domenica 24 giugno 2018

Elezioni turche: Erdoğan centra il doppio obiettivo


Bottino completo su politiche e presidenziali per Recep Tayyip Erdoğan che ancora una volta si fa padrone della Turchia col consenso dell’urna. Registra il duplice successo alle politiche col partito-regime (l’Akp), che da tempo ne segue ed esegue pedissequamente ogni respiro e con il 42.4%, può tranquillamente governare, vista anche la tenuta dell’alleato nazionalista (Mhp)  confermatosi all’11.4%. In più vince la sfida presidenziale, stravolgendo in questo caso i pronostici che non gli concedevano un passaggio al primo turno e lo rimandavano a un temibile ballottaggio con un uomo delle opposizioni. Invece l’urna offre al presidente uscente un 52.5% che scava un abisso sul repubblicano İnce (30.7%) e sul kurdo Demirtaş (8.3%). Quasi 26 milioni di concittadini l’hanno abbracciato, più della somma dei restanti candidati in grado di mobilitare (İnce, Demirtaş, Akşener). Erdoğan guiderà l’agognata nazione fino a tutto il 2023, festeggiando, come sognava da tempo, la celebrazione del centenario d’una Turchia moderna ridiventata islamista ben oltre qualsiasi benevolo ricordo del laicismo kemalista.
La tranquilla domenica elettorale che coinvolgeva 59.3 milioni di elettori divisi in 188mila seggi disseminati in 81 province, segnava in tarda mattinata un evento luttuoso, quindi turbolenze legali. A Erzurum, provincia orientale a nord del lago Van, Mehmet Sıddık Durmaz, rappresentante l’İyi Partisi, è stato ucciso a colpi di pistola a seguito d’una rissa scoppiata fra due clan familiari. Sempre nell’area est dieci osservatori (tre italiani, tre francesi, tre tedeschi rispettivamente nei distretti di Dıyarbakır, Ağri, Șirnak) sono stati fermati nei seggi, dov’erano presenti in qualità di visualizzatori della regolarità delle operazioni di voto per conto dell’Osce, e sono stati fatti oggetto d’un procedimento legale “per aver tentato d’interferire con le procedure elettorali”.  A Batman un’altra italiana è stata trattenuta dalla polizia. L’Osce è l’Organismo di sicurezza e cooperazione europea che ha organizzato il più alto numero di osservatori - 234 - su un totale di 415 funzionari e volontari che afferiscono a otto organismi, cui è stato concesso di seguire da vicino le operazioni elettorali in Turchia.
Il principale partito d’opposizione ha lanciato esplicite accuse all’agenzia statale Anadolu che ha diffuso per ore orientamenti di voto favorevoli al governo, prendendo a campione aree dove più alta era la percentuale del partito di maggioranza. Un comportamento deontologicamente scorretto “che ha deliberatamente creato una percezione falsata dell’orientamento di voto”, seppure nella conta finale le percentuali risultano favorevoli a chi deteneva il potere. Per ora non ci sono contestazioni su schede e spoglio, si vedrà nelle prossime ore. A superare l’altissima soglia del 10%, che consente di eleggere i deputati nel Meclis, sono stati cinque partiti: Akp 42.4% (accreditato di 293 deputati), Chp 22.7% (146), Hdp 11,5% (67), Mhp 11.2% (49), İyi Partisi 10.1 (45), altre formazioni non registrano eletti, pur col sistema delle alleanze che può favorirne l’ottenimento. Il fronte kurdo ha resistito all’offensiva securitaria che da un anno e mezzo ne ha dimezzato la rappresentanza parlamentare con gli arresti per “terrorismo” di onorevoli e dello stesso co-presidente Demirtaş, facendo registrare le consuete altissime percentuali a Dıyarbakır e Șirnak, (65%), il 55% ad Ağri e Batman e superando il 10% anche a Istanbul, İzmir, Adana, Mersin.

venerdì 22 giugno 2018

Turchia, l’Alleanza Nazionale contro Erdoğan


Tutti contro Erdoğan sull’altra sponda del Bosforo, quella dell’opposizione d’ogni tendenza e colore, unita, a detta dei seguaci del presidente uscente “solo dall’odio verso chi sta facendo grande la Turchia”. E questo è in parte vero. Ma il  matrimonio di comodo con finalità elettorali che nel confronto-scontro dell’urna avvicina i repubblicani del Chp, gli altri nazionalisti dell’Iyi, gli ultraconservatori islamici dell’Sp e i seguaci del Partito Democratico nella cosiddetta ‘Alleanza Nazionale’ mostra qualche desiderio in più di quello di togliere spazio all’Akp (sostenuto dai nazionalisti storici del Mhp) e d’intralciare il presidente nei suoi disegni assolutistici. Per avere un futuro costoro promettono, se ribalteranno le previsioni risultando vincitori, di tornare al passato. Così ripristinerebbero la centralità del Parlamento, messa all’angolo dal ‘sultano’, e reintrodurrebbero la figura del premier. Sì, un processo antierdoğaniano per ridare ossigeno alle Istituzioni piegate dal super presidenzialismo.
La Costituzione, rinnovata di recente, prevede anche un cambiamento che può diventare un boomerang per chi l’ha partorita: la possibilità di avviare alleanze fra partiti (un tempo vietate) in base alle quali chi risulta sotto la soglia del 10%, per ottenere rappresentanza in Parlamento, può comunque ottenere deputati se uno dei partiti della coalizione ha superato quella percentuale. La norma è stata creata a misura del Milliyerçi Hareket Partisi i cui voti sono serviti a Erdoğan per ottenere il cambiamento costituzionale, linea che è stata contestata da una corrente interna autrice d’una scissione (quella che ha dato vita l’Iyi Partisi). Per questo terremoto, e temendo una contrazione dell’elettorato del Mhp sotto il 10% (nella consultazione del novembre 2015 s’era fermato all’11.9%), lo staff erdoğaniano ha predisposto la suddetta norma. A essa, ora, s’appella l’Alleanza Nazionale che ha nel Chp il partito di maggior peso (25.3% nel 2015) che garantirà gli altri tre soci. In quest’anticipo elettorale, fortemente voluto da Erdoğan e Bahçeli, il dibattito verteva sull’impossibilità dell’Iyi Partisi di correre, poiché per legge un raggruppamento dev’essere formato da sei mesi per entrare nell’agone.
Ma il Chp è corso in aiuto: ha offerto alla nuova formazione 15 deputati (gli altri cinque provenivano dal Mhp, fra cui la leader Akşener) e raggiungendo quota 20 ogni lista è ammessa senza anzianità di servizio. Secondo i sostenitori (assai entusiasti) dell’Alleanza essa rappresenterà una sorpresa, limitando le certezze presidenziali. Dicono che la gente è stanca delle imposizioni di anni e vuol dare uno scrollone al sistema. Mentre la voce dei comizi ha ripeteva ossessivamente questo concetto: “Il governo ha polarizzato il o Paese attorno allo schema ‘noi e loro’. Quest’Alleanza esce dagli steccati di parte e cerca alternative. Nonostante i punti di vista differenti, l’attuale situazione c’impone di sfocare linee ideologiche e guardare alla sostanza”. Che però non è indicata. I politologi sostengono che difficilmente il blocco anti Akp supererà le percentuali del partito islamista, pur costringendolo a un successo da maggioranza relativa. Diversa è la situazione riguardo alla presidenza che coinvolge Erdoğan in prima persona.
I candidati di ciascuna componente possono comunque frazionare il voto così da impedire al presidente uscente un’elezione al primo turno superando il 50%. Servirà, perciò, il ballottaggio (previsto per l’8 luglio) al quale parteciperà un esponente degli oppositori. Secondo previsione dovrebbe essere il repubblicano İnce, fortemente critico verso la politica autoritaria del ‘sultano’. La figura è di quelle che colpisce l’immaginario del cittadino medio: umili origini, gran lavoratore che s’è fatto da sé, un po’ come lo stesso Erdoğan. Non la sua arroganza e megalomania, in verità neppure il suo carisma. E’ un uomo probo che tiene ai valori di buona conduzione della cosa pubblica e mostra una devozione religiosa che può portargli voti. Eppure sondaggi recenti nell’uno contro uno lo vedono raggiungere il 46%, mentre la nazionalista sfegatata e ambiziosa Akşener otterrebbe il 48%. Ovviamente si tratta d’ipotesi. Totalmente fuorigioco il candidato conservatore islamico Karamollaoğlu, dal quale Erdoğan si separò per dar vita a una creatura politica (l’Akp) più adeguata a tempi e desideri dei ceti popolari e medi della Turchia, già ammaliata dal liberismo di Özal.
Invece il candidato alla presidenza che può rappresentare una figura morale, onesta, democratica, moderna per una nazione che guarda alla soluzione politica dei nodi che hanno riacceso sanguinosi conflitti interni, è il leader del Partito democratico dei popoli Selahattin Demirtaş, da venti mesi rinchiuso in galera, assieme ad altri deputati dell’Hdp, con l’accusa di terrorismo. Lui e la sua formazione non hanno stretto alleanze, un po’ per scelta, un po’ perché altri partiti le rigettano. Le proiezioni (viene dato fra il 12 e il 15% di consenso) non gli prospettano il superamento di İnce, ma della nazionalista dissidente sì. Questo già sarebbe un gran risultato per la componente kurda e della sinistra che s’oppone al clima oscurantista che avvelena la società, provando a contrastare la repressione indiscriminata con cui Erdoğan colpisce gli avversari ritenuti più fastidiosi dal giorno seguente il tentato golpe del luglio 2016. Si vota in un unico giorno il 24 giugno, i 600 seggi saranno distribuiti nei vari distretti, i maggiori a Istanbul (98), Ankara (36), Smirne (28), Bursa (20). Nei territori kurdi Gazantiep e Dıyarbakır hanno rispettivamente 14 e 12 deputati, da condurre al Meclis e si spera non in prigione.

mercoledì 20 giugno 2018

“Civiltà” senza cuore


Quello che molti media, anche mainstream, mostrano e discutono in queste ore sui bambini migranti in gabbia, volutamente separati dai genitori da una politica che criminalizza la migrazione con l’alibi di regolamentarla, è uno dei tratti assunti dalla comatosa sopravvivenza d’un sistema che s’autodefinisce democratico. In questo ciclo perverso ci siamo anche noi, con quella che ci ostiniamo a definire vita. Se i disperati di mare e di terra che giungono vicino alle nostre case devono far i conti con la sopravvivenza imposta da un destino precario e dai respingimenti polizieschi, la nostra sopravvivenza di cittadini perbene è un mascherato convincimento di esistenza dignitosa nel modello di società senza cuore teorizzata da vari criminali della politica. Il circuito è perverso e non ci salva, visto che gli attuali uomini diventati statisti non sono impostori, e pur saliti in alto solo per sete di potere, risultano legittimati da schiere di sostenitori. Il mondo crudele proposto da Trump, Orbán, Salvini e compagnìa globalizzata è volutamente sostenuto dalla maggioranza degli elettori che li hanno collocati a far sfracelli e maramaldeggiare contro i più deboli del mondo. Ad applicare quel terrorismo politico che ciascuno, mentendo, sostiene di combattere.
Ma nel commentare la vicenda dei piccini allontanati dall’abbraccio rassicurante della madre la questione non sta nel compassionevole sentimento di chi si commuove o meno alle lacrime dei minori. Sta nella cinica o distratta accettazione che sia possibile mettere dietro le sbarre, uniti o divisi, esseri umani come all’epoca delle tratte schivistiche. Sta nell’infischiarsene delle cause dei movimenti di migrazione, tutte interne al modello imperialista che nelle sue versioni ‘buonista e malvagia’, all’unisono foraggia guerre al terrorismo e seguenti missioni di pace, prosegue il dissanguamento economico di tante parti del mondo da cui rifugiati e migranti economici provengono. Col fine che giustifica ogni mezzo, l’elettore del peggior politico si concentra solo su ciò che gli viene mostrato come il “suo”  interesse, dove l’aggettivo possessivo è padroneggiato da chi ha il comando, creando l’illusione d’una decisione volta al bene comune. In aggiunta, la disumanizzazione posta come valore ci rende talmente insensibili da farci percorrere strade di presunti interessi attorno a categorie che risultano solo retaggi di trascorsi ambigui e contraddittori. Zombie in un egoismo che ha trasformato città e campagne in un enorme cimitero.

lunedì 18 giugno 2018

Elezioni turche: Istanbul per il sultano


Tutti pazzi per Erdoğan. Ennesimo bagno di folla oceanico, esso stesso coreografico per il messaggio di potenza che il presidente uscente, e prossimamente regnante, vuole offrire a sostenitori e oppositori. I candidati di quest’ultimi (il repubblicano İnce, 54 anni, il kurdo incarcerato Demirtaş, 45, la ‘lupa grigia’ che ha rinnegato Behçeli Akşener, 61) pensano di sottrargli talmente tanti voti da non consentirgli d’essere eletto al primo turno e di aver bisogno del ballottaggio. Ma il navigato uomo forte, ormai apertamente definito sultano dalla folla plaudente, con un’enorme partecipazione femminile, già da settimane è corso ai ripari andando a cercare il voto dei turchi d’Europa. E poiché Merkel, Kurz e Rutte, i premier dei Paesi dove i turchi sono tre milioni gli hanno vietato comizi di piazza, il presidente che vuole oscurare Atatürk, li ha incontrati in un luogo che rievoca pienamente l’epoca ottomana, seppure con lo spettro della pistola fumante di Princip, prodromo del suo declino.

Il mese scorso Sarajevo ha raccolto un mega raduno di sostenitori di Erdoğan provenienti da Germania, Austria e Olanda, anch’essi completamente invaghiti del suo pugno di ferro. E ieri nella Istanbul che lo lanciò in politica prima come sindaco quindi come premier, e che lui ripaga con una trasformazione urbana in chiave tecnologica e d’impronta islamista, erano decine di migliaia le mani rivolte al cielo nel segno delle quattro dita, il simbolo dell’Islam politico che dal Maghreb al Mashreq affratella e seduce. Ma più che al 24 giugno o alla tornata seguente lo sguardo dei politologi è diretto alla fase successiva che governo e presidente, chiunque dovessero essere, dovranno affrontare in virtù della grande incognita che pesa sulla sfida: i problemi economici della nazione. La Turchia già da mesi ha dovuto fare i conti con la caduta del 20% del valore della sua moneta sul dollaro. Sulle incertezze economiche si sta giocando un pezzo della campagna elettorale coi partiti dell’opposizione critici su questo tema, oltre ai richiami rivolti alle questioni repressive, di mancanza di libertà di stampa e finanche d’espressione.

A difesa l’establishment utilizza lo stesso tema dell’incertezza e lo rovescia a suo favore, richiamando una politica di stabilità contro l’avventura di cambiamenti che introdurrebbe caos, e dunque, minori investimenti. Sempre utilizzato lo spettro del complotto guidato dai gülenisti, con l’ausilio di non meglio identificati ‘poteri stranieri’ che tramano contro la nazione. Il partito di maggioranza Akp ed Erdoğan nei comizi vantano tutta la strada percorsa dal 2002 per risollevare un’economia in crisi e combattere la disoccupazione attraverso investimenti interni ed esteri che hanno prodotto lavoro. Ribadiscono che, nonostante gli scossoni politici e geopolitici, l’economia turca ha mantenuto uno standard costante. Lo scorso anno la crescita, stabilita al 7.4%, è risultata seconda solo a quella irlandese fra i 37 Paesi membri per l’Organizzazione per lo sviluppo economico. A loro dire i dati del prodotto interno lordo vedono una diminuzione tutto sommato contenuta fra gli 863 miliardi di dollari del 2017 e gli attuali 851 miliardi.

Da parte sua il Fondo Monetario Internazionale prevede una crescita dell’economia turca del 4.3% nell’anno in corso, proiezioni ribadite anche nel 2019. Per contro i critici sottolineano che tali cifre si tengono a galla grazie a sgravi fiscali e all’introduzione d’incentivi, principalmente nel solito settore delle costruzioni, attivo ininterrottamente da circa un quindicennio. Tutto ciò introduce una politica dei prestiti che sviluppa inflazione (attualmente salita all’11.9%, quota più alta da 14 anni a questa parte). E c’è chi sottolinea come gli stessi prestiti dall’estero stiano diminuendo, nel 2017 si registrano 10.8 miliardi, la quota più bassa degli ultimi otto anni. Sebbene nel confronto fra le parti non manchino riferimenti a temi politici come repressione, arresti, epurazioni e stretta securitaria molto ruota intorno alle menzionate questioni economiche che potrebbero rappresentare la trappola futura per il regime. Ma ieri, nella parata che s’approssima al gran finale, la marea erdoğaniana pareva non curarsene e il sultano se ne beava, convinto di ulteriori investiture di lunga data.   

giovedì 7 giugno 2018

Ghani, un futuro da talib


Con un quadro politico che gli sfugge di mano, un orizzonte sicurezza devastato da cinque mesi fitti di attentati, un panorama sociale altrettanto tragico nonostante le ipotesi economiche derivanti dal progetto Tapi, l’unico che spende a suo favore nella campagna elettorale, il presidente afghano Ghani prova a non finire stritolato come il classico vaso di coccio. E lancia l’ennesimo appello ai talebani di casa proponendo un cessate il fuoco sino al quinto giorno seguente all’Eid-ul-Fitr che segna la fine del Ramadan. Dunque il prossimo 19 giugno. Nell’annuncio dato ufficialmente in tivù il presidente ha sottolineato: “Col cessate il fuoco incarniamo la forza (sic!, ndr) del governo afghano, per dare un futuro alla popolazione e una soluzione pacifica del conflitto nel Paese”. L’offerta è rivolta esclusivamente ai talib ortodossi, quelli con cui cerca di rapportarsi da un anno, usando anche l’intermediazione del signore della guerra Hekmatyar, rientrato a Kabul per la missione. L’ultimo tentativo di dialogo c’era stato a febbraio scorso, ma non aveva sortito effetti.

Anzi, i talebani, che in cuor loro sperano di scalzare il ceto politico collaborazionista filo occidentale con la forza delle armi, s’erano lanciati nella sfida con gli ex compari, ora dissidenti, che si firmano Isis afghano. Una gara all’ultima bomba per il primato del terrore e la patente di prima fazione della resistenza alla Nato. Nel tentare di sminuire il fondamentalismo sanguinario, nei giorni scorsi alcuni rappresentanti religiosi s’erano riuniti a Kabul per discutere ed emettere una fatwa contro gli attacchi suicidi, che spesso colpiscono la stessa popolazione. I kamikaze non gli hanno dato tregua, anche il luogo dell’incontro è diventato un obiettivo da colpire. Altri morti e feriti, come nei mesi precedenti, seppure nessuna rivendicazione. Ghani cerca il dialogo coi talebani che furono un tempo guidati dal mullah Omar e che restano nella sua ortodossia, lui considera nemici i miliziani del Khorasan che assieme ad altre sigle costituiscono la rete denominata Isis afghano. Per allettare gli interlocutori ora propone un rilascio di prigionieri. 

L’inclusione di liste di gruppi armati nella tornata elettorale prevista per il prossimo ottobre con conseguente revisione della Carta Costituzionale. Insomma una sorta di resa incondizionata al talib. I quali, però, sornioni osservano, infiltrano, colpiscono, come fanno da anni. Puntano sull’inefficienza dell’apparato di sicurezza messo su dagli Stati Uniti, sulla corruttibilità delle gerarchie militari locali, sulla volatilità della truppa che negli anni ha raggiunto grandi numeri (fino a 350.000 uomini) ma spesso diserta e soprattutto non è disposta a combattere e morire per uno Stato inesistente. Eppure gli studenti coranici in armi, che sognano di riprendere con quel mezzo il potere, come avevano fatto i loro padri ventidue anni or sono, approntano guerriglia, controllo di province impervie e d’importanti vie di comunicazione, azioni temerarie nei punti più difesi della capitale, però nulla possono contro la repressione aerea statunitense. Perciò loro precondizione per avviare i colloqui è il ritiro delle truppe d’occupazione Nato, cosa che ovviamente il presidente-fantoccio non può decidere. Se non puoi battere il nemico, alleati con lui, chiosa un celebre motto. A Ghani piacerebbe, ma il tentativo può rivelarsi l’ennesimo buco nell’acqua.

mercoledì 6 giugno 2018

Sospesa Israele-Argentina, boicottare si può


Allora si può fare, basta volerlo. Come l’amichevole di calcio cancellata fra Israele e Argentina, anche le tre tappe del Giro d’Italia disputate nelle aree violate della terra palestinese si sarebbero potute evitare. La disdetta dell’incontro nel Teddy Stadium di Gerusalemme, costruito nei luoghi dove sorgeva un villaggio palestinese che nel 1948 subì, come altri, la pulizia etnica studiata e praticata dalla Stato sionista, rappresenta un caso che già la coppia razzista Netanyahu-Lieberman teme. L’unica misura che la comunità internazionale dovrebbe lanciare per indurre Israele a meditare sulla sua politica dell’assassinio mascherata da difesa: l’isolamento. Chi teorizza e pratica l’apartheid non dovrebbe sentirsi straniato da simili provvedimenti che, invece, possono rappresentare un concreto monito verso una collettività orientata alla propria affermazione tramite l’altrui oppressione. 

La sortita della nazionale argentina, e della stessa rappresentanza politica del Paese sudamericano, non è delle più lineari. Del resto il presidente Macri viene annoverato fra i sodali di Israele, qualunque esso sia e qualsiasi cosa faccia. Un po’ come accade ai tanti Paesi sostenitori oppure omertosi verso la linea del crimine che la classe politica di Tel Aviv, sionista o ultra ortodossa, laburista o del Likud, ha praticato e continua a praticare da decenni. Sembra che in questa circostanza il ripensamento annoveri ragioni di sicurezza, timori sulla vita della perla del calcio latino, il fuoriclasse iper premiato Messi. Campione a cui aveva scritto un’accorato appello Mohammed Khalil Obeid, promessa d’un calcio certamente non stellare, indubbiamente povero e soprattutto oppresso. Khalil chiedeva al capitano biancoceleste, tanto popolare nella Striscia di Gaza di “boicottare l’incontro con Israele che occupa le nostre terre”.

Non sappiamo se quelle righe siano giunte a Messi, se le abbia lette, se ha meditato sul messaggio e ne è rimasto colpito. Colpito da due fulmini è stato proprio Khalid, che senza risparmiarsi offriva il suo corpo atletico alla protesta della ‘Marcia per il ritorno’ avviata il 30 marzo scorso sul confine della Striscia. Uno dei tanti killer schierati su quel confine sotto la Stella di David, che hanno fatto finire 123 vittime, a Mohammed ha frantumato entrambe le ginocchia e una carriera, che magari non l’avrebbe lanciato nell’iperuranio come Messi, ma gli offriva la gioia di scattare e dribblare i quotidiani foschi pensieri delle violenze subìte assieme alla sua gente. Sarebbe bastato questo trattamento rivolto a Khalid e alle proteste palestinesi a fermare l’amichevole del calcio e le tappe del Giro ciclistico, visto che Israele si macchia di crimini di guerra. E finché li perpetua non merita sport, turismo, scambi commerciali, relazioni con Paesi che difendono i diritti dei popoli. Il boicottaggio di Israele è una strada per la difesa dei palestinesi.

domenica 3 giugno 2018

Razan, il sudario della crudeltà israeliana


Da giorni Israele ha festeggiato il suo 70° anno, Netanyahu ha rilanciato altri provocatori insediamenti di coloni sui territori della Cisgiordania, la geopolitica si occupa di questioni internazionali, i balletti di Trump su colloqui sì o no con Kim proseguono, governi cadono e nascono, pur con mille problemi come in Italia, il carrozzone dello sport-spettacolo s’appresta ad avviare il Mondiale del pallone. Una situazione resta eguale dal 30 marzo scorso, col solo aggravio di vittime: i cecchini di Tsahal proseguono un criminale tiro al bersaglio sui civili inermi che innalzano bandiere e invettive contro il sistema canagliesco di quello Stato assassino che prendere la mira e fa fuoco su chi rivendica diritti. E dopo aver deciso di far fuori i giornalisti, ora spara sugli operatori sanitari che prestano soccorso ai feriti. E’ accaduto all’infermiera Razan Ashraf al-Najjar, sorriso dolce di ventunenne, che pensava al suo popolo e operava per lui. Per questo nel decimo venerdì di protesta per il diritto al ritorno, macchiato 118 volte dal sangue che l’esercito di Tel Aviv cerca con una tenacia pari alla sua lugubre ferocia, Razan era presso il confine fra Gaza e la terra un tempo palestinese. Fra la polvere e il fumo, sotto il sole e accanto ai giovani che manifestavano. Svolgeva il suo compito di assistenza, dando l’ossigeno a chi soffocava col gas dei lacrimogeni, aiutando i feriti falciati dai micidiali butterfly bullet.
Mentre un ragazzo era steso a terra, colpito da uno di quei proiettili, Razan s’è avvicinata a braccia sollevate e ben visibili. La conoscevano da una parte e dall’altra, faceva servizio da settimane nell’accampamento di Khan Younis. Era vestita di bianco come una sposa, portatrice di speranza di vita di fronte alla morte seminata e incombente. Ha trovato incurante, cinico, assassino dall’altra parte della rete, che i giovani palestinesi in segno di protesta tentano di tagliare, il proiettile che un soldato d’Israele le ha sparato in pieno petto, trasformando il suo panno in una sindone maculata di rosso. In queste condizioni l’hanno raccolta i colleghi che accorrevano disperati sulle povere membra private dall’alito vitale. Così l’hanno trasportata durante il funerale avvolta nella sua bandiera, il vessillo del popolo amato, per cui ha interrotto un’esistenza bella come il suo sguardo d’Oriente. Anche questo è un omicidio premeditato, un crimine di guerra di cui Israele deve rispondere, gettato sul personale sanitario che - denuncia l’Organizzazione Mondiale della Sanità - ha finora fatto segnare 238 feriti e colpito 38 ambulanze. Mentre il padre di Razan, durante il corteo funebre, indicava disperato quel camice arrossato e ripeteva: “Questa era l’arma di Razan”. Un’arma di vita, contro la morte seminata dai suoi assassini.