoltre l’occupazione, con tanti o pochi militari, continua ad assegnare a ciascun elemento armato, vecchio e nuovo, il ruolo di difensore del suolo patrio, e questa è la narrazione che il capo dell’Hizb-i Islami continua a utilizzare. Nel ‘do ut des’ in corso con Ghani lo staff di Hekmatyar ricordare la propria funzione di difesa del Paese da ingerenze straniere, che nel tempo sono addirittura cresciute passando da finalità geostrategiche, comunque sempre presenti, a interessi economici legati alle scoperte del sottosuolo capaci di mandare in fibrillazione multinazionali e appetiti imperialisti sparsi per il mondo. Perciò un portavoce di quel partito, Amin Karim, in un’intervista concessa ad Al Jazeera ribadisce l’intento di voler lavorare per la libertà e l’indipendenza afghana relazionandosi al governo e non opponendosi più a esso.
Certo Karim dichiara di sentirsi “orgoglioso della resistenza all’occupazione di truppe straniere e rifiuta il concetto di democrazia diffusa coi droni”. Afferma anche che Hekmatyar non cerca contropartite, il suo obiettivo non sarebbe la ricerca del potere politico, premierato o qualche ministero. Per la cronaca ricordiamo che agli inizi degli anni Novanta, Hekmatyar era stato investito del ruolo di capo di governo, ma durò poco. I contrasti con Rabbani e altri leader lo condussero allo scontro. Sanguinosissimo. Oggi l’intento è partecipare attivamente alla politica ufficiale, presentandosi alle elezioni, perché convinto che il popolo afghano sia vicino a ideali e valori promossi dal movimento islamista. Ma se si fa riferimento al ruolo femminile, alle ragazze che non indossano l’hijab, Karim non ha dubbi: quell’abbigliamento fa parte della fede afghana. Per lui il 99% della gente unisce passato e presente, la modernità non dimentica la tradizione. Dice: “La nazione è fatta dalla gente dei villaggi mentre certi codici di vestiario non escono fuori da Kabul, di 5 non di 30 km. La mia personale opinione è che ci dev’essere libertà nel vestire, per uomini e donne, ma coi limiti del rispetto. E sul comune sentire fra il proprio partito e i talebani in una governance islamica l’intervistato non si nasconde: “Per Hizb-i Islami si basa sul senso di giustizia, per altri sul tagliare la mano a un ladro. I percorsi sono differenti, dipende dalle situazioni. Su un punto noi e i talebani concordiamo: combattere per l’indipendenza della nazione”. Più chiaro di così.

giovedì 27 ottobre 2016

Egitto, la crisi morde il regime

Povertà vecchia e nuova - Dal Cairo giungono simili notizie: un ristoratore che finora pagava un suo cuoco attorno alle 1000 lire egiziane mensili (oltre 800 dollari, casi rari ma esistenti) con l’inflazione in corso si troverà a raddoppiare e forse triplicare il salario fino a 2500 dollari attuali. Ma il valore di quel denaro non sarà più tale per la svalutazione monetaria in corso nel Paese e la caduta d’ogni potere d’acquisto. La crescita inflattiva (+14% a settembre) e l’aumento del costo della merce stanno rendendo difficile la vita quotidiana, anche a quei ceti dallo stipendio certo, figurarsi al 28.8% di abitanti annoverati come poveri. Quest’ultima percentuale è ufficiale, dunque contratta per difetto. La stima di poveri e impoveriti è aumentata perché l’economia da oltre cinque anni segna il passo e non migliora affatto. L’ultimo prestito del Fondo Monetario Internazionale all’Egitto ammonta a 12 miliardi di dollari ed è giudicato dal governo sufficiente per sostenere un’economia malaticcia, però in grado di tirare avanti. Per quanto tempo? Anche gli economisti interni s’interrogano sull’incertezza scaturita dalla scarsità di capitali esteri e  conseguenti investimenti. Nel corso dell’estate l’incremento dei prezzi è stato generalizzato, dall’olio, farina e zucchero - che in alcuni casi i grossisti hanno problemi a reperire - all’elettricità. Aumenta tutto e gli osservatori affermano che in un Paese importatore per 60 miliardi di dollari ed esportatore per 20 miliardi, qualsiasi carenza monetaria può significare una mancanza delle più svariate forniture.
Ceto medio addio - Qualche mossa, a metà strada fra il demagogico e l’autolesionista, il governo la compie. Scontenta i ceti più indigenti risparmiando sui sussidi e aumentando il prezzo dei pubblici servizi, introduce una nuova tassa (chiamata Vat) che avrà l’effetto di riversarsi sui prezzi dei principali prodotti. Al contempo cerca di convincere la popolazione a sacrificarsi: “Le coraggiose riforme accorceranno la strada” “Possiamo razionare i consumi, ridurre le importazioni” inneggiano con enfasi i cartelloni pubblicitari che svettano negli angoli più in vista della capitale, come il viadotto 6 Ottobre nei dintorni di Tahrir. Nel cerchiobottismo del regime è prevista anche la carotina, così da qualche settimana esecutivo e apparato militare (gestore di molti prodotti e approvvigionamenti agricoli) hanno lanciato una campagna di offerta della merce a prezzi scontati. Secondo alcuni economisti, mentre la rete di sostegno sociale creata dal governo può aiutare casi singoli, nell’insieme essa non può mitigare l’impatto dell’inflazione, soprattutto su un ceto medio reso molto vulnerabile. Studi internazionali (Rapporto sul benessere sociale) stimano che questo strato della popolazione raccoglie attualmente solo il 5% degli egiziani, con una caduta del 48% nell’ultimo quindicennio. Dal canto suo la Banca mondiale ha calcolato una diminuzione della classe media egiziana dal 14% al 9.8% dal 2000 al 2010. Forse la forbice fra i due studi è troppo ampia, sebbene l’ultimo quinquennio rappresenti il buco nero di quell’entrata che rivaleggiava coi dazi doganali del Canale di Suez: gli introiti turistici. Entrambe sono le voci cardine del Pil nazionale.
Diritto allo studio, un lusso - La stampa ufficiale interna (Al-Ahram) ha indagato fra categorie di lavoratori ancora considerate sicure: gli addetti a una società energetica, che nelle ultime stagioni hanno conosciuto addirittura un aumento di stipendio, ma il cui potere d’acquisto risulta pur sempre fortemente diminuito. Costoro, in quella che era la classe media, sono soggetti a rinunce: devono considerare surplus e beni di lusso anche lo studio dei propri figli. Non solo l’iscrizione all’università, ma la stessa scuola superiore sta diventando un miraggio. In queste famiglie un tempo agiate, la merce che fa tendenza e che viene inseguita, ad esempio i cellulari, si possono acquistare solo a scapito di vacanze o qualche viaggio. Ribadiamo: si parla di gente che poteva permettersi simili svaghi e fatica a mantenere lo status oppure l’ha dovuto abbandonare. Per loro oggi è un lusso garantire ai figli lo studio, un’abitazione dignitosa, una mobilità comoda tramite un’auto privata. I grandi progetti statali (raddoppio canale di Suez) hanno esaurito le riserve estere e alcuni economisti affermano che, accanto ai lavori pubblici, l’attenzione nazionale dovrebbe essere rivolta all’incremento di attività produttive. Per ora il refrain dei sacrifici individuali e collettivi viene rilanciato da personaggi pubblici che mettono la propria faccia al servizio della nazione e di chi la dirige.
“Il controllo della gente” - Amr Adib, noto anchorman televisivo s’è gettato a capofitto nell’iniziativa chiamata “Il controllo della gente” che si propone di abbassare i costi delle materie prime e degli stessi profitti commerciali del 20%. E’ un appello trasversale rivolto ai magnati di produzione e commercio, dunque a certi tycoon come Sawiris e Salem mai usciti dal grande giro affaristico, e ai mercanti di grande e piccolo calibro, Forze Armate comprese. Si tratta di un’iniziativa un po’ populista ma concreta che comunque, secondo certi esperti, pur mitigando i contraccolpi sociali non durerà più di qualche mese. Al di là dei proclami le misure del governo si dimostrano impotenti di fronte a un’inflazione crescente che abbatterà il potere d’acquisto di strati sempre più vasti della popolazione su ogni tipo di merce. E poiché la situazione diventa addirittura più critica dei tempi di Mubarak, c’è chi pronostica l’ennesima esplosione di rivolte di piazza, sebbene la repressione continui a essere durissima. Non da impedire le azioni di nuclei armati. Una settimana fa un commando ha freddato davanti alla sua abitazione il generale Adel Ragaei, fedelissimo di Sisi, che aveva diretto la distruzione dei tunnel del contrabbando sul confine fra la cittadina di Rafah e la Striscia di Gaza e organizzato i trasferimenti forzati degli abitanti di quel territorio. Un agguato probabilmente condotto da gruppi dell’opposizione al regime dislocati nel Sinai, attivi in proprio o in connubio col jihadismo filo Isis. E la mancanza di sicurezza e l’instabilità tengono a distanza qualsiasi investimento estero. 

mercoledì 26 ottobre 2016

Afghanistan, Dostum minaccia Ghani

Da ieri il presidente afghano Ghani non dormirà sonni tranquilli. Il vice che si è scelto, il signore della guerra d’origini uzbeke Rashid Dostum, ha parlato fuori dai denti e l’ha avvertito: guai a non rispettare il suo ruolo e la sua etnia. Nel farlo pubblicamente, in una conferenza stampa, ha sfoggiato tutta la prosopopea possibile, compreso l’aggressivo look del guerriero, come fosse un capitano di ventura rinascimentale. Di quella tipologia il generale ha tutti i geni. Pochi come lui possono vantare una versatilità nel trasformismo politico-militare che attraversa quarant’anni di storia afghana: due invasioni di eserciti stranieri, una sanguinosa guerra civile e ogni dopoguerra. Dostum è stato coi sovietici e coi governi “amici” voluti da Mosca e con la Cia che, dopo aver organizzato i mujaheddin contro i russi, li ha foraggiati anche contro i talebani, a loro volta sostenuti tramite gli alleati sauditi e pakistani. Tutto ciò è più che storia, diventa letteratura della storia del popolo afghano sottoposto al Grande gioco delle potenze mondiali dal XIX secolo a oggi.
Dostum è finito al fianco di Ghani, ultimo fantoccio del progetto statunitense di controllare l’Afghanistan, per garantire al presidente voluto dalla Casa Bianca un’incolumità di fronte al pericolo, nient’affatto teorico, che dopo le elezioni presidenziali del 2014 i gruppi stretti attorno alla candidatura sua e di Abdullah prendessero le armi, gli uni contro gli altri. L’exit strategy (mai compiuta del tutto) doveva concludersi e la recita della democratizzazione del Paese, cui contribuisce anche l’Unione Europea, necessitava di nuovi attori. Così i contendenti, e i signori della guerra che gli stavano attorno, trovarono il compromesso: Ghani presidente, Abdullah premier, Dostum vicepresidente, Sayyaf presente nel sottobosco parlamentare oltre che di governo. Contro questo disegno, che per reggersi non può dimenticare il pashtunwali e tutte le regole fra clan tribali, Dostum ha iniziato a scalpitare perché le etnie pashtun, cui appartiene Ghani, e tajika, riferimento familiare di Abdullah, la fanno da padrone.
Il generale uzbeko, che vive la politica dei palazzi come un noioso ingombro di farebbe a meno a favore delle maniere spicce e forti, non gradisce l’attuale presente con cui Ghani trama con suoi antichi nemici. Il più noto e tuttora potente è Galbuddin Hekmatyar, contro cui Dostum si scontrò apertamente nel triennio 1992-94. I reciproci cannoneggiamenti di Kabul fecero ottantamila vittime civili. Beh, con Hekmatyar Ghani ha di recente stretto un patto di collaborazione, per l’intento non velato di utilizzarlo quale ambasciatore verso quei talebani che potrebbero stabilire colloqui di non belligeranza col governo. Una mossa che è comunque un terreno minato, perché gran parte dei clan talebani hanno invece scelto di attaccare in ogni angolo la sempre più debole amministrazione statale afghana. I talib sentono di poter imporre scelte e non sono propensi a trattare oppure lo faranno alla loro maniera. In più, a seguito dei frazionamenti già avvenuti, per non perdere militanti a favore della propaganda jihadista dell’Isis continuano ad attaccare l’esercito afghano.

Ma quest’ultimo non potrà mai opporsi adeguatamente alle milizie dei turbanti se continua a essere organizzato da personaggi come Mohammad Stanekzai. Questi è il capo dell’Intelligence insediato da Ghani e, a detta di Dostum, ha simpatie talebane tanto che la struttura che dirige fa acqua da tutte le parti. Stanekzai - tuona il vicepresidente -  è l’esempio più sciagurato dei doppiogiochisti che contornano Ghani, che in fondo sono come lui: per curare interessi personali cercano di stare coi piedi su più staffe. Questi faccendieri e corrotti provocherebbero un danno doppio,  mostrando ai sottoposti una totale assenza di posizioni e - afferma Dostum - senza un disegno, un’unica linea di condotta, un senso d’appartenenza  chi lavora per la nazione non crede a quel che fa. Certo il pulpito da cui vengono simili riflessioni non è irreprensibile né immacolato, ma può far meditare il destinatario visto che Dostum non rinnega i percorsi di vita e li ripropone. Per ribadire il concetto, facendo riferimento a Najibullah (politico manovrato dai sovietici, prima difeso quindi abbandonato al suo destino dal signore della guerra uzbeko) ha detto: “Certe persone le ho fatte saltare in aria politicamente e militarmente”. Il futuro per Ghani diventa un incubo.

martedì 25 ottobre 2016

Quetta: strage di poliziotti

Duecento cadetti di una scuola di polizia a Quetta sono diventati nella notte il bersaglio d’un commando talebano della fazione Lashkar-e Jhangvi. Un comunicato dell’agenzia Reuters ne dà sessanta passati per le armi, ma si teme che le vittime possano risultare più numerose perché parecchi fra gli oltre cento feriti versano in gravi condizioni. L’agguato si è svolto in piena notte: neutralizzate le sentinelle gli assalitori sono piombati in due dormitori e hanno colto gli occupanti nel sonno. Il gruppo che ha colpito non è nuovo ad azioni simili, anche perché ormai subisce pesanti repressioni da agenti e militari pakistani con cui ha in corso un braccio di ferro. Dopo un periodo di coperture, patteggiamenti, favori e addirittura addestramenti, avvenuti con più d’un governo dall’attuale di Sharif al precedente di Musharraf, il gruppo fondamentalista deobandi che propaganda lo sterminio della componente sciita presente in Pakistan, non riceve più sostegni dalla politica di Islamabad ed è stato posto fuorilegge. Perciò pratica “l’occhio per occhio”.
Nel Punjab i talebani Jhangvi sono stati trattati con metodi draconiani e hanno perso uno dei leader, Malik Ishaq, uno dei più integerrimi persecutori di sciiti: fu l’organizzatore degli attentati nella moschea del quartiere Murad Khane di Kabul, con oltre 50 vittime, e nella moschea Blu di Mazar-e Sharif alla fine del 2011. Su alcuni capi di questa componente talib, come Riaz Basra stragista a Bassora dove uccise e fece uccidere centinaia di sciiti presi prigionieri, sono sorte leggende. Ufficialmente morì nel 2002, eppure già nel 1999 la polizia affermava d’averlo eliminato e nel Punjab la notizia della sua morte si era ripetuta in svariate circostanze. E c’è chi dubita che durante il partecipato funerale del maggio 2002 nella bara ci fosse davvero il cadavere di Basra. Da qualche tempo i Jhangvi si sono trasferiti a sud-ovest, nell’agitato Baluchistan, così da gravitare su Quetta, città-pilastro di ogni tendenza talebana. Area sempre infuocata visto che, alcune ore prima del massacro della caserma dei cadetti, a Surab 150 km più a sud, erano stati uccisi due poliziotti in pattugliamento.

Il ruolo criminale indirizzato contro la comunità sciita pakistana, che Lashkar-e Jhangvi eredita dalla formazione da cui i capi si staccarono:  Shipa-e Sahaba, sorta nel 1980 come reazione alla rivoluzione khomeinista, si diversifica con questa tipologia di agguati alle forze dell’ordine pakistane. Un percorso seguito anche da altri elementi radicali, come i Tehrik-e Taliban, che attuano attacchi sconsiderati e impopolari per la loro crudeltà. Quello della scuola di Peshawar del dicembre 2014 fu fra i più sanguinari: 145 assassinati di cui 132 bambini e adolescenti. Se i reclutamenti più recenti hanno condotto nelle file di questi combattenti anche criminali comuni che inseguono obiettivi non politici è un discorso che in genere non riguarda le stragi, tutte mirate e dal significato chiaro, volutamente marchiato da sangue e terrore. Per Peshawar, il leader TTP Fazlullah, fece scrivere in un comunicato che i padri militari cui erano stati crivellati i figlioli dovevano provare lo stesso dolore che avevano procurato ai genitori di tanti bambini del Waziristan trucidati coi rastrellamenti omicidi dell’operazione dell’esercito “Zarb-e Azb”. Probabilmente anche per Quetta seguiranno “motivazioni” con logiche perverse, simili ai ferrei comportamenti di tanti  deliri bellici.

venerdì 21 ottobre 2016

Ghannoūshī: “Le dittature sono una malattia da cui l’Islam deve liberarsi”

Combattere il terrorismo con la democrazia - In Italia per incontri ufficiali - ieri ospite alla Farnesina, poi relatore in una conferenza al Senato, oggi con un intervento in un hotel romano - Rachid Ghannoūshī conserva una vitalità che supera età e traversie di vita. La Tunisia che ha amato e servito tanto da patire carcere ed esilio, è pur fra cento contraddizioni una realtà in cui crede, come nell’Islam moderato del partito Ennahda. A quasi sei anni dal vento della rivoluzione dei gelsomini, il suo è l’unico fra i Paesi delle ‘Primavere arabe’ a tenere accesa una luce di trasformazione riformatrice della società. Lontano da fratricide guerre civili e sanguinose repressioni. “La dittatura non è nel destino d’un Paese islamico. E’ una malattia da cui occorre liberarsi, noi l’abbiamo fatto con la rivolta di popolo e continuiamo a farlo costruendo uno stato democratico e pluralista col contributo di partiti di sinistra, liberali, islamici”. Esordisce così l’uomo che in gioventù fu affascinato dal panarabismo nasseriano, ebbe contatti col socialismo ba’thista, con la Fratellanza Musulmana, e studiando teologia s’avvicinò anche alle teorie del pakistano al-Maududi e per questo viene ancor’oggi tacciato di fondamentalismo totalizzante. Però le sue parole affermano altro. “Con nazioni come l’Italia abbiamo un nemico comune: il terrorismo. Dobbiamo combatterlo. Abbiamo anche elementi negativi da debellare quali la migrazione clandestina, causata dalla crisi economica, non possiamo permettere che questa faccia da serbatoio per il reclutamento fondamentalista”.
Equità sociale contro l’illegalità - Le statistiche delle Intelligence indicano come una grossa fetta di jihadisti stranieri provenga proprio da nazioni impegnate nella svolta democratica come Tunisia e Marocco. “Purtroppo - prosegue Ghannoūshī - la mancanza di equità sociale e la carenza di sviluppo sociale costituiscono un serbatoio da cui si reclutano  persone per ogni attività, anche illegale. Libertà, cultura, iniziative sociali ed economiche possono essere l’antibiotico contro il terrorismo. Come pure il pluralismo politico che spinge i cittadini alla partecipazione mentre il fondamentalismo semina paura, praticando la cooptazione tramite la propaganda o l’imposizione. E’ un progetto rivolto in primo luogo contro l’Islam democratico con l’obiettivo di emarginarlo. Il nostro modello che non ha nulla a che vedere col fondamentalismo, si basa sulla dignità e la convivenza, come insegna la storia dell’Islam. Ennahda negli ultimi anni, anche per merito della rivoluzione tunisina, ha conosciuto considerevoli cambiamenti, riscontrabili nella realtà socio-politica del nostro Paese. La democrazia tunisina con la propria scommessa di riformarsi sta resistendo grazie al contributo di tre soggetti: società civile, esercito, movimento islamico. Ciascuno di essi ha praticato una rinuncia, il movimento islamico ha scelto di essere un partito democratico e sta dedicando la sua opera al rafforzamento della nazione, per attuare una democrazia di tutti, non una supremazia di parte. Pur se in un primo periodo le urne ci avevano premiato, non ci siamo arroccati su un potere di gruppo, ci siamo rimessi in gioco. Per ricostruire lo spirito nazionale non basta neppure il 51% del consenso, serve una maggioranza amplissima di almeno due terzi della popolazione.
Costruire il consenso col pluralismo -La Tunisia deve raccogliere e superare queste sfide tramite tutte le componenti politiche, deve produrre ricchezza e redistribuirla fra la gente. Deve rafforzare la sicurezza da attacchi interni ed esterni, scongiurare frazionamenti come quello che si verifica in Libia, un vicino importante per noi e per chi vive sull’altra sponda del Mediterraneo come l’Italia sottoposta più di altri alle attività illecite della tratta dei migranti. Non nascondiamo che esistono correnti islamiche distruttive, l’Islam non ha un papa e non ha un’unica fonte interpretativa. Ci sono diverse letture, la nostra è volta a costruire una società fondata su democrazia e libertà. A chi fa notare che altre versioni dell’Islam cosiddetto moderato, in Egitto e Turchia, non hanno cercato inclusioni, Ghannoūshī risponde: “Certe pratiche fanno perdere terreno all’Islam moderato, noi siamo diversi. Proprio perché l’Islam non è unico, la libertà di lettura sui testi sacri può produrre interpretazioni differenti, fino a forzature settarie, autoritarie o fondamentaliste. Il nostro partito ha scelto di discutere, confrontarsi, votare e decidere a maggioranza. Le risoluzioni sono rispettate da tutti. Altrettanto facciamo nelle Istituzioni statali. Purtroppo tutto ciò non viene ancora colto da certi politologi prigionieri di stereotipi sull’Islam”. A una domanda sui termini presenti nel suo discorso, sottolineato dai concetti di progresso e rivoluzione non da quello di rifondazione, l’anziano leader ribadisce: “L’Islam ha offerto due modelli di potere: quello di tipo faraonico, dispotico e alla fine fallimentare, e il modello adottato nell’antichità dalla regina di Saba. Quest’ultimo interloquisce col popolo e si regge sul consenso. Ennahda e l’Islam moderato percorrono questa strada”.

martedì 18 ottobre 2016

Mosul, liberazione e incertezza

Tutti insieme, però divisi verso Mosul. Iracheni, kurdi - in prevalenza i peshmerga di Barzani, ma a nord-ovest anche i guerriglieri del Pkk -, milizie sciite filo iraniane, turchi, e nei cieli bombardieri statunitensi e della coalizione Nato, italiani compresi. Tutti, addirittura novantamila, contro lo Stato Islamico, che perde territorio (circa il 20% nelle ultime settimane) e organizza una resistenza basata su autobomba e civili usati, contro la loro volontà, come scudi umani. I sette-ottomila miliziani di Al Baghdadi attuano una graduale ritirata strategica a ovest verso il conteso territorio siriano, approfittando di un paio di corridoi lasciati liberi dagli attaccanti e già oggetto di contestazione. E’ lo scenario che da ieri appare sotto gli occhi di osservatori e commentatori e potrà durare giorni o settimane. L’obiettivo ha un valore simbolico e parzialmente strategico, l’elemento prezioso rappresentato dalla diga sul Tigri era già nelle mani della coalizione anti Isis, che lì aveva dislocato la Brigata Aosta dell’esercito italiano. E ci s’interroga sul dopo riconquista, sui differenti obiettivi dell’avanzata, sui disegni di ciascun attore che non collimano e in alcuni casi confliggono con quelli altrui. Perché l’Iraq del post Saddam, invaso e stuprato dagli Stati Uniti - chi non ricorda le bombe al fosforo bianco sganciate su Falluja e l’inferno della prigione di Abu Ghraib - divenne territorio conteso fra etnie, tendenze religiose con tanto di riferimenti interni (i gruppi paramilitari sunniti filo qaedisti come Ansar al-Islam e i loro contendenti mujaheddin) e di sostegni esterni.
Gran parte dell’apparato militare baathista traghettato nel dopo Saddam s’è collocato dentro gruppi armati come quelli citati e altri ancora, misurandosi in un fratricida controllo del territorio. Per questo motivo la soluzione di compromesso che aveva visto nel 2005 le istituzioni divise fra una presidenza nazionale offerta a un politico kurdo, il premierato a un esponente sciita e la presidenza del parlamento assegnata a un sunnita, una sorta di soluzione alla libanese con la differenza della voluttuosa presenza di pozzi petroliferi, non riuscì a sanare una situazione che restava esplosiva. Per lo stillicidio di sanguinosissimi attentati e scontri tra fazioni, incentivata dall’esclusione dalle decisioni e dalla gestione socio-economica che la componente sunnita ha continuato a rivendicare durante i governi di al-Maliki, dopo la scelta federale. Quest’ultima garantisce lo sfruttamento delle risorse del territorio che in fatto di riserve energetiche favoriscono le zone abitate dalle comunità kurda e sciita. Anche dopo il ritiro degli eserciti occupanti Nato (2011) la vita civile ha incontrato l’ostacolo d’una viscerale lotta per il potere; e l’auto emarginazione della popolazione sunnita, che ha in varie circostanze boicottato le elezioni, ha ulteriormente isolato i suoi rappresentanti nell’amministrazione statale. La conseguente frustrazione, il mantenimento di un’elevata conflittualità hanno creato terreno favorevole alle posizioni fondamentaliste rappresentate dal nuovo jihad col marchio del Daesh, finito con le bandiere nere sventolate nella popolosa città e il proclama dell’autonominato Califfo.  
Non partecipano direttamente all’operazione, ma combattono l’Isis sul fronte siriano i lealisti di Damasco fedeli ad Asad, gli alleati Hezbollah libanesi più i consiglieri da combattimento iraniani, con la supervisione e super copertura aerea russa. S’oppone allo Stato Islamico anche la coalizione delle petromonarchie e varie nazioni arabe (Egitto, Giordania, Marocco) più la Turchia, onnipresente e divisa fra l’alleanza politica con questi Paesi, quella militare con le forze Nato grazie alla quale lancia i suoi carri armati sul suolo iracheno, sebbene Barzani non gradisca. L’azione su Mosul, rapida o più lenta che potrà essere, rappresenta una fase di passaggio su un territorio la cui stabilizzazione non è stata resa possibile da guerre del Golfo, conflitti civili striscianti o palesi. La forma federale potrebbe proseguire la sua parvenza di autogestione etnica o confessionale, seppure iniqua per alcuni, ciò che viene a mancare è la forma Stato. La vede fallire anche Al Baghdadi che deve recedere dal sogno di due estati fa, sotto i colpi di tanti nemici, uniti comunque solo dall’essere avversi al suo fondamentalismo. Questo deve riparare nelle enclavi jihadiste siriane, finché reggeranno, o negli altri territori frantumati siano Libia, Yemen o chi verrà. Lo scenario che può profilarsi è la sconfitta del Daesh, come struttura statale e territoriale, e una sua conservazione come disegno politico teorico e armato d’opposizione all’Occidente, praticando l’attentato sanguinario che ne sconvolge la vita civile. Mentre un enorme tratto di Medio Oriente (Iraq e Siria per prime) potrà essere smembrato in più entità amministrative, secondo le mire delle potenze mondiali e regionali. E in faccia agli interessi dei popoli.


mercoledì 12 ottobre 2016

Afghanistan, il tempo dei talib

Infilarsi nel colabrodo dei controlli predisposti dall’Afghan National Forces e colpire è diventato una gara aperta fra le componenti del combattentismo afghano. Chi abbia colpito ieri sera la comunità sciita raccolta davanti a una moschea di Kabul (13 vittime e una cinquantina di feriti) è ancora impossibile sapere: manca una rivendicazione e una nota governativa si limita a solidarizzare coi familiari delle vittime e stigmatizzare l’ennesimo attacco mortale. Non è, però, in grado di evitare spargimenti di sangue. Anzi, una voce dell’Intelligence interna rivela all’emittente Tolo tv che si temono nuovi attentati per le celebrazioni dell’Ashura (la festa sciita in cui si ricorda la morte di Hussein, nipote del profeta). In contraddizione con questi timori non si comprende perché ieri, in occasione dell’arrivo di centinaia di fedeli, la moschea in altre occasioni presidiatissima risultasse poco vigilata. Lo sostenevano ai microfoni della tivù afghana alcuni feriti. L’ipotesi che nelle file del fondamentalismo sunnita ci sia chi vuole innescare un conflitto religioso con la minoranza hazara (di fede sciita) era stata già avanzata nella scorsa estate in occasione della strage (oltre ottanta vittime) che aveva colpito questa comunità riunita in corteo per le vie della capitale.
Se si tratti di talebani dissidenti che si sono avvicinati all’Isis oppure di quel fondamentalismo deobandi, comunque presenta fra alcuni clan taliban, non è tuttora chiaro. Sebbene negli scossoni, non senza conflittualità, che hanno attraversato quella galassia negli ultimi diciotto mesi per rimpiazzare alla guida il defunto mullah Omar, anche gli irriducibili della rete di Haqqani s’erano accordati coi mullah di Quetta per una strategia unitaria. E questa da tempo non prevede fratture etniche né religiose. Certo, gli hazara sono sempre trattati come paria dai gruppi tribali pashtun, ma un’offensiva interna mirata contro gli sciiti non era all’ordine del giorno. Almeno finora. Indiziati i guerriglieri irriducibili Tehreek-e Taliban, schierati col disegno del Daesh e sostenuti dell’Isi pakistana. Oppure, facendo un’escursione nel passato, qualche miliziano di Hekmatyar, lo storico massacratore di hazara all’epoca della guerra civile interna. Ma quest’ultima è un’ipotesi poco credibile. Hekmatyar ha appena firmato un patto col governo d’Unità Nazionale, s’appresta a essere un interlocutore dei talebani disposti al dialogo con Ghani così da finire imbarcati in un governone aperto a tutti: amministratori filo occidentali, signori della guerra più o meno fondamentalisti, talebani. “Se non puoi battere il nemico, fattelo amico” sentenzia uno storico motto.
E citando un’altra frase celebre della guerra infinita, nata sulle montagne dell’Hindu Kush e continuata nelle valli, pianure e città afghane: “Gli americani hanno il controllo dell’ora, i talebani quello del tempo”. Un elemento sul quale lo stesso Pentagono ha molto ragionato nell’ultimo biennio tanto da spingere sulle stesse resistenze del mondo politico statunitense, democratico o repubblicano, a uscire dall’avventura afghana, giudicata assolutamente fallimentare. La linea incarnata dal segretario di Stato Kerry ha molto battuto sulla favola di un’amministrazione autoctona pur legata a personaggi ampiamente pilotati. E’ la coppia Ghani-Abdullah, peraltro in connubio forzato onde evitare conflitti fra le etnie e i clan tribali che sostenevano l’uno contro l’altro. Sfiorato il conflitto interno il Paese naviga a vista da due anni. Continua a essere afflitto da burocrati inefficienti e corrotti, a sperperare il denaro degli aiuti internazionali che finisce nelle solite mani di potentati, a subire attacchi sempre più smaccati dai resistenti che, piano estremo, vengono convocati al tavolo delle trattative ma non è detto che ci si siedano. I Talib chiedono di più, alcuni di loro pensano di poter avere carta bianca come nel 1996 e rilanciare l’Emirato. Poiché si ritengono gli unici in grado di poterlo attuare su un territorio che per buona parte è la propria casa, le Fata, e perché hanno messo radici anche lì dove gli antichi warlord sono originari.