sabato 6 maggio 2017

Presidenziali iraniane, la forza della conservazione

YAZD - C’è una dicotomia, o perlomeno così sembra, fra quello che taluni ayatollah iraniani sostengono politicamente e ciò che affermano dei mullah che si possono incontrare davanti ai meravigliosi iwan di storiche moschee. Uomini sorridenti, benevoli, sempre accoglienti. E discorsivi come certi preti-operai di fine Sessanta. Con un volto diverso non solo da quello pensieroso e spesso torvo del padre della Repubblica islamica che appare in tante immagini sparse per le città, ma dagli stessi epigoni che hanno rivestito le cariche supreme, da Khamenei a coloro di cui si vocifera una prossima investitura. In prima fila c’è Ebrahim Raisi, candidato alla presidenza per la componente conservatrice che proprio ieri ha confermato di sostenere entrambi i suoi elementi: il laico Qalibaf e il chierico Raisi. Questi divenuto ayatollah risulta un sayyid e veste il turbante nero, simbolo della discendenza diretta da Maometto. I nemici lo dipingono come feroce e addirittura sanguinario, per le condanne a morte inflitte a fine anni Ottanta, quando rivestiva il ruolo di giudice. Ma nelle esecuzioni di quel periodo molti vedono solo la scelta vendicatrice di Khomeini. Certo Raisi non s’opponeva alla via repressiva, forse perché giovanissimo (all’epoca aveva poco più di vent’anni) e, nonostante l’incarico, piuttosto privo di  autorevolezza.
Oppure accettava silenziosamente ogni cosa, vedendo quel che accadeva a insigni ayatollah come Montazeri, censurato e azzerato dal Ruhollah proprio per le critiche su quelle esecuzioni. In occasione della rivolta dell’Onda Verde, Raisi ebbe modo di ribadire i suoi orientamenti: disapprovò la “benevolenza” con cui il sistema aveva trattato i capi della contestazione. Benvoluto dai conservatori e dall’attuale Guida Suprema, se dovesse fallire l’elezione presidenziale Raisi potrebbe occupare quel ben più potente seggio alla scomparsa di Khamenei, ritenuta prossima causa malattia. Nell’ipotetica carica presidenziale di Raisi gli osservatori temono moti d’orgoglio, specie ora che il Grande Satana statunitense è guidato da un elemento imprevedibile e senza scrupoli come Trump. Sebbene la storia del quarantennio di tensione fra i due Paesi insegna che altri inquilini della Casa Bianca, democratici o repubblicani, hanno praticato la via della demonizzazione non solo del sistema clericale, ma dell’intera nazione che incarnava la ribellione antimperialista in salsa islamista. Le dichiarazioni di politica estera del chierico di Mashhad sono finora state contenute. Lui afferma di voler proseguire il rapporto riapertosi con l’Occidente, ad eccezione del regime israeliano che pratica l’occupazione di terre altrui.
Però alcuni analisti iraniani critici ne sottolineano l’inesperienza estera, di fatto Raisi rappresenta l’attuale migliore pedina spendibile dal clero ultraconservatore, e dai certi sostenitori come l’associazione Hojatien, guidata dall’ayatollah Mesbah-Yazdi, per contenere il connubio fra riformisti e pragmatici che ha portato Rohani alla guida del Paese. Anche nella vita privata Raisi ha intrapreso una carriera di rango, imparentandosi (ne ha sposato la figlia Jamileh) con Amad Alamolhoda,  colui che guida della preghiera del venerdì a Mashhad ed è membro dell’Assemblea degli Esperti, che è l’organo che sceglie la Guida Suprema, uno dei traguardi di Raisi. A conferma d’una sua predestinazione, un anno fa è stato proprio Khamenei a investirlo, dopo la carica di custode del sacro santuario Imam Reza di Mashhad, anche di quella della bonyad Astan Qods Razavi, che non è solo religiosa, ma politica ed economica perché tratta affari multimiliardari legati a produzione, energia e brokeraggio. Insomma Raisi sembra orientato verso il Gotha dell’apparato dirigente, e allora perché rischiare di misurarsi in una tenzone politica incerta? Le sue quotazioni per incarichi prestigiosi potrebbero sminuirsi, ed esperti di politica iraniana evidenziano la pochezza del suo programma.


Ci illumina proprio un pacato chierico, incontrato in uno dei gioielli cittadini dell’architettura islamica, la moschea Mullah Ismail, a ridosso del bazar di Yazd. Prendendo spunto dalla splendida città, seicentomila abitanti, al confine con zone desertiche, che dietro i silenzi delle millenarie muraglie di fango nasconde tuttora povertà e disagi, ci mostra i sentimenti del cuore iraniano ancora bisognoso. Ciò che avevamo notato fra le vecchine, rigorosamente in chador, che vendono scampoli di frutta sul marciapiede; nel riciclo di oggetti poverissimi venduti ai margini del mercato ufficiale; nel rovistare infantile fra i cestini di rifiuti riempiti dai bazari impegnati a vendere merce ai turisti presenti anche in questo luogo meno battuto, dove comunque passavano le carovane dell’ennesima via della seta. L’economia dei poveri, seppure i mostazafin di trent’anni addietro siano scomparsi, e la mai accantonata difesa dagli imperialismi sono due temi di attualità anche nell’attuale consultazione. E il gentile mullah, poco più che trentenne, che si è formato a Qom e discorre amenamente lo fa notare. Considerato che il secondo argomento viene agitato anche dal presidente uscente, che è diplomatico ma come tutti difensore dell’identità patria, probabilmente sarà la questione economica a far pesare l’urna sulla fiducia del presente che non è ancora futuro o su un recente passato barricadero, presentato come difesa da chi non ama l’Iran e la sua gente, soprattutto perché respingono ingerenze neocoloniali. 
(3 - continua)

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