mercoledì 31 maggio 2017

Kabul, esplode la Moab della guerriglia

Un’esplosione tremenda , mai sentita una così potente“ ha twittato un testimone sopravvissuto ma scosso nella testa oltre che nelle membra. Il camion-bomba saltato in aria stamane nel cuore di Kabul è una conferma di quel che accade da circa tre anni nella capitale afghana, con l’aggravante di un’escalation che diffonde sempre più paura e morte. Ufficialmente le vittime sono 19 e i feriti alcune centinaia, però  giornalisti locali che stanno postando sui social media immagini e commenti già parlano di 50 morti e prevedono un tragico aumento viste le condizioni disperate di diversi feriti. Così il ‘poligono afghano’ aumenta la potenza di fuoco: alla Moab statunitense la guerriglia risponde con ordigni esagerati collocati nei luoghi un tempo considerati sicuri: il quartiere delle ambasciate. E’ quella che chiamammo la città proibita, che risulta tuttora controllatissima. Che mostra cinta di mura concentriche vigilate a strati: esternamente dall’esercito locale, quindi da contractors e nella fascia più interna dai reparti speciali di quel che fu l’Isaf, trasformatasi nelle cangianti sigle Nato in Resolute Support. Questa presunta morsa risulta da tempo permeabilissima, e se da una parte è chiaro che la zona esterna vigilata dai soldati afghani mostra un ventre più che molle e può essere superata grazie a infiltrazioni, si può pensare che i miliziani abbiano cominciato a infiltrare anche le truppe mercenarie e che fra le fila dei militari Nato si muovono agenti dei Servizi (Cia, MI6, Isi?) mica tanto amici che favoriscono questo genere di azioni. Supposizioni, più che fantasie, suffragate da  fatti che parlano chiaro: Kabul e il suo cuore risultano totalmente sotto scacco degli insorti, che stamane hanno recapitato immediatamente la rivendicazione dell’attentato con una firma congiunta Isis-taliban.

Quali talib? Quelli che dissentono con la Shura di Quetta e hanno stilato una linea comune con l’Isis o che ne utilizzano il brand? O i medesimi miliziani che colpiscono indisturbati da due anni, occupano province, praticano il mordi e fuggi d’una guerriglia comunque presente in pianta stabile su due terzi del territorio? che poi sono gli stessi con cui il presidente Ghani vuole intavolare colloqui e spera di cooptare per un “governo di pacificazione” e per questo ha scelto come maestro di cerimonie il macellaio Hekmatyar? Rispetto a quanto abbiamo analizzato in due recenti articoli che trattavano i piani per il presente che è già futuro nella politica statunitense sul suolo afghano, il generale Nicholson ha esplicitato la necessità d’un ritorno al passato rimettendo “boots on the ground”.  La motivazione principale è l’insicurezza assoluta evidenziata dalla quotidianità del Paese e attentati come l’odierno sono musica sulle corde del generale. Ovviamente gli strateghi di Washington non citano il totale fallimento del proprio progetto di “normalizzazione” che ha visto spendere cifre iperboliche proprio per la creazione e l’addestramento di un esercito locale che ha raggiunto numeri considerevoli (oltre 350.000 unità) e che mostra contraddizioni pazzesche: diserzioni, accaparramenti illeciti e corruzioni totalmente trasversali dai vertici alla base. Con armi scomparse o vendute a taliban e ai gruppi paramilitari dei vari signori della guerra. E col corposo fenomeno dell’infiltrazione grazie al quale operazioni di terrore come quella di stamane sono resi possibili. Ma quest’ultime inseguono e si legano all’altro terrore conosciuto negli anni dell’Enduring freedom: bombardamenti sui civili, assassini mirati e non, rendition verso l’intera popolazione. Tutto ciò non è mai finito. E probabilmente riprenderà in grande stile.

martedì 30 maggio 2017

Mondi e fedi della strage perenne

Giorni addietro, in uno spettrale intervento sui social media anche più cieco del fondamentalismo, qualcuno ha definito l’assassinio dei 29 pellegrini copti benaugurante per l’avvio del Ramadan. Al torbido commentatore islamista facevano eco i crociati dell’informazione nostrana pronti a ribadire che l’unica soluzione è lo scontro, cercando vendette a tuttotondo nei confronti dell’Isis, di jihadisti veri e presunti, quindi imam e ayatollah, fedeli e miscredenti arabi, turchi o persiani, e minoranze etniche, e rifugiati, e migranti: insomma i barbari che minacciano Santa Romana Chiesa. L’affermano apertamente, questi difensori delle nostre radici che non si dichiarano oltranzisti. Parlano in luogo dello stesso pontefice, troppo acquiescente verso i diversi, un genere di gesuita in odore di ribellismo sovversivo. E se giunge l’altra ferale notizia che chi di massacri vive, perché il suo piano non è neppure il Jihad islamista ma la mattanza sanguinaria, ha colpito ancora e nella martoriata Baghdad, e ha maciullato fedeli islamici che di sera, interrompendo il digiuno, mangiavano, chiacchieravano, s’incontravano com’è bello fare nelle calde serate che preannunciano l’estate, i nostri paladini vanno oltre senza smentire le ferree tesi.

L’odio dell’Isis che uccide cristiani e non nelle strade dell’Occidente, segue lo stesso percorso in altri angoli del mondo. Scanna senza tregua infedeli e figli suoi, mira a un potere speculare a quello che dice di combattere: il disegno imperiale tuttora signore e padrone delle genti d’ogni continente. Il sovrano di questo turbinio stragista è ormai nudo, come lo è la logica che dice di mettere in sicurezza il pianeta mentre cinicamente ne ha stabilito la fine per guerre e asfissia. Entrambi questi prìncipi della morte continuano ad aggregare combattenti sul proprio fronte, dove certezze e fanatismo cementano aride esistenze prive di sensazioni e sentimenti. Chi ne lamenta l’insano approccio è bollato come vile o demente e soggiogato al nemico. Chi propone conoscenza e confronto è tacciato di cieca pazzia. Chi ricorda come in tanti casi solo l’incontro apre occhi e menti a qualche prospettiva che preservi la vita e guardi al domani, è ridicolizzato. Non è solo buona volontà, sarebbe ragione. Non è solo razionalità, è umana morale. Insieme dovrebbero rimescolare le carte d’un mondo senza bussola. Se dovesse accadere, se accadrà i fronti si scompiglieranno: Occidente e Oriente, copti e musulmani, sciti e sunniti si ritroveranno insieme per opporsi a quelle parti di sé che tengono bloccata la storia degli uomini, delle fedi, del pensiero. Ne dissanguano il presente, ne bloccano il futuro.  

lunedì 29 maggio 2017

Trump e l’eterna palude afghana

Un tentativo di sblocco della situazione, seppure tutto ipotetico e denso d’incognite, coinvolge la politica estera statunitense e riguarderebbe un intervento presso l’insidioso alleato pakistano. Nell’area in questione Islamabad gioca una partita simile a quella destabilizzante compiuta dalla monarchia di Ryiad, offrendo un supporto nient’affatto occulto al jihadismo locale. In realtà qualche differenza fra i due comportamenti esiste. Finora i sauditi non hanno mostrato azioni repressive verso i miliziani dell’Isis (ad accezione della coalizione di facciata lanciata tempo addietro), mentre l’esercito pakistano in certe fasi lancia retate e pesanti azioni di controguerriglia verso i quei combattenti autori di attentati contro militari e civili (si ricordano casi della scuola di Peshawar e del parco giochi di Lahore). Trump dovrebbe chiedere al premier Sharif di cessare il doppiogioco oltre confine, ma i pakistani sono assieme agli iraniani interessati all’indebolimento di qualsivoglia conduzione autodeterminata di Kabul sul fronte politico, economico, militare, ideologico.
Si tratta di strade già percorse negli anni Ottanta, all’epoca del generale Zia-ul-Haq, accettato dagli Usa con tutta la carica di islamizzazione nazionale che si portò dietro. Oltre alle enormi concessioni di Casa Bianca e Pentagono, che hanno riempito di aiuti economici e testate nucleari una nazione fra le più prolifiche al mondo (il Pakistan conta attualmente 200 milioni di abitanti,  con un incremento vertiginoso negli ultimi 25 anni, visto che nel 1947, alla nascita della nazione, la popolazione ammontava a 32 milioni), la politica statunitense non si è preoccupata affatto delle trame di Islamabad, invogliando e istruendo gli agenti della locale Intelligence (Isi) tramite mezzi e uomini della Cia. Del resto vari analisti sostengono che uscire da un simile tracciato, che oggettivamente si è complicato nel tempo, diventa assai rischioso per gli equilibri geopolitici: tagliare supporti agli organismi locali della forza potrebbe far precipitare situazioni già precarie. E la posizione finora mantenuta Oltreoceano è quella di puntellare tale precarietà. I governanti di Kabul, tenuti totalmente in vita dagli Usa, devono accettare questa linea.
Non a caso, i passi compiuti con l’accantonamento di Karzai e la scelta del più malleabile Ghani (uomo allevato presso la Banca Mondiale) ha prodotto finora la quadratura d’un cerchio che, certo, necessita di continue risistemazioni. Uno dei fattori che ha incrinato il disegno della strategia dell’uscita è l’inaffidabilità delle strutture militari. Nell’Afghan National Security Forces i comandi e gli ufficiali si comportano come i signori della guerra sul piano corruttivo e di affarismo personale, senza mostrare però audacia ed efficienza militare. I disgraziati che vestono la divisa provengono dai ceti più derelitti: sono coloro che non riescono neppure a raggranellare piccole somme per tentare l’avventura migratoria verso l’ignoto. E taciamo della possibilità d’infiltrazione che maglie così lasse hanno prodotto in questi anni. L’esercito afghano è il flop maggiore che la linea di ‘messa in sicurezza del territorio occupato’ ha prodotto negli ultimi cinque anni.
L’abbiamo evidenziato: l’ingordigia dei signori della guerra produce da molto tempo comportamenti corruttivi e finanche capi talebani mostrano tendenze a lucrare sul caos (i proventi del commercio di oppio ed eroina continuano a risultare vantaggiosissimi), però il morale fra le milizie talib è superiore ad altri contendenti e questo li rende vivi e competitivi. Non al punto di riprendere il potere, ma di essere attori finora non cancellabili. Allora la mossa di Trump su questo scacchiere strategico può prevedere: l’opzione del riarmo anche consistente; quella di tenere le stesse truppe; infine addirittura diminuirle. Nicholson propende per la prima, già attuata anni addietro e pure fallita. Come fallì il successivo negoziato avviato nel 2009. Com’è facile costatare, sotto il sole afghano non c’è nulla di nuovo. Si guarda una situazione finita in un punto morto, si vorrebbe rompere lo stallo, ma l’unica prospettiva presa in esame è quella del disturbo dell’altro contendente per impedirgli di vincere. Così il conflitto, lungo 38 anni con fasi aperte o latenti, ma sempre corrosive per vite umane e futuro, resta la cappa che soffoca l’aria afghana.

(fine)

venerdì 26 maggio 2017

Afghanistan, i generali di Trump e la strategia del riarmo

Mister Trump avrà pure apprezzato la medaglia con l’ulivo della pace consegnatagli da papa Francesco, ma anche questo è mera maschera diplomatica, più della discussa mano tesa all’avvenente consorte Melania. Che conoscendo con chi ha (ahilei) a che fare, la respinge. Perciò oltre ai 350 miliardi di armamenti da rifilare all’alleato saudita, reso satollo e capace di proseguire repressioni verso l’opposizione interna ed esterna alle petromonarchie e guerre per procura grazie all’amato e nutrito jihadismo, gli Stati Uniti stanno rivisitando piani strategico-militari su vari scenari mondiali. Quello consolidatissimo dell’Afghanistan, giunto al 16° anno d’occupazione, rientra fra i rivedibili. L’attuale programma Resolute Support, che teneva in loco 10.000 marines (cui bisogna aggiungere i contractor in divisa, solitamente non presentati nel conto totale), subirà appunto ritocchi. Il generale Nicholson, responsabile delle truppe Nato in quel Paese, sogna di rischierare migliaia di soldati sullo scenario. Né lui e neppure Pentagono e Casa Bianca spendono una minima riflessione su un orizzonte totalmente fallimentare per le truppe occidentali che lì si sono cimentate, perdendo uomini e faccia. L’industria cardine per l’economia statunitense, che è quella bellica, necessita di ambasciatori dell’utilizzo di quel “ben di Dio” simile alla Moab di cui il presidente e i suoi generali si fan vanto.  E con l’ausilio degli apprendisti stregoni della geopolitica ci si orienta a serbare i fronti aperti, anche davanti alla palese inefficacia della propria strategia.
L’unico vantaggio americano sull’ambìto suolo afghano, che copre un’area centrale e strategica per il controllo del Grande Medioriente, sono le basi aeree da cui partono gli attacchi con caccia e droni a insorgenti, talebani, popolazione civile e a nuovi nemici. Ciò nonostante Nicholson e colleghi  vogliono di più: bramano di tornare a uno scontro frontale più ampio, aumentando di migliaia di unità i reparti antiguerriglia. Nel 2014, al momento dell’attuazione dell’exit strategy, si sosteneva che con due anni fitti d’addestramento e sostegno a esercito e polizia locali, sarebbero rimasti nel Paese solo un migliaio di marines per presidiare la propria ambasciata a Kabul. Già l’anno seguente quel piano di evacuazione veniva rallentato,  a metà del 2016 i militari Usa risultavano fondamentali non tanto contro i residui qaedisti in quelle aree, ma contro l’oltranzismo talebano. Non solo per il cosiddetto controterrorismo, bensì per “effetti strategici”. Così li definiva lo staff di Obama che, pur parlando di strategia del ritiro, colpiva duro da ogni angolazione. Dal cielo piovevano missili su insorgenti, villaggi e anche sugli ospedali di “Medici senza frontiera”, il ricordo della strage di fine settembre 2015 a Kunduz (decine di vittime fra i sanitari) è ancora vivo. Azioni criminose che anziché allentare l’offensiva di terra talebana l’hanno rinvigorita grazie agli inviti dei turbanti ai giovani di difendere il Paese dall’occupazione della morte. Demagogia? populismo? Dipende dai punti di vista. Gli effetti sono deleteri per la sicurezza di ogni provincia e devastati per lo sterminio di civili, colpiti da entrambi i contendenti. Secondo recenti dati forniti dal governo Ghani il proprio esercito e gli alleati Nato controllano il 60% dei distretti afghani dove vive il 65% della popolazione.
I talib ne controllano l’11% col 34% di popolazione, e un 29% di distretti col 25% di popolazione risultano contesi. Basta fare le somme per costatare che i conti non tornano. Non solo quelli aritmetici sballati riguardo agli abitanti, ma gli stessi calcoli politico-strategici. Quanta propaganda ci sia in simili notizie è risaputo: ogni regime edulcora a suo favore i dati. Il popolo afghano è difficilmente calcolabile causa decessi, fughe, migrazioni interne ed esterne, e non è facile immaginare che la frazione della popolazione che vive nelle aree controllate dai governativi fugga anch’essa, come fanno gli abitanti delle zone sotto giurisdizione talebana. Sia perché comunque è costretta a vivere in aree sottoposte a fuoco e coprifuoco, sia perché l’oppressione e il fondamentalismo non sono solo da una parte, visto che il presidente Ghani ha accolto a braccia aperte un fanatico del jihad come Hekmatyar. Attualmente l’impegno combattente di terra degli Usa è scarso rispetto a standard passati, gran parte degli scontri armati vedono contrapposti afghani arruolati  nell’esercito o nelle file dei ribelli. Da parte sua l’insorgenza, che pure colpisce dove vuole, non riesce a tenere a lungo certi territori conquistati. Si è creata sue roccaforti, ma mostra il fiato corto per una conquista totale e una tenuta, come fece nel 1996. Quel che appare da oltre un anno è un guerriglia che si trascina senza che nessun contendente riesca a prevalere. Per questo l’ipotesi trattative era risbocciata a Washington e Kabul.

(continua)

martedì 23 maggio 2017

Rohani ai sauditi: urne non armi

Il sorriso più beffardo che pacifico di Hassan Rohani, presidente iperconfermato dell’Iran della Rivoluzione Islamica, ha caratterizzato il suo primo intervento pubblico. A ridosso di un’elezione molto partecipata dalla popolazione (42 milioni di votanti sui 55 milioni aventi diritto) il chierico sciita si toglie qualche sassolino dalla scarpa, parlando della dinastia saudita visitata e abbracciata dal presidente statunitense Trump. Un evento commentato dalla stampa mondiale, che a detta di parecchi osservatori avrebbe aperto un nuovo orizzonte alla politica estera americana. Rohani dà subito un a fondo, quando sottolinea come quella società avrebbe bisogno di urne non di armi, perché il primo alleato statunitense in Medio Oriente, ovviamente dopo Israele, non brilla per partecipazione popolare alla vita nazionale. Pur trattandosi di sudditi costoro appaiono totalmente dimenticati dai regnanti Saud per qualsiasi dinamica, compresa quella d’una rappresentanza per delega. Del resto nella sfavillante Riyad del modernismo edilizio, le mentalità politica, amministrativa e religiosa restano ferme, guardano a presente e futuro duettando col passato d’un tradizionalismo oltranzista. Un fenomeno non solo delle fede sunnita, specie se in chiave wahabita, però il presidente iraniano dimentica il conservatorismo interno e guarda in casa d’altri. La polemica ruota attorno al passo bellicista del mondo saudita, a cui Trump propone e impone una mossa che lancia Oltreoceano come un colpaccio affaristico.
Vendere 110 miliardi in armamenti, che potranno diventare 350 in un decennio, dovrebbe garantirgli oltre che un alleato iper armato in quell’area sempre geograficamente caldissima, una ventata di popolarità fra operai, tecnici e padroni impegnati nel lucrosissimo settore della produzione bellica. Il cuore pulsante dell’industria yankee. Rohani, rivolgendosi a Paperoni e sceicchi, ricorda come non siano le sole armi a creare la forza d’una nazione bensì le elezioni. L’urna gli è stata amica e il presidente confermato prende spunto dal primo tour dell’uomo della Casa Bianca per ricordarlo, sebbene l’occhio sia rivolto al panorama internazionale e regionale che secondo alcuni analisti starebbe mutando. Rispetto al semi immobilismo di Obama, Trump mostra il piglio decisionista, soprattutto meno ipocrita. Pone sotto i riflettori le scelte mostrate in questi giorni a Riyad. Ma negli anni precedenti l’amministrazione Usa non aveva fermato colpi di mano e operazioni compiute dagli alleati delle petromonarchie, come testimoniano la situazione yemenita e la continuità dell’offensiva jihadista in Medioriente e Occidente. E’ vero che uno scarto tanto deciso da parte di Trump sembrerebbe porre l’Iran nuovamente in castigo sul versante economico e forse geopolitico, ma gli sviluppi sono tutti da scoprire e nient’affatto definiti. La leadership iraniana coglie l’occasione elettorale per evidenziare le differenze di forma e sostanza con quegli attori regionali con cui le tensioni, già profonde, sono negli ultimi tempi aumentate. Ricordiamo come nel gennaio 2016 i Saud condannarono a morte 47 detenuti, fra loro c’era un noto religioso sciita, Nimr- al-Nimr, già in carcere per non precisate accuse.
L’arresto, avvenuto nel 2012, era seguìto agli interventi del chierico a favore di alcune manifestazioni popolari che nei mesi precedenti si erano verificate anche in Arabia Saudita, proteste represse e spente nel giro di poche settimane. Quell’esecuzione innescò l’assalto l’ambasciata saudita a Teheran e da quel momento le relazioni diplomatiche fra i due Paesi sono azzerate. E mentre anche il ministro degli Esteri Zarif faceva eco al suo presidente e sottolineava come la stabilità regionale non può derivare solo dalle alleanze, ma necessita della forza della popolazione, Rohani è sceso nell’area energetica del Paese, la provincia del Kuzestan, per inaugurare un nuovo centro di smistamento del traffico ferroviario. Lì giungerà la rete ad alta velocità Teheran-Ahwaz, uno dei rami dei trasporti cui la leadership moderata ha puntato per rilanciare alcuni settori dell’economia interna (preventivo di spesa 82 milioni di dollari). Nel primo giro presidenziale impostato a conferma degli impegni economici del suo programma, è inserito anche una visita nei luoghi dove passerà l’oleodotto del West Karoun (3 miliardi di dollari il preventivo) che corre sul confine iracheno, zona insanguinata dalla guerra circa quarant’anni fa. Alle immagini dei martiri che riempiono le città iraniane, fanno da contraltare gli attuali progetti energetici: 2,5 miliardi l’oleodotto del Nord Azadegan e altri investimenti riguardanti distribuzioni di elettricità in aree decentrate. Devono confortare la fiducia dell’elettorato per sviluppo e lavoro e consolidarne l’amichevole sostegno. Mentre agli avversari esteri possono fare da monito proprio quei martiri, attorno a cui iraniani conservatori e riformisti s’inchinano e s’uniscono.